[Luglio 2018] “Assegno divorzile: le novità della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ”

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n.18287/2018 pubblicata in data 11/7/2018, si è pronunciata in materia di assegno divorzile, introducendo rilevanti elementi di novità rispetto a tutti i precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità.

La norma fondamentale a tutt’oggi in vigore, in materia di assegno divorzile, è l’art.5 comma 6° della legge n.898/1970.

Sino ad ora, vi era stata una generalizzata condivisione - in ambito giurisprudenziale - sulla distinzione tra alcuni criteri dettati dalla norma, per la configurabilità del diritto alla percezione dell’assegno divorzile, rispetto ad altri, anch’essi previsti nello stesso articolo di Legge, riguardanti la quantificazione dello stesso assegno.

In tale contesto, l’assenza di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive venivano considerati i presupposti fondamentali per poter configurare il diritto alla percezione dell’assegno divorzile.

I redditi rispettivi dei coniugi, le ragioni del divorzio, il contributo personale ed economico alla conduzione familiare e alla formazione dei patrimoni personali e di quello comune nonchè la durata del matrimonio, venivano invece considerati quali criteri da adottare per la quantificazione dell’assegno divorzile.

La stessa Corte di Corte di Cassazione (Sezione I; sentenza n.11504/2017, oggetto di nostra precedente circolare informativa), si era già discostata da precedenti e consolidati orientamenti giurisprudenziali, in relazione ai presupposti fondamentali per la configurabilità del diritto alla percezione dell’assegno divorzile.

In quest’ultima sentenza, la Corte Suprema aveva ritenuto che il parametro di riferimento per la valutazione sull’adeguatezza, o meno, dei mezzi di chi richieda l’assegno divorzile ovvero sulla possibilità o meno di procurarseli, dovesse essere individuato nel raggiungimento o nella possibilità del raggiungimento dell’indipendenza economica, da parte del soggetto interessato.

Pertanto, chi risultava essere economicamente indipendente o in grado di poterlo diventare, in linea di principio, non avrebbe più dovuto percepire alcun assegno divorzile.

Era stato quindi disatteso il precedente orientamento della stessa Corte di Cassazione, pressochè costante nel ritenere che il parametro di riferimento - al quale dover rapportare “l’adeguatezza” o meno dei “mezzi” di chi richieda l’assegno - fosse costituito dal “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matriminio stesso, fissate al momento del divorzio” (in tal senso: Cass. Sezioni Unite n.11490/1990; Cass. n.3341/1978, Cass. n.4955/1989, Cass. n.11686/2013, Cass. n.11870/2015).

Nell’ultima sentenza oggetto di questa circolare, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ricorre ad una nuova lettura dell’art.5 comma 6° della legge n.898/1970.

Ad avviso della Corte, la norma non prevede una rigida distinzione tra criteri per la configurabilità del diritto alla percezione dell’assegno e criteri per la sua quantificazione.

Inoltre, se da un lato viene valutato positivamente il superamento del criterio del “tenore di vita in costanza di matrimonio”, anche al fine di evitare il rischio di ingiustificate ed inique “rendite di posizione”, dall’altro si ritiene non possa essere sufficiente, al fine di escludere il diritto alla percezione dell’assegno divorzile, il raggiungimento o la possibilità di raggiungimento dell’indipendenza economica, da parte del soggetto interessato.

Ad avviso della stessa Corte di Cassazione a Sezioni Unite, infatti:

- occorre tenere sempre e comunque conto dell’”effettività della vita coniugale”;

- non deve essere attribuita all’assegno divorzile una natura giuridica esclusivamente assistenziale, “ancorata ad una condizione di autonomia economica…del tutto svincolata dalla relazione matrimoniale”;

- la vita familiare comporta diritti ed obblighi che possono incidere profondamente sulle condizioni personali ed economiche dei coniugi, assumendo particolare rilevanza in caso di cessazione del vincolo coniugale;

- per poter giungere ad una valutazione equilibrata di ciascun caso specifico, occorre quindi ricorrere ad una nuova interpretazione della norma contenuta nell’art.5 comma 6° della legge n.898/1970, valorizzando la funzione “equilibratice-perequativa” dell’assegno divorzile.

Sempre secondo le indicazioni della Corte, in particolare, la valutazione sulla configurabilità o meno del diritto alla percezione dell’assegno divorzile non dovrà riguardare il solo criterio “dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procuraseli per ragioni oggettive”, ma anche tutti gli altri criteri dettati dalla norma in questione che dovranno essere quindi adottati, non solo per la quantificazione dell’assegno ma anche per determinare se lo stesso debba o meno essere riconosciuto;

- in pratica, come ben evidenziato in poche righe nel contesto di una sentenza molto lunga ed articolata, occorrerà procedere “ad una valutazione concreta ed effettiva dell’adeguatezza dei mezzi e dell’incapacità di procurarseli fondata in primo luogo sulle condizioni patrimoniali delle parti, da accertarsi anche utilizzando i poteri istruttori officiosi attribuiti espressamente al Giudice della famiglia a questo specifico scopo. Tale verifica è da collegare causalmente alla valutazione di tutti gli altri indicatori contenuti nell’art.5, c.6, al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all’atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in relazione all’età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro……Ne consegue che la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio….conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso….il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta posssibilità di ricollocamemto nel mercato del lavoro…”.

In pratica, quindi, la Corte di Cassazione ha indicato una nuova soluzione, confermando il superamento dei vecchi riferimenti al “tenore di vita in costanza di matrimonio”, ma evidenziando anche la necessità di assicurare tutela al coniuge più debole ove vi sia una rilevante disparità di condizioni economico-patrimoniali, e ciò anche nei casi in cui non si sia in presenza di una “radicale mancanza di autosufficienza economica ma piuttosto di un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare…”.

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La nuova decisione della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rappresenta un elemento di rilevantissima novità in ambito divorzile.

In sostanza, le Sezioni Unite - pervenendo ad una sorta di compromesso - hanno confermato il superamento del rigido parametro rappresentato dal “tenore di vita in costanza di matrimonio”, nei termini già in precedenza descritti, ma hanno anche escluso che l’autosufficienza economica del soggetto interessato, o la possibilità di conseguirla, facciano automaticamente venir meno il diritto alla percezione dell’assegno divorzile.

Le nuove indicazioni della Corte Suprema, a rigor di logica, dovrebbero imporre approfondite ed articolate istruttorie in ambito divorzile, incidendo anche sulla durata complessiva dei processi.

A quest’ultimo riguardo, quindi, il timore è che sia stato reso ancor più complicato ciò che avrebbe dovuto - invece - essere reso più “semplice” ed immediato, facilitando le attività istruttorie dei Giudici di merito.

Occorrerà ora verificare, in ogni caso, quali saranno i prossimi provvedimenti che verranno adottati dai Tribunali in materia.

Lo Studio è naturalmente a disposizione per ogni ulteriore commento e/o approfondimento.

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Aprile 2018] “Le nuove disposizioni in materia di Privacy: la nomina del D.P.O. (Data Protection Officer) in ambito privato. I chiarimenti del Garante per la Protezione dei dati Personali. ”

Il 25 maggio 2018 entreranno in vigore in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, le disposizioni del Regolamento Europeo n.679/2016 in materia di Privacy.

Come già illustrato in precedente circolare informativa, una delle principali novità introdotte dal Regolamento è rappresentata dalla nuova figura del D.P.O. (Data Protection Officer).
La nomina del D.P.O. è obbligatoria per gli enti pubblici.
Per quanto riguarda, invece, il settore privato occorre determinare, caso per caso, se la nomina del D.P.O. sia o meno obbligatoria.
L’art.37 del Regolamento prevede che la nomina del D.P.O. è obbligatoria se le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono:
- in trattamenti che richiedono il monitoraggio regolare e sistematico di interessati su larga scala;
- nel trattamento su larga scala di categorie particolari di dati o di dati personali relative a condanne penali e reati.

Il Garante per la Protezione dei dati personali ha fornito un elenco, sia pur esemplificativo, di enti privati che devono necessariamente provvedere alla nomina del D.P.O.: istituti di credito, imprese assicurative, sistemi di informazione creditizia, società finanziarie, società di informazioni commerciali, società di revisione contabile, società di recupero crediti, istituti di vigilanza, partiti e movimenti politici, sindacati, caf e patronati, società operanti nel settore delle utilities (telecomunicazioni, distribuzione di energia elettrica o gas), imprese di somministrazione di lavoro e ricerca del personale, società operanti nel settore della cura della salute, della prevenzione/diagnostica sanitaria quali ospedali privati, terme, laboratori di analisi mediche e centri di riabilitazione, società di call center, società che forniscono servizi informatici, società che erogano servizi televisivi a pagamento.

L’elenco è meramente esemplificativo e da non intendersi, quindi, comprensivo di tutte le ipotesi di nomina obbligatoria del D.P.O.

Il Garante per la Protezione dei Dati Personali, anche al di fuori dei casi previsti dall’art.37 del Regolamento, raccomanda comunque la nomina del D.P.O. e ciò vale, a maggior ragione, nei casi dubbi tenendo presente l’estrema severità delle sanzioni in materia (10 milioni di euro o il 2% del fatturato mondiale di gruppo di imprese, per le infrazioni più lievi; 20 milioni di euro o il 4% del fatturato mondiale in presenza di gruppo di imprese, per le infrazioni più gravi).

Il D.P.O. svolge funzioni di supporto e controllo, consultive, formative ed informative, per la più corretta applicazione delle disposizioni del Regolamento.
Deve naturalmente possedere un’approfondita conoscenza della normativa e delle prassi in materia di privacy ed un grado di professionalità adeguato ai compiti affidatigli.
Il D.P.O. deve agire in totale autonomia ed indipendenza, senza essere assoggettato a specifiche direttive ed istruzioni, riportando direttamente ai vertici aziendali.
Sempre secondo quanto chiarito dal Garante per Protezione dei Dati Personali, al D.P.O. devono essere messe a disposizione le risorse necessarie per lo svolgimento dei compiti affidatigli, quali personale, locali ed attrezzature.
Il D.P.O. può essere prescelto all’interno della realtà aziendale, mediante specifico atto di nomina, o all’esterno di essa (tramite un contratto di “servizi”).

Nel scelta del D.P.O. deve essere tenuta ben presente la finalità di evitare qualsivoglia profilo di conflitto di interessi. Il Garante della Protezione dei dati Personali suggerisce quindi di evitare il conferimento della nomina di D.P.O. a soggetti che ricoprano incarichi di alta direzione (amministratore delegato, membri del consiglio di amministrazione, direttori generali etc. etc.) o nell’ambito di strutture che rivestano poteri decisionali sulle finalità e modalità di trattamento dei dati (direzione risorse umane, direzione marketing, direzione finanziaria, responsabile IT etc. etc.).

I tempi per adeguarsi alla nuova normativa sono ormai molto stretti e pertanto anche nel settore privato deve essere necessariamente adottata con urgenza, nei casi in cui ciò non sia ancora avvenuto, ogni decisione anche in merito alla nomina del D.P.O. ed all’individuazione del soggetto idoneo a svolgere tale incarico con i necessari requisiti di professionalità ed autonomia.
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Lo Studio è naturalmente a disposizione per ogni necessità ed approfondimento.
* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Novembre 2017] “Le nuove disposizioni in materia di Privacy (Regolamento Europeo 679/2016)”

Il 25 maggio 2018, salvo proroghe last minute, entreranno in vigore in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, le disposizioni del Regolamento Europeo n.679/2016 in materia di Privacy.

Questo Regolamento ha abrogato la Direttiva Europea 95/46 che, a sua volta, aveva costituito il presupposto per l’adozione di tutte le norme in materia di trattamento di dati personali, norme contenute nel nostro Decreto Legislativo n.196/2003 (cosiddetto “Codice della Privacy”).

Vi è quindi una problematica preliminare da affrontare e risolvere, posto che vi sono alcune previsioni dell’attuale “Codice della Privacy” che appaiono in contrasto con quelle del Regolamento Europeo ed altre che devono essere necessariamente modificate o coordinate con quest’ultime.

In questo contesto, è stata emanata una specifica Legge (n.163 del 25/10/2017, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 6/11/2017: cosiddetta Legge di “delegificazione europea”) ove è stato stabilito che entro sei mesi a partire dalla data di sua entrata in vigore (21/11/2017), dovranno essere adottati specifici Decreti Legislativi finalizzati a:

- abrogare le disposizioni del “Codice della Privacy” che siano incompatibili ed in contrasto con quelle del Regolamento Europeo;

- apportare ogni necessaria modifica alle disposizioni del “Codice della Privacy”, in modo da renderle conformi alle disposizioni del Regolamento;

- verificare e valutare l’opportunità di rivolgersi all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, per l’adozione di provvedimenti che integrino e rendano correttamente attuabili in Italia le disposizioni del Regolamento Europeo;

- coordinare ed adeguare il regime delle sanzioni previste dal “Codice della Privacy” con quello del Regolamento Europeo.

Per poter disporre di quadro normativo corretto e completo, quindi, occorrerà attendere la ormai prossima emanazione dei Decreti Legislativi.

Già sin d’ora, tuttavia, è possibile confrontare i testi del Decreto Legislativo n.196/2003 e del Regolamento Europeo per segnalare alcune delle principali e più significative novità in materia.

- In linea generale, vi è un sostanziale cambiamento di prospettiva rispetto all’attuale quadro normativo.

Il “Codice della Privacy”, nella sua attuale versione, indica in sostanza quali sono, in determinate circostanze, le misure e le soluzioni da adottare nel trattamento di dati personali, per porsi al riparo da eventuali contestazioni e sanzioni da parte degli organi competenti.

La “ratio” sottesa alle disposizioni del Regolamento Europeo è differente. Il Regolamento, infatti, specifica quali devono essere i connotati di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento dei dati, ma non indica soluzioni tecniche minime e sufficienti che possano costituire una sorta di “garanzia” per chi sia titolare o responsabile dei trattamenti medesimi.

Ognuno è libero di adottare le soluzioni più aderenti alla propria realtà ma deve essere in grado di dimostrare di avere effettuato approfondite analisi interne e di avere approntato procedure e soluzioni tecniche tali da porre in sicurezza il trattamento dei dati e scongiurare possibili pregiudizi ai diretti interessati.

Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva che può essere accostata a quella di altri fondamentali impianti normativi, quali quelli in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro (Decreto Legislativo n.81/2008) e di prevenzione dei reati in ambito societario (Decreto Legislativo n.231/2001).

Non si tratta, quindi, di un nuovo approccio in termini assoluti ma di una nuova normativa, più al passo con i tempi e con le continue innovazioni tecnologiche.

Ovviamente, come in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione dei reati in ambito societario, l’applicazione concreta della nuova normativa in materia di Privacy impatterà inevitabilmente su enti pubblici ed imprese, sia in termini organizzativi sia in termini di costi.

- Informativa e consenso: rispetto a quanto previsto nell’attuale “Codice della Privacy”, l’informativa al diretto interessato dovrà essere maggiormente sintetica, trasparente, ben comprensibile, facilmente accessibile e comprensiva di specifiche indicazioni in relazione al periodo di conservazione dei dati ed al diritto dell’interessato di esigerne il trasferimento a terzi (cosiddetta “portabilità dei dati”).

Il consenso dovrà essere prestato in forma libera ed in modo inequivocabile; inoltre, dovrà essere completo e quindi riferito ad ogni eventuale modalità e finalità di trattamento. E ancora, i diretti interessati dovranno essere posti nella condizione di poter revocare il loro consenso con analoga facilità rispetto all’originaria autorizzazione al trattamento dei dati.

Le nuove previsioni si innestano su un impianto normativo precedente meno rigoroso.

Occorre tenere presente che anche nell’ultimo periodo si sono registrare numerose contestazioni del Garante in relazione a non corrette o inidonee informative o raccolte di consenso e pertanto, a maggior ragione, occorrerà prestare particolare cura ed attenzione, a tale riguardo, nella vigenza delle disposizioni del Regolamento Europeo.

- Registro dei trattamenti dei dati: si tratta di una sorta di libro-contenitore, da aggiornare periodicamente, che dovrà contenere tutto ciò che riguarda i trattamenti dei dati: indicazione di titolare, responsabile, incaricati ed eventuale “D.P.O.” (Data Protection Officer, vedi a seguire), finalità e descrizione dei trattamenti, tipologie e modalità di trasferimento dei dati, misure di sicurezza adottate….

In realtà, la tenuta del registro non sarà obbligatoria per tutti ma per le sole imprese che impeghino più di 250 dipendenti. Occorre tuttavia considerare che, in caso di verifiche da parte dell’Autorità competente, tutte le imprese saranno tenute a dimostrare di avere effettuato e adottato tutte le analisi, verifiche, procedure e misure idonee a porre in sicurezza i dati e ad evitare pregiudizi ai diretti interessati.

Tutte le imprese, quindi, dovranno fornire una prova documentale e proprio per tale ragione, vi è già stato un “suggerimento” da parte dell’Autorità Garante, nel senso di far adottare a tutte le imprese il Registro, a prescindere dal numero dei dipendenti che impiegano.

- D.P.I.A. (“Data Protection impact assessment”): si tratta della valutazione dei rischi sottesi al trattamento dei dati, che deviene obbligatoria in presenza di “rischio elevato”.

L’analisi dovrà essere effettuata con modalità e criteri già parzialmente previsti dal Regolamento. Ciò non significa, naturalmente, che realtà a “rischio non elevato” non debbano effettuare l’analisi preventiva dei propri trattamenti e dei relativi e potenziali rischi.

Quest’ultima analisi spetta a tutti ma le particolari modalità ed i criteri previsti dal Regolamento dovranno essere rispettati solo in caso di “rischio elevato”.

A quest’ultimo riguardo, il Regolamento prevede che verrà meglio specificato, in apposito elenco, in quali casi vi sara l’obbligo concernente la “D.P.I.A.”.

- D.P.O. (“Data Protection Officer”): si tratta, in sostanza, di un organo indipendente che dovrà verificare la conformità alle disposizioni del Regolamento, delle procedure e delle soluzioni adottate per il più idoneo trattamento dei dati.

La nomina del “D.P.O.” è obbligatoria in presenza di rischi elevati nel trattamento dei dati (enti pubblici; trattamento di rilevanti entità di dati personali; trattamento sistematico di dati sensibili e/o giudiziari). Il “D.P.O.” può essere prescelto tra risorse interne o all’esterno dell’azienda e deve ovviamente presentare requisiti di particolare professionalità e competenza.

- Regime sanzionatorio: il Regolamento introduce sanzioni amministrative indicandone solo ed esclusivamente il tetto massimo (10 milioni di euro o il 2% del fatturato mondiale di gruppo di imprese, per le infrazioni più lievi; 20 milioni di euro o il 4% del fatturato mondiale in presenza di gruppo di imprese, per le infrazioni più gravi). Si pone un problema di coordinamento, come già accennato, in relazione a queste specifiche previsioni del Regolamento, rispetto al regime sanzionatorio - anche penale - dell’attuale “Codice della Privacy”. Sul punto, dovrà necessariamente intervenire il Legislatore in attuazione della ricordata Legge di delegificazione europea.

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* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

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[Ottobre 2017] “I criteri di risarcimento del danno non patrimoniale: le più recenti indicazioni della Corte di Cassazione.”

La Corte di Cassazione, in una recentissima sentenza (n.21939 del 21 settembre 2017), ha fornito alcune rilevanti indicazioni in materia di risarcimento del danno non patrimoniale.

La Corte, richiamando suoi precedenti ed ormai consolidati orientamenti, ha innanzi tutto ribadito che il danno non patrimoniale ha una natura composita, essendo formato da:

- danno morale, identificabile con la ben possibile sofferenza interiore o lesione alla dignità ed integrità personale, derivante da un sinistro;

- danno biologico, da intendersi quale lesione dell’integrità psico-fisica, del cosiddetto “bene salute”;

- danno esistenziale, ricollegabile ad un particolare “sconvolgimento” delle abitudini di vita del soggetto danneggiato.

Per la quantificazione del danno non patrimoniale occorre distinguere le conseguenze “ordinarie” di un sinistro, vale a dire quelle che subirebbe qualsivoglia soggetto in presenza di analoghe lesioni, da quelle “peculiari” o “particolari” del sinistro stesso, che possono verificarsi un un determinato caso e non in altri.

Le prime devono essere quantificate adottando un criterio necessariamente uniforme mentre le seconde devono essere valorizzate caso per caso, con un criterio privo di rigidi automatismi.

Per la quantificazione delle conseguenze “ordinarie” di un sinistro, ormai da anni i Giudici di merito italiani utilizzano - quale principale parametro di riferimento - specifiche Tabelle predisposte dal Tribunale di Milano che indicano importi precisi e che tengono conto, caso per caso, della percentuale di invalidità subita e dell’età del soggetto danneggiato.

La finalità dell’utilizzo di tali Tabelle è quella di pervenire ad un’uniformità, almeno tendenziale, dei risarcimenti in casi analoghi.

Per le conseguenze “peculiari” o “particolari” del sinistro, occorre invece procedere ad una “personalizzazione” del danno, che consiste essenzialmente in un aumento, in percentuale variabile da caso a caso, delle indicazioni tabellari.

La Corte di Cassazione, nella sua recente sentenza, ha fornito specifiche indicazioni proprio in relazione ai criteri che dovrebbero essere posti a base della “personalizzazione” del danno non patrimoniale.

In sostanza, la Corte ha chiarito che i Giudici di merito, nel riconoscere una “personalizzazione” del danno non patrimoniale, devono adottare nelle loro sentenze delle motivazioni nelle quali siano chiaramente valorizzate ed evidenziate le circostanze specifiche che giustifichino, caso per caso, un risarcimento che superi le indicazioni tabellari.

Tali motivazioni e circostanze specifiche, a loro volta, dovranno fondarsi su prove che siano emerse nel corso del processo. Il soggetto danneggiato, in altre parole, dovrà dimostrare di avere diritto ad una “personalizzazione” del danno subito.

Molto spesso si è assistito a sentenze ove è stata riconosciuta una “personalizzazione” del danno non patrimoniale ricorrendo a richiami eccessivamente generici, con il rischio di una duplicazione di risarcimento nell’ambito delle sole conseguenze “ordinarie” del sinistro.

Le nuove indicazioni della Corte di Cassazione in materia sono appunto dirette ad evitare tale rischio in futuro, rendendo più facilmente impugnabili decisioni dei Giudici di merito che presentino omissioni o carenze nelle motivazioni, pur riconoscendo una specifica “personalizzazione” del danno non patrimoniale.

Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, la Corte d’Appello di Roma aveva attuato una “personalizzazione” del danno non patrimoniale riconosciuto al soggetto danneggiato, richiamando circostanze generiche e astrattamente riconducibili a qualunque soggetto vittima di analoghe lesioni.

La Corte di Cassazione, quindi, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando il procedimento ad altra Sezione della stessa Corte d’Appello di Roma per l’emissione di una decisione conforme ai principi in precedenza ricordati.

Occorrerà ora verificare quali saranno i prossimi provvedimenti che verranno adottati dai Giudici di merito dei diversi Fori in materia di risarcimento del danno non patrimoniale e come verranno recepite le ultime indicazioni della Corte di Cassazione.

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Lo Studio è naturalmente a disposizione per ogni ulteriore commento e/o approfondimento.

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

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[Giugno 2017] “Assegno divorzile e “tenore di vita”: il nuovo orientamento della Corte di Cassazione ed il primo provvedimento del Tribunale di Milano”

Negli ultimi giorni i Media nazionali hanno dato ampio risalto, a volte in modo troppo sintetico o impreciso, alla recente sentenza della Corte di Cassazione (Sezione I Civile) del 10 maggio 2017 n.11504, in materia di assegno divorzile, che si è significativamente discostata da precedenti orientamenti della stessa Corte, anche a Sezioni Unite, e da molteplici sentenze di merito che hanno rappresentato per molti anni un costante riferimento per i tutti i Tribunali italiani.

Innanzi tutto, è necessario ricordare che la norma fondamentale a tutt’oggi in vigore in materia di assegno divorzile, è l’art.5 comma 6° della legge n.898/1970 secondo cui, anche alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, il presupposto fondamentale per poter far sorgere il diritto alla percezione dell’assegno divorzile è l’assenza di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.

La stessa norma, una volta accertato il diritto alla percezione dell’assegno, detta i criteri per la sua quantificazione, quali i redditi rispettivi dei coniugi, le ragioni del divorzio, il contributo personale ed economico alla conduzione familiare e alla formazione dei patrimoni personali e di quello comune, la durata del matrimonio.

Con riferimento alla sussistenza o meno del diritto alla percezione dell’assegno divorzile, il consolidato e precedente orientamento della Corte di Cassazione è stato costante nel ritenere che il parametro di riferimento - al quale dover rapportare “l’adeguatezza” o meno dei “mezzi” di chi richieda l’assegno - consiste nel “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matriminio stesso, fissate al momento del divorzio” (in tal senso: Cass. Sezioni Unite n.11490/1990; Cass. n.3341/1978, Cass. n.4955/1989, Cass. n.11686/2013, Cass. n.11870/2015).

La Corte di Cassazione, nella sentenza del 10 maggio 2017 n.11504, ha ritenuto di dover rivedere tale orientamento, per le seguenti e molteplici ragioni:

-a) con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue anche sotto l’aspetto economico-patrimoniale e pertanto non ha alcun senso ancorare la valutazione sull’esistenza, o meno, del diritto alla percezione dell’assegno divorzile ad un criterio - quale quello del “tenore di vita” – che presuppone un vincolo matrimoniale ancora in essere;

-b) l’assegno divorzile viene riconosciuto a favore di una persona “singola” e non più parte di un rapporto matrimoniale ormai estinto, per effetto del divorzio, anche sul piano economico patrimoniale;

-c) la valutazione, da parte del Giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale sotto l’aspetto economico patrimoniale, è normativamente prevista solo ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile, e non ai fini della valutazione sull’esistenza o meno del diritto alla sua percezione;

-d) il contesto sociale in cui si era formato il precedente orientamento giurisprudenziale è mutato nel corso degli anni ed oggi è ormai generalmente condiviso il significato del matrimonio quale atto di libertà ed “autoresponsabilità” nonché luogo di affetti e di comunione di vita, in quanto tale “dissolubile”. E’ particolarmente significativo, a quest’ultimo riguardo, che la stessa Corte di Cassazione abbia già ripetutamente indicato che il coniuge beneficiario di assegno divorzile che formi una nuova famiglia di fatto, perde il proprio diritto alla relativa percezione (in tal senso: Cass. n.6855/2015 e Cass. n.2466/2016). A ciò si aggiunga che un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che protragga a tempo indeterminato gli effetti economico patrimoniali del vincolo matrimoniale, potrebbe tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo;

-e) la circostanza che altra norma della Legge n.898/1970 faccia espresso riferimento al “tenore di vita” (art.5, comma 9°: “…In caso di contestazioni il Tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”), non rileva in relazione alla sussistenza del diritto alla percezione dell’assegno divorzile, ma solo ai fini dell’ accertamento dell’effettiva consistenza patrimoniale e reddituale dei coniugi;

-f) il parametro del raggiungimento dell’indipendenza economica ha una base normativa, per analogia, nell’art.337septies cod. civ., ove è previsto che “il Giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”. Se il requisito dell’indipendenza economica vale in relazione ad un rapporto di filiazione - per sua natura stabile e permanente – ciò deve valere, a maggior ragione, in ambito divorzile ed a rapporto matrimoniale ormai estinto.

Sia l’art.5 comma 6° della Legge n.898/1970 sia l’art.337septies cod. civ. sono ispirati al principio di “autoresponsabilità economica”, di respiro europeo, che vale sicuramente anche in riferimento al divorzio che presuppone scelte definitive “che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi…delle relative conseguenze anche economiche”.

Sulla base delle argomentazioni sinteticamente ricordate, la Corte di Cassazione nella sua nuova sentenza ha ritenuto che il parametro di riferimento per la valutazione sull’adeguatezza, o meno, dei mezzi di chi richieda l’assegno divorzile ovvero sulla possibilità o meno di procurarseli, debba essere individuato nel raggiungimento o nella possibilità del raggiungimento dell’indipendenza economica del soggetto interessato. Pertanto, chi risulti essere economicamente indipendente o in grado di poterlo diventare, non ha diritto alla percezione dell’assegno divorzile.

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Ma la recente Corte di Cassazione ha anche indicato specifici indici per la valutazione dell’indipendenza economica del soggetto che richieda l’assegno e per determinare, quindi, se ne abbia o meno diritto.

Gli indici indicati dalla Corte sono i seguenti:

-il possesso di redditi di qualsiasi specie;

-il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenendo conto di tutti i relativi oneri e del costo della vita nel luogo ove vive chi richiede l’assegno;

-le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;

-la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

Secondo la Corte spetta a chi chiede l’assegno dimostrare di non disporre di mezzi adeguati alla propria indipendenza economica e di non poterseli procurare per ragioni oggettive.

Più specificamente, i redditi ed i cespiti patrimoniali possono essere provati documentalmente - fatta salva, in caso di motivata contestazione, la facoltà del Giudice di disporre indagini, anche con l’eventuale ausilio della polizia tributaria - mentre le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale possono essere provate con ogni mezzo, anche per presunzioni, fermo restando che il soggetto richiedente l’assegno deve allegare, e provare specificamente in caso di contestazione, quali iniziative abbia assunto per cercare di raggiungere uno stato di indipendenza economica, “secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative”.

Una volta accertato il diritto alla percezione dell’assegno sulla base degli indici in precedenza indicati, potrà determinarsi la misura dell’assegno stesso, sulla base dei criteri di Legge già indicati all’inizio di questa circolare (pagina 1).

Dopo la sentenza in esame, vi è stato, tra gli altri, un primo provvedimento del Tribunale di Milano (Sezione Nona, ordinanza 2 maggio 2017, estensore Dott. Buffone) che, dopo aver richiamato le indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza, ha disposto che “…per indipendenza economica deve intendersi la capacità per una determinata persona adulta e sana – tenuto conto del contesto sociale di riferimento – di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse sufficienti per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali). Un parametro (non esclusivo) di riferimento può essere rappresentato dall’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che, ad oggi, è di euro 11.528,41 annui ossia circa euro 1000 mensili). Ulteriore parametro, per adattare “in concreto” il concetto di indipendenza, può anche essere il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita”.

Il Tribunale, quindi, ha indicato dei possibili riferimenti di natura reddituale per la determinazione dell’autosufficienza economica di chi richieda l’assegno divorzile.

Nel caso esaminato dal Tribunale di Milano, il diritto alla percezione dell’assegno divorzile è stato negato in presenza di coniugi con rispettivi redditi da lavoro mensili (euro 2.950,00 netti per l’ex marito ed euro 1.700,00 netti per l’ex moglie) e con rispettive abitazioni. In sede di separazione, il marito aveva ceduto alla moglie, a titolo gratuito, la propria quota di proprietà dell’ex casa coniugale, trasferendosi in altra abitazione in locazione. Uno solo dei tre figli non era economicamente indipendente (con relativo assegno di contributo al mantenimento mensile a carico del padre, per euro 450,00). E ancora, l’ex moglie poteva beneficiare di polizza dell’ex coniuge per la copertura delle spese sanitarie latamente intese.

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Il nuovo orientamento della Corte di Cassazione rappresenta indubbiamente un elemento di rilevante novità in ambito divorzile.

Occorre tuttavia attendere per verificare se vi saranno differenti orientamenti da parte di altre Sezioni della Corte, con conseguente necessità di intervento delle Sezioni Unite, oppure se si assisterà ad un “consolidamento” di quello oggetto della sentenza in precedenza esaminata.

Per quanto concerne i Giudici di merito, appare certamente significativo il primo provvedimento del Tribunale di Milano, in linea con le recenti indicazioni della Corte di Cassazione.

Deve essere tuttavia tenuto presente che il caso sottoposto al Tribunale non presentava particolari criticità, posto che la problematica delle rispettive abitazioni era già stata affrontata e risolta dai coniugi in sede di separazione, che due dei tre figli avevano già raggiunto la loro indipendenza economica e che entrambi gli ex coniugi disponevano di buoni introiti lavorativi.

Occorrerà anche verificare quali saranno i prossimi provvedimento che verranno adottati dai Tribunali in materia di assegno divorzile, soprattutto in relazione a casi meno semplici e “lineari”, rispetto a quello oggetto della ricordata ordinanza del Foro milanese.

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Lo Studio è naturalmente a disposizione per ogni ulteriore commento e/o approfondimento.

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Febbraio 2017] “Responsabilità medica: le principali novità della Riforma (DDL approvato dal Senato in data 11/1/2017) Parte 2 “

Nella precedente circolare informativa sono state descritte le principali novità del Disegno di Legge riguardanti: le buone pratiche e le linee guida; i profili di responsabilità civile e penale; gli aspetti procedurali e risarcitori; gli obblighi informativi e di trasparenza per le strutture sanitarie pubbliche e private.

Passiamo ora ad esaminare le ulteriori e principali novità della nuova normativa che, crisi politiche permettendo, dovrebbe essere approvata dalla Camera dei Deputati in tempi ragionevoli.

1) OBBLIGHI ASSICURATIVI E “MISURE” ALTERNATIVE.

1.a) Obblighi assicurativi: nel Disegno di Legge (articolo 10), pur con modalità formali poco felici, viene riconfermato l’obbligo per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private, già previsto dalla normativa vigente (Legge n.114/2014), di dotarsi di una copertura assicurativa per la responsabilità civile verso terzi (RCT) e per la responsabilità civile verso i prestatori d’opera (RCO), a tutela dei pazienti e del personale, con una miglior precisazione che lo stesso obbligo deve riguardare anche:

-i danni causati dal personale che operi, a qualunque titolo, presso le strutture sanitare e socio sanitarie pubbliche o private, incluso il personale che svolga attività di formazione ed aggiornamento ovvero di ricerca clinica;

-le prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria, in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale o mediante la telemedicina.

Le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private non hanno, invece, alcun obbligo assicurativo per le prestazioni sanitarie svolte all’esterno delle medesime strutture e per quelle svolte al loro interno da parte di chi operi in regime libero-professionale non intra moenia ovvero in esecuzione di un rapporto contrattuale diretto con il paziente. Pertanto, chi opera in regime libero-professionale secondo le modalità appena sopra indicate, deve dotarsi di una propria, idonea copertura assicurativa, come già prevede – peraltro – la vigente normativa, anche in ambito deontologico.

Fermo quanto sopra, gli esercenti la professione sanitaria che operino a qualunque titolo all’interno di strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private, dovranno comunque dotarsi - con oneri a loro carico - di copertura assicurativa per i casi di colpa grave, al fine di garantire l’efficacia di specifiche e possibili azioni conseguenti al sinistro, quali quelle di rivalsa e di responsabilità amministrativa che verranno trattate in punto successivo.

La nuova normativa stabilisce inoltre che le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private pubblichino, nei propri siti Internet, le denominazioni delle loro compagnie assicuratrici per la responsabilità civile, indicando “per esteso i contratti e le clausole assicurative”.

La “garanzia assicurativa” dovrà prevedere un’estensione, coprendo anche il rischio relativo ad eventi che siano accaduti nei dieci anni antecedenti al perfezionamento dei relativi contratti assicurativi e che siano stati denunciati durante il periodo di vigenza temporale delle polizze.

Inoltre, le polizze dovranno prevedere un periodo di “ultrattività” della garanzia, in caso di cessazione definitiva dell’attività professionale, per le richieste di risarcimento che pervengano entro un periodo di dieci anni, se riferite ad aventi che siano accaduti durante il periodo di vigenza delle polizze ovvero nei dieci anni precedenti (articolo 11).

L’estensione e l’ultrattività appena descritte richiederebbero maggiori precisazioni in sede di approvazione definitiva della riforma, in quanto allo stato non vi è certezza assoluta che tali previsioni si riferiscano sia alle polizze che devono essere stipulate dalle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private sia a quelle che devono essere stipulate dagli esercenti la professione sanitaria.

1.b) Misure alternative alle coperture assicurative e requisiti minimi di tali misure e delle polizze assicurative: il Disegno di Legge prevede che per le sole strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private, in alternativa alle coperture assicurative indicate al precedente punto 1.a), possano essere adottare altre “analoghe misure”, in relazione ai medesimi rischi.

Con Decreto Ministeriale, da emanarsi entro quattro mesi dall’entrata in vigore della nuova normativa, verranno stabiliti i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività delle “analoghe misure” da adottarsi in alternativa alle coperture assicurative, inclusi i casi di assunzione diretta del rischio da parte delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private.

Lo stesso Decreto dovrà disciplinare le regole per il trasferimento del rischio, nel caso di subentro di una nuova compagnia di assicurazione, nonché le modalità di previsione – nei bilanci delle strutture più volte richiamate – di un “fondo rischi” e di un “fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati”.

Anche le misure alternative adottate dovranno essere pubblicate nei siti Internet delle stesse strutture sanitarie e sociosanitarie.

Infine, il Decreto Ministeriale dovrà determinare i requisiti minimi delle polizze assicurative con le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e con gli esercenti le professioni sanitarie nonchè specifiche classi di rischio, con corrispondenti massimali differenziati.

2) AZIONE DIRETTA DEL SOGGETTO DANNEGGIATO NEI CONFRONTI DELL’ASSICURATORE.

Con disposizione di portata fortemente innovativa, il Disegno di Legge prevede che il soggetto danneggiato ha il diritto di agire direttamente nei confronti delle compagnie di assicurazione:

-delle strutture socio sanitarie pubbliche o private;

-dell’esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività all’esterno di tali strutture oppure al loro interno, in regime libero-professionale ovvero in esecuzione di un rapporto contrattuale diretto con il paziente (articolo 12).

L’azione diretta nei confronti dell’assicuratore - che permetterà finalmente un immediato e diretto convoglimento delle compagnie - dovrà essere preceduta, a pena di improcedibilità, da un procedimento di mediazione ovvero da un un procedimento di consulenza tecnica preventiva, come già ricordato nella precedente circolare informativa. Ovviamente, l’azione potrà essere esercitata solo entro i limiti di massimale previsti dalla relativa polizza assicurativa.

Opportunamente, la nuova normativa prevede che le strutture socio sanitarie pubbliche o private e gli esercenti la professione sanitaria saranno litisconsorti necessari ovvero devono obbligatoriamente essere parte nei giudizi promossi, nei confronti delle loro rispettive compagnie di assicurazione, da parte dei soggetti danneggiati.

E’ previsto che tutte le disposizioni relative all’azione diretta nei confronti dell’assicuratore entreranno in vigore all’atto dell’emanazione del Decreto Ministeriale che dovrà stabilire i requisiti minimi delle polizze assicurative.

Le strutture sanitarie e sociosanitarie e le compagnie di assicurazione nei cui confronti sia stato promosso un giudizio da parte del soggetto danneggiato, dovranno darne notizia all’esercente la professione sanitaria interessato, entro il termine di dieci giorni dalla ricevimento dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata a.r.

Analogo termine dovrà essere rispettato dalle strutture sanitarie e sociosanitarie e dalle compagnie di assicurazione, per comunicare all’esercente la professione sanitaria l’avvio di trattative stragiudiziali con il soggetto danneggiato, con espresso invito a parteciparvi.

L’omissione, l’incompletezza od anche il semplice ritardo nelle comunicazioni appena sopra indicate determinerà l’inammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa che verranno subito di seguito trattate (articolo 13). Si tratta, quindi, di una previsione particolarmente, e forse eccessivamente, severa per i casi di semplici incompletezza e/o ritardo che non determinino particolari pregiudizi.

3) LE AZIONI DI RIVALSA E DI RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA.

3.a) Azione di rivalsa.

Come noto, il soggetto che ha risarcito il danno (strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private e compagnie di assicurazione delle stesse ovvero degli esercenti la professione sanitaria), ha il diritto di agire in rivalsa nei confronti di chi lo abbia causato.

La nuova normativa prevede che detta azione può essere esercitata solo in caso di dolo e colpa grave di chi abbia causato il danno (articolo 9).

Il Disegno di Legge inoltre, e con disposizione sicuramente innovativa e particolarmente tutelante per gli esercenti la professione sanitaria, stabilisce dei limiti massimi, per l’esercizio dell’azione di rivalsa nei casi di colpa grave; limiti, ovviamente, non applicabili nell’ipotesi di dolo.

Più specificamente:

-I) in caso di accoglimento della domanda risarcitoria proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o socio sanitaria pubblica ovvero nei confronti dell’esercente la professione sanitaria (che non operi all’esterno delle strutture oppure al loro interno, in regime libero professionale o in esecuzione di un rapporto contrattuale diretto con il paziente), la rivalsa della compagnia di assicurazione, per i casi di colpa grave, non potrà superare una somma “pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente successivo, moltiplicato per il triplo;

-II) in caso di accoglimento della domanda risarcitoria proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata ovvero della compagnia di assicurazione di quest’ultima, la misura massima della rivalsa della compagnia di assicurazione non potrà superare una somma “pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo”.

Per contro, nessun limite si applica agli esercenti la professione sanitaria che operino all’esterno delle strutture oppure al loro interno, in regime libero professionale o in esecuzione di un rapporto contrattuale diretto con il paziente.

Il Disegno di Legge, inoltre, prevede alcune disposizioni di carattere processuale in relazione alla decadenza dall’esercizio dell’azione di rivalsa nonché agli effetti della sentenza e della transazione, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria che non abbia partecipato al giudizio o all’accordo transattivo.

3.b) Azione di responsabilità amministrativa.

Anche per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa che, come noto, può essere esercitata solo nei casi di dolo o colpa grave e nei confronti dei dipendenti o degli esercenti la professione sanitaria con un rapporto di servizio con le strutture sanitarie e socio sanitarie pubbliche, il Disegno di Legge - con disposizione di portata fortemente innovativa - prevede limiti massimi, per le eventuali condanne, nella misura indicata al precedente punto 3.a.I).

L’iniziativa per l’esercizio dell’azione è riservata al Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti.

Ai fini della quantificazione del danno, dovrà tenersi conto delle situazioni di particolare difficoltà - anche di natura organizzativa - della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, nelle quali l’esercente la professione sanitaria abbia dovuto operare.

Il Disegno di Legge prevede, inoltre, che per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento delle domande risarcitorie del danneggiato, l’esercente la professione sanitaria, nell’ambito di struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti; l’esito del giudizio è oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari, nell’ambito dei concorsi per incarichi superiori.

Concluso l’esame dei punti essenziali del Disegno di Legge, non resta che attendere la prossima e definitiva approvazione della riforma da parte della Camera dei Deputati.

Eventuali modifiche di rilievo nel testo definitivo costituiranno oggetto di specifica ed ulteriore circolare informativa.

* Avv. Marco Emanuele Galanti – Avv. Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Febbraio 2017] “Responsabilità medica: le principali novità della Riforma (DDL approvato dal Senato in data 11/1/2017) Parte 1 “

In data 11/1/2017 il Senato ha approvato un Disegno di Legge che prevede, “in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, rilevanti novità destinate ad avere indubbi impatti anche all’interno delle strutture sanitarie pubbliche e private, sotto il profilo gestionale ed organizzativo.

Il testo definitivo dovrebbe essere approvato dalla Camera dei Deputati, senza sostanziali modifiche, entro il mese di marzo salvo imprevisti di natura politica.

Illustriamo di seguito le principali novità che verranno introdotte dalla nuova normativa.

1)BUONE PRATICHE, RACCOMANDAZIONI E LINEE GUIDA

In materia di responsabilità medica, è previsto che gli esercenti le professioni sanitarie devono attenersi a raccomandazioni previste in specifiche “linee guida” che dovranno essere elaborate da enti ed istituzioni pubbliche e private nonché da società ed associazioni scientifiche, facenti parte di un elenco che dovrà essere istituito e regolamentato da un successivo Decreto Ministeriale, da emanarsi entro tre mesi dall’entrata in vigore della nuova normativa.

Nel nuovo Disegno di Legge sono peraltro già indicati i requisiti e le principali modalità di funzionamento degli enti, delle istituzioni, delle associazioni e delle società appena sopra indicate (articolo 5, comma 2°).

E’ previsto inoltre che le linee guida ed i loro aggiornamenti vengano “integrati” nel Sistema Nazionale per le linee guida (SNLG), che verrà istituito con successivo Decreto Ministeriale, per essere pubblicati sul sito Internet dell’Istituto Superiore di Sanità Pubblica.

Sino a quando non saranno disponibili le linee guida, occorrerà far riferimento alle buone pratiche clinico-assistenziali ricollegabili all’attività dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) e dell’attuale Osservatorio delle Buone Pratiche per la sicurezza del paziente. Dall’anno 2008 infatti, grazie alla collaborazione tra AGENAS ed Osservatorio, da un lato, e Regioni e strutture sanitarie dall’altro, sono state individuate molteplici, buone pratiche clinico-assistenziali, reperibili sul sito Internet dello stesso Osservatorio mediante uno specifico motore di ricerca.

Vediamo ora quale rilievo assumeranno le raccomandazioni delle nuove linee guida (ovvero, in mancanza di dette raccomandazioni, le buone pratiche tecnico-assistenziali) nei casi di responsabilità medica e nei relativi procedimenti in ambito penale e civile.

2) RESPONSABILITA’ PENALE E CIVILE

2.a) Per quanto attiene all’ambito penale, il Disegno di Legge, all’articolo 6, prevede l’introduzione di un nuovo articolo nel codice penale vigente (art.590-sexies), in relazione a fatti riconducibili agli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni colpose).

In particolare, quando la morte o le lesioni si siano verificate a causa di imperizia, la punibilità dell’esercente la professione sanitaria è esclusa se sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle nuove linee guida ovvero, in loro mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle linee guida risultino adeguate “rispetto alla specificità del caso concreto”.

La norma fa quindi riferimento alle ipotesi di imperizia, vale a dire di condotte incompatibili con quel livello di cognizione tecnica, di cultura, di esperienza e di capacità professionale che costituiscono il presupposto necessario per l’esercizio della professione medica. Sono quindi escluse le differenti ipotesi di negligenza (da intendersi quale trascuratezza, disattenzione, omissione o ritardo) e di imprudenza (da intendersi quale superficialità o temerarietà, come nei casi in cui il medico esorbiti dalle proprie, specifiche competenze specialistiche), per le quali non è prevista alcuna esimente. Tuttavia, è innegabile che a volte non sarà di immediata e facile valutazione il confine tra imperizia, negligenza ed imprudenza, ma il dato letterale e normativo prevede che, solo per i casi di morte o di lesioni determinate da imperizia, è esclusa la punibilità dell’esercente la professione sanitaria che abbia rispettato raccomandazioni/buone pratiche adeguate rispetto al caso concreto.

Nello stesso Disegno di Legge, inoltre e per evidenti necessità di coerenza normativa, è prevista l’abrogazione dell’art.3 comma 1° della Legge n.189/2012 (Legge Balduzzi) che prevede la non punibilità, per i soli casi di colpa lieve, dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunita’ scientifica.

2.b) Per quanto attiene all’ambito civile, vengono delineate due differenti aree di responsabilità per le strutture sanitarie pubbliche o private e per gli esercenti la professione sanitaria:

-di natura contrattuale per le strutture sanitarie pubbliche o private che si avvalgano dell’opera di esercenti le professioni sanitarie, anche se scelti dal paziente e non dipendenti delle stesse strutture, incluse anche le prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria, in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale nonché quelle svolte nell’ambito di attività di sperimentazione e ricerca clinica ovvero mediante la telemedicina;

-di natura extra-contrattuale per l’esercente la professione sanitaria come sopra definito, salvo il caso in cui lo stesso abbia agito in forza di un’obbligazione contrattuale diretta con il paziente (articolo 7).

La differenziazione tra le due aree di responsabilità ha rilevanza sotto due profili: l’onere della prova e la prescrizione.

In relazione all’area della responsabilità extra-contrattuale, infatti, spetta a chi agisce in giudizio, lamentando una malpractice sanitaria, fornire prova del danno, della sua riconducibilità all’operato dell’esercente la professione sanitaria e, infine, della responsabilità dolosa o colposa di quest’ultimo.

Per contro, in ambito contrattuale spetta alla struttura sanitaria pubblica o privata che ha fornito la prestazione sanitaria dimostrare di aver ben operato e fatto tutto il possibile per evitare l’evento dannoso.

Il termine di prescrizione del diritto per la responsabilità extra-contrattuale è più breve (5 anni) di quello previsto in ambito contrattuale (10 anni).

Quindi, per i soli esercenti la professione sanitaria che non abbiano assunto obblighi contrattuali diretti con il paziente (fattispecie sicuramente prevalente), la nuova normativa prevede una responsabilità di natura extra-contrattuale, con conseguente trattamento più favorevole rispetto al passato e con ben prevedibili e rilevanti effetti nei futuri contenziosi in ambito civile ove, di fatto e nella gran parte dei casi, si assisterà ad oneri probatori differenti per le strutture sanitarie, rispetto agli esercenti la professione sanitaria.

3) RISARCIMENTO DEL DANNO E PROCEDURE.

Per quanto concerne la problematica del risarcimento del danno, la nuova normativa prevede che il Giudice dovrà valutare la condotta del medico tenendo conto sia delle raccomandazioni delle linee guida, ovvero delle buone pratiche clinico-assistenziali, sia delle previsioni del nuovo articolo 590-sexies cod. pen. appena sopra ricordato.

In relazione ai criteri per la quantificazione del danno da risarcire, il Disegno di Legge fa riferimento alle tabelle previste da specifiche disposizioni del codice delle assicurazioni private (articoli 138 e 139 del Decreto Legislativo n.209/2005). La finalità, con tutta evidenza, è quella di uniformare i criteri di risarcimento, superando quindi l’adozione di differenti tabelle, quali quelle del Tribunale di Milano di attuale e prevalente applicazione giurisprudenziale.

Sempre con riferimento all’ambito civile, il Disegno di Legge prevede che prima di instaurare un procedimento giudiziale per il risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria, il soggetto interessato deve promuovere un procedimento di mediazione in sede stragiudiziale (avanti ad Organismi a ciò deputati e già da tempo esistenti) oppure, in via alternativa, presentare ricorso al Tribunale per l’effettuazione di una consulenza tecnica d’ufficio preventiva con finalità conciliative (ex art.696 bis cod. proc. civ.). In difetto, la domanda di risarcimento del danno è improcedibile (articolo 8). Rispetto alla precedente normativa, l’elemento di novità è costituito dalla possibilità di ricorrere ad una consulenza tecnica preventiva, con il condivisibile obbiettivo - da parte del Legislatore - di accelerare le tempistiche dei contenziosi ed incrementare le definizioni conciliative.

Ove venga presentato ricorso per la consulenza tecnica d’ufficio preventiva ed il procedimento non si concluda entro sei mesi dal deposito del ricorso ovvero le parti non raggiungano l’accordo, la domanda di risarcimento del danno diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi (ad esempio, ai fini interruttivi della prescrizione) se entro 90 giorni dal deposito della relazione conclusiva della consulenza tecnica, ovvero dalla scadenza del citato termine semestrale, venga depositato ricorso introduttivo per rito sommario ai sensi dell’art.702 bis c.p.c.

Nell’ipotesi in cui, invece, chi lamenti il danno opti per il procedimento di mediazione, con esiti negativi, potrà essere instaurato un giudizio ordinario di merito nel cui ambito potrà essere svolta ogni più ampia attività istruttoria, inclusa l’effettuazione di una consulenza tecnica d’ufficio.

Particolarmente incisive sono le ulteriori previsioni dell’articolo 8 del Disegno di Legge che impongono a tutte le parti interessate di partecipare ai procedimenti di consulenza tecnica preventiva, incluse le imprese di assicurazione che devono altresì formulare un’offerta per il risarcimento del danno ovvero comunicare le ragioni per le quali ritengono di non doverla formulare.

I comportamenti ostruzionistici, quali la mancata formulazione dell’offerta da parte delle imprese di assicurazione ovvero la mancata partecipazione allo stesso procedimento di consulenza tecnica preventiva, sono sanzionati al termine del procedimento “di merito”, nel quale è stata formulata la domanda risarcitoria.

Le imprese di assicurazione che abbiano omesso di formulare l’offerta nell’ambito del procedimento di consulenza tecnica preventiva (si deve ritenere, senza fondate ragioni, nel silenzio del testo normativo) vengono segnalate dal Giudice, mediante trasmissione della sentenza, all’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (IVASS).

Chi non abbia partecipato al procedimento di consulenza tecnica preventiva, anche se per ipotesi vittorioso nella causa “di merito”, potrà essere condannato dal Giudice al pagamento delle spese processuali a favore dell’altra parte, oltre che al pagamento di una pena pecuniaria determinata equitativamente.

L’obbligatorietà della partecipazione delle parti interessate al procedimento di consulenza tecnica preventiva è sicuramente condivisibile ma non si comprende per quale ragione analogo regime, con i necessari adattamenti, non sia stato esteso alla mediazione.

In assenza di modifiche sul punto, molto probabilmente si assisterà ad un considerevole incremento dei procedimenti di consulenza tecnica preventiva, rispetto a quelli di mediazione, con effetti certamente non in armonia con le finalità di riduzione del contenzioso della nuova normativa.

4) OBBLIGHI DI TRASPARENZA DEI DATI, SISTEMI DI VERIFICA E OBBLIGHI INFORMATIVI

4.a) Il Disegno di Legge prevede che la direzione delle strutture sanitarie pubbliche o private, nel rispetto dell’obbligo di trasparenza sui dati relativi ai pazienti ed alle cure prestate, deve fornire agli aventi diritto la documentazione sanitaria (cartelle cliniche, referti etc. etc.), entro il termine di sette giorni dalla relativa richiesta, preferibilmente in formato elettronico. Eventuali integrazioni documentali devono essere fornite, in ogni caso, entro il termine di trenta giorni dalla relativa richiesta (articolo 4).

Entro tre mesi dall’entrata in vigore della nuova normativa le strutture pubbliche e private dovranno adeguare ed integrare i loro regolamenti interni, già adottati in attuazione della Legge n.241/1990.

Inoltre, le strutture sanitarie pubbliche e private dovranno rendere disponibili sui propri siti Internet i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio, previa loro verifica nell’ambito delle attività di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio già previste nella normativa vigente. Il Disegno di Legge non specifica se la disposizione dovrà essere applicata retroattivamente, con riferimento al quinquennio precedente all’entrata in vigore della nuova normativa, ed è quindi auspicabile che tale aspetto venga chiarito nell’ambito della versione definitiva che verrà approvata dalla Camera dei Deputati, anche con l’ausilio di un’adeguata disciplina transitoria.

4.b) Per poter assicurare anche in futuro l’adozione dei più opportuni interventi, anche in ambito legislativo, per la tutela e la sicurezza dei pazienti, è stato introdotto un nuovo sistema di verifica “a più livelli” (articoli 2 e 3 del Disegno di Legge).

In ambito Regionale, è prevista la costituzione dei Centri per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente che dovranno acquisire dalle strutture sanitarie pubbliche e private i dati relativi ai rischi, ai sinistri ed ai contenziosi.

Tutte le strutture pubbliche e private che eroghino prestazioni sanitarie dovranno predisporre e pubblicare nel proprio sito Internet, a cadenza annuale, una relazione sugli “eventi avversi” che si siano verificati al loro interno, sulle relative cause e sulle iniziative che siano state assunte al riguardo.

I dati così raccolti da ciascun Centro regionale, dovranno essere trasmessi ad altro Ente, a livello nazionale, denominato Osservatorio Nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella Sanità. L’Osservatorio dovrà essere istituito, entro tre mesi dall’entrata in vigore della nuova normativa, con successivo Decreto Ministeriale.

L’Osservatorio eserciterà anche funzioni consultive ed il Ministro della Salute trasmetterà annualmente alle Camere una relazione sull’attività svolta dall’Ente.

Il Disegno di Legge, inoltre, prevede la facoltà delle Regioni di affidare all’ufficio del Difensore Civico la funzione di garante per il diritto alla salute e di disciplinarne la struttura organizzativa. Il Difensore Civico dovrebbe raccogliere le segnalazioni relative a disfuzioni del sistema sanitario ed intervenire a tutela del diritto leso con i poteri conferitigli dalle singole normative a livello regionale.

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Le restanti novità del Disegno di Legge verranno trattate in successiva e prossima circolare informativa.

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Marzo 2016] “DDL Cirinnà. Chiariamo i fondamentali. Parte 2- Convivenze di fatto”

Il DDL Cirinnà, recentemente approvato dal Senato e che verrà sottoposto alla Camera per la definitiva approvazione, presumibilimente senza sostanziali modifiche, definisce quali “conviventi di fatto” testualmente “ due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.”.

Si può quindi fondatamente ritenere che i conviventi di fatto possano essere indifferentemente coppie etero od omosessuali.

Per essere considerati e quindi riconosciuti formalmente conviventi di fatto, occorre una specifica dichiarazione di entrambi gli interessati all’Anagrafe del Comune di residenza.

PRINCIPALI DIRITTI RICONOSCIUTI AI CONVIVENTI DI FATTO

-In caso di malattia o ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, in conformità alle regole organizzative di strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche - private o convenzionate - usualmente previste per coniugi e familiari.

- Ciascun convivente di fatto può designare, in forma scritta e autografa, l’altro quale suo rappresentante per:

° decisioni in materia di salute in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere;

° per la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie;

- Il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno dell’altra parte convivente.

- In caso di decesso del convivente di fatto che sia proprietario dell’abitazione di comune residenza, il convivente superstite ha il diritto di continuare a risiedere nella stessa abitazione per un periodo di due anni ovvero per un periodo pari alla convivenza, se superiore ai due anni, ma non eccedente i cinque anni complessivi. In caso di presenza di figli minori o dissabili, la durata del diritto di abitazione del convivente è di tre anni. Tali diritti del convivente superstite cessano in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto dello stesso.

-Nel caso di morte del conduttore o nel caso di suo recesso dal contratto di locazione, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto.

-I conviventi di fatto sono parificati agli appartenenti ad un nucleo familiare nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.

-In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da illecito di un terzo, per la liquidazione del danno risarcibile al convivente superstite si applicano gli stessi criteri applicabili ad un coniuge superstite.

CONTRATTO DI CONVIVENZA

I conviventi di fatto possono disciplinare tutti i rapporti patrimoniali, relativi alla loro vita in comune, in uno specifico “contratto di convivenza”. Tale contratto, le sue modifiche o la sua risoluzione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta, con atto pubblico o con scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attesti la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. Copia del contratto, entro 10 giorni dalla sottoscrizione, deve essere trasmessa al Comune di residenza dei conviventi per la relativa iscrizione all’Anagrafe.

Il contratto di convivenza può prevedere anche le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascun convivente ed alle rispettive capacità di lavoro professionale o casalingo. In assenza di specifiche indicazioni sulla scelta del regime patrimoniale nel contratto è applicabile quello di separazione dei beni.

Il contratto di convivenza non può esser sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni questi saranno considerati come inesistenti.

SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO DI CONVIVENZA

Il contratto di convivenza si risolve per accordo delle parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi - o tra un convivente ed altra persona - nonché per morte di uno dei contraenti.

Sia l’accordo per la risoluzione del contratto di convivenza sia il recesso di uno dei conviventi richiedono, a pena di nullità, la stessa forma prevista per il perfezionamento del contratto di convivenza (atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato).

La risoluzione del contratto di convivenza determina lo scioglimento della comunione dei beni, nel caso in cui i conviventi abbiano originariamente prescelto questo regime patrimoniale.

In caso di recesso unilaterale, la relativa dichiarazione deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione del termine – non inferiore a 90 giorni – concesso all’altro convivente per lasciare l’abitazione che sia nella disponibilità esclusiva della parte recedente (ad esempio, quando la parte che recede ne sia l’unico proprietario).

CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA DI FATTO

In caso di cessazione della convivenza di fatto si dovrà dare adeguata comunicazione all’anagrafe e, in caso di ricorso di una parte, il Giudice stabilirà se vi sia o meno il diritto agli alimenti, in presenza di un comprovato stato di bisogno e di impossibilità di provvedere adeguatamente al proprio mantenimento. Ove il Giudice accerti tale diritto, gli alimenti possono essere riconosciuti per un periodo proporzionale alla durata della convivenza, in proporzione al bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Vi è tuttavia da considerare che in presenza di un effettivo stato di bisogno, per specifica disposizione del DDL, vi sono altri soggetti sui quali grava l’obbligo alimentare, secondo la graduazione prevista all’art.433 cod. civ.

Prima dell’ex-convivente, quindi, sono tenuti all’obbligo alimentare sicuramente i figli anche adottivi e i genitori.

Anche in questa parte del DDL Cirinnà non sono pochi i dubbi di carattere interpretativo che, ove non risolti in sede di approvazione definitiva alla Camera, saranno oggetto di soluzione in ambito giurisprudenziale. Tuttavia, appare già evidente la necessità nell’ambito delle convivenze di fatto di perfezionare uno specifico contratto di convivenza al fine di delineare con certezza obblighi e diritti delle parti interessate che nel testo normativo risultano non sufficientemente disciplinati.

Lo Studio è naturalmente a disposizione per ogni ulteriore approfondimento.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Marzo 2016] “DDL Cirinnà. Chiariamo i fondamentali. Parte 1- Unioni civili”

E’ stato recentemente approvato, da parte del Senato (seduta del 25/2/2016), il Disegno di Legge sulle unioni civili. Il testo verrà ora sottoposto all’approvazione della Camera che, si ritiene, avverrà senza particolari e sostanziali modifiche.

Esaminiamo le principali novità previste dal DDL.

L’unione civile può essere costituita solo da due persone maggiorenni che siano dello stesso sesso, mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni.

Non si può costituire un’unione civile, a pena di nullità, tra persone dello stesso sesso legate da rapporti di parentela, affinità o adozione.

L’ufficiale di stato civile (non è stato chiarito il Comune competente) certifica la costituzione dell’unione civile, indicando anche i dati anagrafici e di residenza delle parti ed il loro regime patrimoniale che – in assenza di diversa e specifica convenzione – è quello della comunione dei beni.

Ciascuna parte dell’unione civile può decidere di aggiungere al proprio cognome quello dell’altra, per l’intera durata della stessa unione civile; entrambe le parti possono anche utilizzare un cognome comune, scegliendolo tra i rispettivi cognomi. In merito a tali scelte, le parti o la parte interessata devono rilasciare specifiche dichiarazioni all’ufficiale di stato civile.

L’unione civile, benché sia specifica “formazione sociale” ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, determina effetti sostanzialmente analoghi, salvo specifiche eccezioni**, a quelli del matrimonio, con conseguente applicabilità alle stesse unioni civili della disciplina normativa propria di quest’ultimo istituto (art.1, comma 20 del DDL).

In particolare, le parti:

- acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri, con obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione;

- acquistano gli stessi diritti successori riservati al coniuge in presenza di matrimonio. In caso di decesso di una delle parti dell’unione civile che abbia prestato attività lavorativa, le indennità di mancato preavviso ed il trattamento di fine rapporto devono corrispondersi all’altra parte dell’unione civile, in eventuale concorso con altri eredi;

- sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni;

- concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune.

STRUMENTI GIURIDICI DI PROTEZIONE NELL’UNIONE

- In caso di procedura di amministrazione di sostegno che riguardi una delle parti dell’unione civile, il Giudice Tutelare preferirà – ove possibile – l’altra parte dell’unione civile quale amministratore di sostegno.

- L’interdizione o l’inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell’unione civile, che può presentare istanza di revoca quando ne cessino la cause.

- Quando la condotta di una delle parti dell’unione civile è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica, morale ovvero alla libertà dell’altra, il Giudice - su specifica istanza della parte lesa – può adottare con decreto i provvedimenti di cui all’art.342-ter cod. civ. (ordine di cessazione della condotta lesiva, allontanamento dall’abitazione comune, inibitoria a frequentare luoghi abituali della parte lesa etc. etc.).

SCIOGLIMENTO DELL’UNIONE

Oltre che per la quasi totalità delle ipotesi già legislativamente previste per il matrimonio (concernenti reati di particolare gravità), le parti - anche disgiuntamente - possono decidere di sciogliere l’unione civile manifestando tale volontà dinanzi all’ufficiale di stato civile. In tal caso, la domanda di scioglimento dell’unione civile può essere proposta quando siano decorsi tre mesi dalla data della citata manifestazione di volontà.

Il DDL precisa che sono applicabili le disposizioni processuali e normative in materia di divorzio e negoziazione assistita. Deve quindi ritenersi che la domanda di scioglimento debba essere proposta al Giudice oppure avvalendosi dell’ausilio di rispettivi difensori in sede di negoziazione assistita (evitando, in quest’ultimo caso, di dover ricorrere all’intervento del Tribunale).

In buona sostanza, quindi, non è prevista per le unioni civili una fase di separazione, con le conseguenti iniziative da assumere in sede giudiziale o mediante una negoziazione assistita.

Queste sono le principali novità delle nuove disposizioni che, obbiettivamente e non in pochi casi, suscitano molteplici dubbi interpretativi che, in assenza di modifiche ed integrazioni in sede di ultima approvazione, dovranno essere necessariamente affrontate e risolte dalla giurisprudenza.

Verrà prossimamente pubblicata nel nostro sito Internet la News letter DDL Cirinnà Parte 2 – Le Convivenze di fatto.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi


** Tra le parti di un’unione civile non vi è obbligo di fedeltà, e ciò costituisce una delle principali differenze rispetto alla disciplina del matrimonio. Scelta di compromesso ma, eticamente e giuridicamente, difficile da condividere.

[Gennaio 2016]“Lavoro autonomo: le nuove misure del Governo (Disegno di Legge del 28/1/2016)”.

Il Consiglio dei Ministri ha approvato in data 28/1/2016 un Disegno di Legge, anche in tema di lavoro autonomo, che dovrà essere sottoposto all’approvazione del Parlamento quale collegato alla Legge di Stabilità, per la sua entrata in vigore.

Le principali novità previste dal Disegno di Legge in tema di lavoro autonomo, che potrà essere naturalmente oggetto di modifiche in sede di dibattito parlamentare, sono le seguenti.

a) All’art.2 del DDL è prevista l’applicabilità delle disposizioni del Decreto Legislativo n.231/2002 a rapporti contrattuali tra lavoratori autonomi ed imprese ovvero tra lavoratori autonomi.

In sostanza, in caso di ingiustificati ritardi nei pagamenti dei compensi riservati ai lavoratori autonomi, quest’ultimi avranno diritto di pretendere il versamento aggiuntivo degli interessi moratori, ad un tasso ben superiore a quello legale (così come definito all’art.5 dello stesso Decreto Legislativo n.231/2002).

b) L’art.3 contiene più disposizioni, dirette a tutelare il lavoratore autonomo in ambito contrattuale.

Più in particolare, è previsto che si considerano abusive e prive di effetto le clausole che:

-attribuiscano al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali ovvero di recedere senza congruo prevviso da contratti aventi ad oggetto una prestazione continuativa;

-prevedano termini di pagamento superiori a sessanta giorni rispetto alla data di ricevimento della fattura del lavoratore autonomo ovvero dalla richiesta di pagamento di quanto dovutogli.

E’ considerato “abusivo” anche il rifiuto del committente di perfezionare il contratto in forma scritta.

Per tutti i casi sopra indicati, è previsto il diritto del lavoratore autonomo di ottenere il risarcimento dei danni.

Nelle prime due ipotesi sopra considerate l’utilizzo dei termine “abusive” e “prive di effetti” potrebbe ritenersi equiparabile alla previsione di una “nullità ex Lege”.

Per contro, l’utilizzo del solo termine “abusivo” nella terza ed ultima ipotesi - relativa al rifiuto del committente di perfezionare il contratto in forma scritta - appare improprio e foriero di molteplici problematiche interpretative. Non avrebbe infatti alcun senso attribuire una nullità a detto rifiuto, mentre sarebbe stato più chiaro e sicuramente preferibile prevedere l’obbligo della forma scritta, per il contratto di lavoro autonomo, a pena di nullità.

c) All’art.5 è prevista la deducibilità delle spese sostenute dal lavoratore autonomo, relative a:

- partecipazione a convegni, congressi e corsi di aggiornamento professionale (deducibilità integrale entro il limite annuo di euro 10.000,00);

- servizi personalizzati di certificazione delle competenze, orientamento, ricerca e sostegno all’auto-imprenditorialità, finalizzate a sbocchi occupazionali (deducibilità integrale entro il limite annuo di euro 5.000,00);

- forme di garanzia, anche in ambito assicurativo, per il mancato pagamento delle prestazioni rese dal lavoratore autonomo (deducibilità integrale).

d) Gli articoli 6 e 7 riguardano misure dirette a facilitare l’accesso dei lavoratori autonomi nel mercato del lavoro – anche mediante la costituzione di appositi sportelli presso i centri per l’impiego – nonché a facilitare la loro partecipazione ad appalti pubblici.

e) Per le lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata Inps

è previsto il diritto all’indennità di maternità (art.8).

Vengono inoltre introdotti i congedi parentali per i genitori di bambini nati a far data dal 1° gennaio 2016, limitatamente ad un periodo di sei mesi entro i primi tre anni di vita del bambino (art.9).

Sempre per i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata Inps, all’art.10 del DDL, è esclusa l’estinzione del rapporto di lavoro autonomo, di carattere continuativo, in caso di gravidanza, malattia o infortunio. L’esecuzione del rapporto di lavoro, invece, è sospesa senza diritto a corrispettivo, per un periodo non superiore a centocinquanta giorni nel corso dell’anno solare.

Nulla si precisa in relazione al superamento di detto periodo di sospensione.

Per il caso di malattia o infortunio tanto gravi da impedire lo svolgimento delle prestazioni per oltre sessanta giorni, è prevista la sospensione del versamento dei contributi previdenziali sino alla guarigione ed in ogni caso per un periodo massimo di due anni, decorsi i quali il lavoratore autonomo è tenuto a versare i contributi ed i premi maturati durante il periodo di sospensione in un numero di rate mensili pari al triplo del numero di mesi di avvenuta sospensione.

Anche in questo caso, la norma in esame risulta, in alcuni punti, poco chiara e suscettiva di dubbi interpretativi.

f) All’art.12, mediante una modifica integrativa del testo dell’art.409 c.p.c. relativo alle controversie demandate al Giudice del Lavoro, si è cercato di fornire una più chiara definizione di collaborazione “coordinata”, ritenendola configurabile “quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo tra le parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”.

Certo, si sarebbe potuto produrre uno sforzo maggiore per cercare di fornire chiarificazioni al riguardo.

Ci si è invece limitati, in sostanza, ad affermare che la collaborazione è coordinata quando….vi è un coordinamento ed un’organizzazione autonoma dell’attività da parte del collaboratore.

In buona sostanza, si è cercato di definire un concetto ricorrendo allo stesso concetto…..Il che, obiettivamente, non appare di grande aiuto, anche in considerazione di quanto era stato previsto nel “Jobs Act” (articoli 2, 52 e 54 del Decreto Legislativo n.81/2015), in relazione alla configurabilità o meno della cosiddetta “etero-organizzazione” nell’ambito dei rapporti di collaborazione non genuini (vedi nostra Circolare del mese di ottobre 2015).

Le restanti disposizioni del DDL (articoli da 13 a 21) riguardano una particolare forma di lavoro subordinato (cosiddetto rapporto di lavoro “agile”) e non costituicono quindi oggetto della presente circolare informativa.

Lo Studio è ovviamente a disposizione per ogni eventuale ed ulteriore approfondimento.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi