[Ottobre 2015]“Novità per le collaborazioni autonome (soggetti titolari di Partita Iva) – Dalla Riforma Fornero al Jobs Act “

Alcune recenti disposizioni contenute nel Decreto Legislativo n.81/2015, attuative della più ampia riforma denominata “Jobs Act”, hanno sensibilmente modificato la disciplina delle collaborazione autonome, anche con soggetti titolari di Partiva Iva, rispetto alla preesistente normativa della Legge Fornero.

Più specificamente, la Riforma Fornero (Legge n.92/2012) aveva, a suo tempo, disciplinato le collaborazioni autonome rese anche da soggetti titolari di Partita Iva, introducendo nuove disposizioni dirette a contrastare un ricorso indiscriminato a tali tipologie di accordi con la finalità di “nascondere” veri e propri rapporti di lavoro subordinato.

Era stato disposto che, in presenza di determinate condizioni, le prestazioni rese anche da soggetti titolari di Partita Iva potevano essere considerate, anziché di lavoro autonomo, collaborazioni coordinate e continuative, con la conseguente applicabilità della disciplina del lavoro a progetto, disciplina che - a sua volta - prevedeva la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in assenza di uno specifico progetto.

Le condizioni che facevano presumere, fino a prova contraria (presunzione relativa), che si fosse in presenza di una collaborazione coordinata e continuativa, e non di un rapporto di lavoro autonomo, erano le seguenti:

- collaborazione per uno stesso committente protrattatasi per almeno 8 mesi complessivi all’anno, per due annualità consecutive;

- corrispettivo derivante dalla collaborazione superiore all’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal soggetto interessato, nell’arco di due anni solari consecutivi;

- assegnazione al collaboratore di una postazione fissa di lavoro presso una sede del committente (anche se condivisa con altri collaboratori, come precisato nella circolare del Ministero del Lavoro n.32/2012).

La ricorrenza di almeno due delle tre condizioni appena sopra richiamate determinava la presunzione relativa della configurabilità di una collaborazione coordinata e continuativa che, se sfornita di progetto, si traduceva automaticamente in un rapporto di lavoro subordinato.

Le ricordate disposizioni della Legge Fornero non si applicavano:

- alle prestazioni di natura professionale svolte da professionisti iscritti a un Ordine, collegio, registro, albo, ruolo o elenco professionale;

- alle prestazioni svolte da soggetti titolari di un reddito annuo non superiore a un tetto predeterminato (per l’anno 2012 euro 18.663,00);

- a tutte le attività richiedenti “competenze teoriche” di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi ovvero che richiedano particolari capacità tecnico-pratiche acquisite mediante rilevanti esperienze professionali

- alle imprese artigiane e alle Federazioni Sportive.

L’impianto normativo così come sopra descritto è stato completamente rivisto nell’ambito del cosiddetto “Jobs Act” e, più in particolare, in alcune disposizioni (articoli 2, 52 e 54) del Decreto Legislativo n.81/2015, entrato in vigore in data 25 giugno 2015.

A partire dal 25 giugno 2015, non sarà più possibile perfezionare contratti di lavoro a progetto e a far data dal 1 gennaio 2016 dovrà presumersi, sino a prova contraria (presunzione relativa) la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato in presenza di rapporti di collaborazione (inclusi quelli con soggetti titolari di Partita Iva) che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e con modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (cosiddetta “etero-organizzazione”: art.2, comma 1°, D. Lgs. n.81/2015).

Ricorrendo questi presupposti, sarà configurabile un rapporto di lavoro subordinato, non dovendosi più fare alcun riferimento ai requisiti che erano stati dettati, in merito, nell’ambito della Riforma Fornero.

Si tratta quindi di una disciplina normativa teoricamente più severa rispetto alla precedente ed ispirata alla “centralità” del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non a caso definito, all’art.1 del Decreto Legislativo in esame, quale “forma comune di rapporto di lavoro”.

Resta da precisare che le disposizioni della precedente Riforma Fornero, così come in precedenza ricordate, continueranno ad applicarsi per i rapporti di collaborazione che siano già in atto alla data del 25 giugno 2015.

Anche nella nuova normativa sono previste delle specifiche esclusioni, quali quelle relative a:

- collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali prevedano discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione di particolari esigenze produttive ed organizzative del settore di riferimento;

- collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali sia necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;

- attività prestate, nell’esercizio delle loro funzioni, da componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

- collaborazioni rese, a fini istituzionali, a favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. (art.2, 2° comma, D. Lgs. n.81/2015).

L’assenza dei requisiti che possono far presumere la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato può essere anche oggetto di una specifica certificazione ad opera di Commissioni istituite da Università, Ordini Provinciali dei Consulenti del Lavoro, parti sociali, Ministero del Lavoro e Direzioni Territoriali del Lavoro.

La certificazione, ottenibile solo a seguito di istanza congiunta delle parti interessate e di una specifica attività di verifica da parte della Commissione, può essere resa inefficace solo da una sentenza del Giudice del Lavoro che accerti e dichiari la natura subordinata del rapporto di lavoro.

In assenza di tale sentenza, gli organi ispettivi non possono irrogare alcuna sanzione a carico del datore di lavoro.

Si deve inoltre segnalare che ai sensi dell’art.54 del Decreto Legislativo n.81/2015 è stata prevista una sanatoria diretta a regolarizzare rapporti non genuini di collaborazione coordinata e continuativa o con soggetti titolari di Partita Iva.

A decorrere dal 1 gennaio 2016, per chi assuma propri collaboratori (prestazioni coordinate e continuative a progetto ovvero titolari di partita Iva), con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (cosiddetto contratto di lavoro a tutete crescenti), è prevista una sanatoria che comporta l’estinzione di tutti gli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’errata configurazione del pregresso rapporto di collaborazione, fatti salvi eventuali illeciti che siano stati accertati in occasione di accessi ispettivi antecedenti alla data di assunzione.

La sanatoria opera solo in caso di accordo perfezionato in sede protetta (conciliazione da perfezionarsi con le modalità previste all’art.2113 cod.. civ.), e nei confronti di datori di lavoro che non recedano da rapporto nei 12 mesi successivi all’assunzione.

Le finalità del Legislatore sono chiare ed essenzialmente dirette a promuovere rapporti di lavoro più stabili e garantiti, contrastando – conformemente alle previgenti disposizioni della “Legge Fornero” – il ricorso ad accordi di collaborazione, autonoma o parasubordinata, che siano in realtà diretti ad eludere gli obblighi ed oneri propri di un contratto di lavoro subordinato.

Se l’intento è certamente comprensibile e condivisibile, sorgono alcuni dubbi sulla soluzione adottata dal Legislatore che, come già accennato, all’art.2, 1° comma, del Decreto Legislativo n.81/2015 ha indicato dei criteri per configurare la presunzione di subordinazione (prestazioni personali, continuative ed etero-organizzate) che, obbiettivamente, ove interpretati in modo estensivo, potrebbero ridurre in modo drastico la possibilità di ricorrere a collaborazioni coordinate in assenza di rischi.

Nella previgente Legge Fornero, quanto meno, erano stabiliti dei parametri certi e predeterminati che forse avrebbero potuto essere meglio calibrati anzichè essere abrogati. E’ quindi ragionevole ritenere che spetterà ancora una volta all’elaborazione giurisprudenziale (con tutte le problematiche operative conseguenti) fornire indicazioni per determinare in quali casi si sia in presenza di prestazioni continuative ed etero-organizzate, tali da configuare rapporti di lavoro subordinato anziché rapporti di collaborazione dotati di sufficiente autonomia e quindi non assoggettabili alla nuova disciplina normativa.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Marzo 2015]“La nuova disciplina del contratto a tutele crescenti”

Proponiamo una sintetica panoramica delle novità derivanti dall’introduzione del nuovo istituto del “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” previsto dal decreto legislativo 4 marzo 2015 n.23, in vigore dal 7 marzo 2015, prima tappa nel percorso di attuazione della delega contenuta nel “Jobs Act” (Legge n.183/2014).

Il decreto legislativo n.23/2015, infatti, introduce una nuova disciplina in materia di licenziamento, prevedendo che l’istituto della reintegrazione nel posto di lavoro rappresenta per i nuovi assunti l’eccezione rispetto alla regola del riconoscimento di un indennizzo economico crescente in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore : le “tutele crescenti” che danno appunto il nome al provvedimento e che, come vedremo, vengono dimezzate in caso di piccole imprese, al di sotto della soglia dei 15 dipendenti.

Il diritto alla reintegrazione viene limitato a specifiche ipotesi (licenziamenti discriminatori, nulli, disciplinari illegittimi per insussistenza del fatto materiale contestato, per disabilità fisica o psichica, ovvero intimati oralmente), riducendo in tal modo non solo l’ambito di applicabilità della reintegrazione, ma anche lo spazio di discrezionalità del giudice rispetto alla preesistente disciplina di cui alla Legge n.92/2012 (c.d. riforma Fornero).

La nuova disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti riguarda i lavoratori con qualifica di operaio, impiegato e quadro (art.1, comma 1, Dlgs n.23/2015), esclusi invece i dirigenti, per i quali continua ad applicarsi la contrattazione collettiva di categoria.

La nuova disciplina in materia di licenziamento riguarda tutti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti a decorrerere dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Dlgs n.23/2015, mentre ai rapporti di lavoro già in essere resterà applicabile la disciplina previgente, salva l’importante eccezione di cui alla lettera c).

In particolare, la nuova disciplina si applica nei seguenti casi :

  1. ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (art.1, comma 1, Dlgs 23/2015);

  1. in caso di “stabilizzazione” di lavoratori già assunti con contratto di lavoro a tempo determinato o di apprendistato, mediante conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, del contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto di lavoro a tempo indeterminato (art.1, comma 2, Dlgs 23/2015);

  1. in caso di piccole imprese che superino la soglia occupazionale (oltre quindici dipendenti ex art.18, comma 8 e 9, L.300/70) in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto in esame (art.1, comma 3, Dlgs n.23/2015); in tal caso si verifica una sorta di effetto “trascinamento”, nel senso che le nuove norme sulle tutele crescenti si applicano anche ai vecchi assunti, già in forza all’azienda che, aumentando l’organico, supera la soglia dimensionale (più di 15 dipendenti) per l’applicazione dell’art.18 Statuto dei lavoratori.

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Fermo quanto sopra, passiamo all’esame delle nuove tutele previste in caso di licenziamento illegittimo dal primo decreto attuativo del Jobs Act.

Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale

Come accennato, nei casi sopra indicati l’istituto della reintegrazione nel posto di lavoro (art.2 del Dlgs n.23/2015) si applicherà nelle seguenti fattispecie di licenziamento :

licenziamento discriminatorio, intimato per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali (ex art.15 L.300/70);

licenziamento nullo nei casi espressamente previsti dalla legge, quali ad esempio licenziamento intimato per causa di matrimonio, per gravidanza sino al termine di interdizione, per fruizione dei congedi parentali, per motivo illecito ex art. 1345 c.c., ovvero in casi di licenziamento ritorsivo o per rappresaglia;

licenziamento intimato in forma orale;

licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore, in caso di difetto di giustificazione (art.2, comma 3, Dlgs 23/2015).

Soltanto in questi casi alla pronuncia di nullità del licenziamento segue la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità, comunque non inferiore a 5 mensilità, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR1 , corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavoratove (aliunde perceptum); inoltre, il datore di lavoro è condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Infine, va ricordato che, come in precedenza, in caso di reintegrazione ai sensi dell’art.2 del Dlgs n.23/2015, il lavoratore licenziato ha la facoltà di optare, in sostituzione della reintegrazione, per il pagamento di una indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (art.2, comma 3 Dlgs n.23/2015).

1 In mancanza di una definizione normativa di “retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR” contenuta nel Dlgs n.23/2015 , soccorre l’art.2120, comma 2, codice civile che in materia di calcolo del TFR prevede quanto segue : “salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua ai fini del comma precedente (ossia il computo del TFR dividendo la retribuzione annua per 13,5), comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”. A titolo indicativo (non esaustivo), si puo’ ritenere che le voci di retribuzione che rientrano nel calcolo del TFR comprendono : a) paga base, contingenza, terzo elemento contrattuale, scatti di anzianità, super mimino individuale; b) mensilità supplementari (13ma e 14ma); c) lavoro straordinario non occasionale; c) maggiorazione per lavoro notturno (in caso di lavoro su turni); d) indennità di mensa, di funzione, di mansione, di alloggio, di cassa o maneggio denario, indennità di trasporto, indennità di servizio estero, indennità per lavori disagiati; e) premio di fedeltà aziendale, premio annuo, premio di anzianità; f) festività infrasettimanali retribuite, festività cadenti di domenica, ex festività; g) indennità sostitutiva di ferie non godute e indennità sostitutiva di preavviso; h) fringe benefits (auto aziendale e polizze assicurative stipulate a favore del lavoratore). Se ne deduce che il nuovo parametro previsto dal Dlgs n.23/2015 è più ampio ed inclusivo rispetto a quello della “retribuzione globale di fatto” fin qui utilizzato per calcolo delle indennità risarcitorie spettanti al lavoratore.

Licenziamento per giustificato motivo e per giusta causa

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (c.d. “licenziamento economico”, per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa) o per giustificato motivo soggettivo (determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, c.d. licenziamento disciplinare con preavviso) o per giusta causa (grave inadempimento che impedisce la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, c.d. “licenziamento disciplinare senza preavviso” ex art. 2119 c.c.), la nuova disciplina delle tutele crescenti prevede che di regola, qualora il licenziamento venga ritenuto illegittimo, il rapporto si estingue dalla data del licenziamento, con condanna del datore di lavoro al pagamento a favore del lavoratore di una indennità risarcitoria (non soggetta a contribuzione previdenziale) proporzionata all’anzianità di servizio del lavoratore (pari a due mensilità per ogni anno di servizio), compresa tra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità (art.3, comma 1, del Dlgs n.23/2015)

Secondo l’art.3, comma 2, del Dlgs n.23/2015, tuttavia, la reintegrazione nel posto di lavoro è ancora prevista nelle ipotesi di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, qualora in giudizio venga dimostrata “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore; in tali ipotesi all’annullamento del licenziamento disciplinare segue la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre alla condanna al pagamento in favore del lavoratore di una indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Nelle piccole imprese, in cui il datore di lavoro non raggiunge i requisiti dimensionali di cui all’art.18, commi 8 e 9 della Legge 300/70 (oltre 15 dipendenti)2 , viene espressamente esclusa l’applicazione della reintegrazione nei casi di cui all’art.3, comma 2 del Dlgs n.23/2015 e, in caso di illegittimità del licenziamento intimato in assenza di giustificato motivo o di giusta causa (ex art.3, comma 1, del Dlgs n.23/2015), l’indennizzo riconosciuto al lavoratore è compreso fra un minimo di 2 mensilità (leggermente inferiore alle 2,5 mensilità previste per i vecchi assunti dall’art.8 Legge 604/66, c.d. tutela obbligatoria) ed un massimo di 6 mensilità (v. art.9, comma 1, Dlgs n.23/2015).

2 La soglia di applicabilità della tutela reale di cui all’art.18, commi 8 e 9, Statuto dei lavoratori (Legge 300/70) deve ritenersi superata sia quando il datore di lavoro disponga di 15 dipendenti nell’ambito di uno stesso territorio comunale, seppure divisi in unità produttive di consistenza inferiore; sia quando occupi più di 60 dipendenti; sia infine quando via sia una unità produttiva autonoma con più di 15 dipendenti, di cui fanno parte integrante strutture organizzative collocate in territori comunali diversi e prive di ogni autonomia o potere di decisione” (Cass. Sez. Lavoro, 10 novembre 1997 n.11092).

Licenziamento viziato per motivi formali o procedurali

L’art.4, comma 1, del Dlgs n.23/2015 prevede che nell’ipotesi in cui il licenziamento venga intimato in violazione del principio di motivazione (art.2 legge 604/66), ovvero in violazione delle procedure di contestazione disciplinare (art.7 Legge 300/70), il rapporto di lavoro si estingue dalla data del licenziamento e il datore di lavoro viene condannato al pagamento a favore del lavoratore di una indennità risarcitoria (non soggetta a contribuzione previdenziale) proporzionata all’anzianità di servizio del lavoratore (pari a una mensilità per ogni anno di servizio), da un minimo di 2 ad un massimo di 12 mensilità.

In caso di violazioni formali o procedurali, quindi, l’indennizzo è dimezzato rispetto a quello previsto in caso di mancanza di giustificato motivo o di giusta causa. A meno che il giudice non accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle più incisive tutele previste dall’art.2 (reintegrazione in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale) o dall’art.3 (indennizzo in caso di licenziamento illegittimo da 4 a 24 mensilità, ovvero reintegrazione in caso di acclarata insussistenza del fatto contestato disciplinarmente) del decreto stesso.

Da notare che nelle piccole imprese l’ammontare delle indennità e degli importi indicati dall’art.4, comma 1 del Dlgs n.23/2015 è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di 6 mensilità, per cui è compreso fra un minimo di 1 mensilità (nettamente inferiore alle 2,5 mensilità previste per i vecchi assunti dall’art.8 Legge 604/66) ed un massimo di 6 mensilità (v. art.9, comma 1, Dlgs n.23/2015).

Il nuovo istituto dell’offerta di conciliazione

Infine, di sicuro interesse è l’introduzione dell’offerta di conciliazione prevista dall’art.6 del Dlgs n.23/2015 per definire stragiudizialmente le controversie in materia di licenziamento (evitando il ricorso al giudice del lavoro) dei lavoratori che verranno assunti con il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

In caso di licenziamento, infatti, il datore di lavoro potrà offrire al lavoratore, entro il termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale dello stesso, un importo (esente da tasse e contribuzione previdenziale) di ammontare pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità; nelle piccole imprese l’importo va da un minimo di 1 ad un massimo di 6 mensilità (art.9 Dlgs n.23/2015).

L’offerta di conciliazione deve essere fatta dal datore di lavoro, entro il suddetto termine, mediante consegna al lavoratore di assegno circolare in sede di conciliazione avanti alla DTL o in sede sindacale, e comporta l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinuncia del lavoratore all’impugnazione del licenziamento; mentre le somme eventualmente corrisposte al lavoratore ad altro titolo (ad esempio, per differenze retributive, TFR, differenze di livello, ecc.) restano soggette al regime fiscale ordinario.

Lo Studio è ovviamente a disposizione per fornire assistenza e consulenza relativamente alle nuove disposizioni sopra illustrate.

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Paolo Poli

[Dicembre 2014]“La procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio (Decreto Legge 12 settembre 2014 n.132, convertito con Legge 10 novembre 2014 n.162).”

Con la Legge che ha convertito il Decreto Legge n.132/2014, è stato delineato il quadro definitivo riguardante la possibilità di ricorrere alla procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio.

Alcuni sintetici cenni sugli aspetti procedurali della negoziazione assistita facoltativa hanno costituito oggetto di nostra precedente circolare informativa, disponibile sul sito Internet www.giemmelex.it

La procedura di negoziazione assistita può essere utilizzata anche per le separazioni consensuali tra coniugi, per la cessazione degli effetti civili o lo scioglimento del matrimonio nonché per la modifica delle condizioni di separazione e di divorzio.

Se non vi sono figli minorenni o maggiorenni incapaci o portatori di grave handicap ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita deve essere trasmesso al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale territorialmente competente il quale, ove non ravvisi alcuna irregolarità, comunica agli avvocati interessati il nulla osta per gli ulteriori adempimenti che verranno di seguito meglio precisati.

Se vi sono, invece, figli minorenni o maggiorenni incapaci o portatori di grave handicap ovvero economicamente non autosufficienti, è stabilito un termine breve per la trasmissione dell’accordo al Procuratore della Repubblica (10 giorni), il quale lo autorizza ove non ravvisi profili di contrasto con l’interesse dei figli. In caso contrario, il Procuratore della Repubblica trasmette l’accordo, entro i successivi 5 giorni, al Presidente del Tribunale, con conseguente fissazione di udienza di comparizione delle parti ed avvio di un procedimento in ambito giudiziale.

Se l’accordo non presenta alcuna problematica per il Procuratore della Repubblica, con conseguente rilascio di nulla osta o di autorizzazione, l’accordo perfezionato tra le parti in sede di negoziazione assistita produce gli stessi effetti dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione e di divorzio e i procedimenti di modifica delle relative condizioni. Non occorre quindi un ulteriore passaggio avanti all’autorità giudiziaria ordinaria.

E’ stato opportunamente chiarito che la procedura di negoziazione assistita in materia di separazione, di divorzio e di modifica delle relative condizioni, richiede la partecipazione di almeno un avvocato per ciascuna parte interessata.

La possibilità per i coniugi di accedere allo strumento della negoziazione assistita, evitando procedimenti in ambito giudiziale, deve essere accolta con grande favore.

Non mancano tuttavia nella nuova normativa alcune criticità.

L’intervento del Procuratore della Repubblica avrebbe potuto essere evitato, in assenza di figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di grave handicap ovvero economicamente non autosufficienti. In tal modo, non vi sarebbe stata una fase ulteriore e successiva al procedimento di negoziazione, caratterizzata dall’intervento di un organo giudiziario.

Inoltre, è stato previsto l’obbligo, per gli avvocati, di trasmettere l’accordo concluso in sede di negoziazione assistita all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune ove il matrimonio era stato iscritto o trascritto - ai fini della nuova e relativa trascrizione - “entro il termine di dieci giorni”, pena l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2.000,00 ad euro 10.000,00.

In presenza di una sanzione amministrativa pecuniaria obiettivamente  severa ci si sarebbe aspettati, quanto meno, un’esatta indicazione della decorrenza del sopra indicato termine di 10 giorni. Invece nulla è stato indicato al riguardo, anche in sede di conversione del Decreto Legge n.132/2014.

Secondo logica, il termine dovrebbe decorrere dalla comunicazione del nulla osta o dell’autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica. Sarebbe stato certamente opportuno adottare specifiche indicazioni al riguardo, almeno nella Legge di conversione, visto che l’omissione era già stata evidenziata in molteplici commenti, anche pubblicati su quotidiani nazionali.

Per completezza, sempre in tema di separazione, divorzio e modifica delle relative condizioni, segnaliamo che è anche previsto un procedimento alternativo avanti al Sindaco, quale Ufficiale dello Stato Civile, ma solo in assenza di figli minorenni, maggiorenni incapaci o portatori di grave handicap ovvero economicamente non autosufficienti.

L’accordo avanti al Sindaco, inoltre, non può prevedere alcun trasferimento di natura patrimoniale.

Le norme sul procedimento di negoziazione assistita sono già entrate in vigore. Si tratta quindi di uno strumento che può essere attualmente utilizzato dai coniugi che intendano definire accordi, con l’ausilio dei riepettivi legali di fiducia, per la loro separazione o per il loro divorzio ovvero per la modifica di pregresse condizioni di separazione o di divorzio, evitando di dover ricorrere al Tribunale.

Le disposizioni relative al procedimento avanti al Sindaco, di minor rilievo in considerazione dei limiti di applicabilità in precedenza descritti, entreranno invece in vigore il prossimo 11 dicembre 2014.

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Ottobre 2014] - Le misure adottate dal Governo Renzi per la giustizia civile (Decreto Legge 12 settembre 2014 n.132): la procedura di negoziazione assistita.

Proseguiamo nell’esame della misure adottate dal Governo Renzi per la giustizia civile, con il Decreto Legge 12 settembre 2014 n.132.

Agli articoli 2 e seguenti del Decreto è disciplinata la procedura di “negoziazione assistita da un avvocato”.

Si tratta sostanzialmente di un accordo mediante il quale le parti convengono di “cooperare” con lealtà e buona fede per cercare di risolvere in via amichevole una determinata controversia.

L’accordo, definito nel testo del Decreto “convenzione di negoziazione”, deve rivestire la forma scritta a pena di nullità ed indicare il termine entro il quale deve essere espletata la procedura (non inferiore ad un mese) nonchè l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili.

Il tutto deve avvenire con l’assistenza dei rispettivi avvocati (o di un avvocato, se di fiducia di entrambe le parti, come può accadere - ad esempio - nel caso di negoziazione assistita per la separazione dei coniugi) che certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte dalle parti.

L’avvocato deve informare il proprio assistito, all’atto del conferimento dell’incarico, della possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita.

La procedura di negoziazione assistita deve essere obbligatoriamente promossa per le controversie in materia di risarcimento del danno da cirolazione di veicoli e natanti e per quelle inerenti a domande di pagamento, a qualsiasi titolo, per una somma non superiore ad euro 50.000,00.

Le disposizioni appena sopra descritte, invece, non si applicano alle controversie relative ad obbligazioni derivanti da contratti tra professionisti e consumatori.

In mancanza di esperimento della procedura di negoziazione assistita obbligatoria, la domanda giudiziale è improcedibile. La procedura di negoziazione assistita si considera avverata anche nei casi in cui l’ invito di una delle parti non sia seguito dall’adesione dell’altra, ovvero sia seguito da rifiuto, entro 30 giorni dalla sua ricezione.

Sono in ogni caso esclusi dall’applicazione delle norme in esame i procedimenti:

- per ingiunzione (inclusi i relativi procedimenti di opposizione);

- di consulenza tecnica preventiva;

- di opposizione od incidentali di cognizione, in tema di esecuzione forzata;

- in camera di consiglio;

- relativi all’azione civile esercitata nel processo penale.

E’ possibile inoltre, senza ricorrere preventivamente alla negoziazione assistita obbligatoria, ottenere provvedimenti cautelari ed in via d’urgenza e procedere, in ogni caso, alla trascrizione della domanda proposta in via giudiziale.

Se si raggiunge l’accordo, lo stesso costituisce titolo esecutivo e consente l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Gli avvocati commettono un illecito deontologico se impugnano un accordo perfezionatosi con la loro partecipazione ed assistenza.

La convenzione di negoziazione assistita può essere conclusa anche tra coniugi ai fini della loro separazione consensuale o ai fini divorzili ovvero per ottenere la modifica di pregresse condizioni di separazione o di divorzio, fatti salvi i casi in cui vi siano figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. L’eventuale accordo, in quest’ultimi casi, è equiparabile ai provvedimenti di analogo contenuto ottenibili in ambito giudiziale e l’avvocato è tenuto a trasmettere all’ufficiale dello stato civile del Comune competente una copia autentica dello stesso accordo. Ciò deve avvenire entro 10 giorni dal suo perfezionamento, pena l’applicazione di una sanzione amministrativa all’avvocato inadempimente da euro 5.000,00 ad euro 50.000,00.

Da tenere presente, infine, la disposizione dell’art.8 del Decreto che ricollega effetti interruttivi della prescrizione e impeditivi di eventuali decadenze, al momento della comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita.

La finalità delle nuove norme è principalmente quella di diminuire le azioni giudiziali civili, confidando nella risoluzione preventiva di numerose controversie nel contesto di trattative tra le parti, assistite dai loro rispettivi legali.

In linea di principio, la descritta finalità delle nuove norme è certamente condivisibile.

Tuttavia, il nuovo impianto normativo desta perplessità per molteplici ragioni.

Innanzi tutto, si prefigura un possibile cumulo di preventivi procedimenti obbligatori finalizzati ad un tentativo di definizione stragiudiziale delle controversie.

Il procedimento di negoziazione assistita obbligatorio per le obbligazioni di pagamento sino ad euro 50.000,00, è fatalmente destinato a sovrapporsi ad altri procedimenti, anch’essi obbligatori per Legge, caratterizzati dagli stessi obbiettivi di deflazione del contenzioso civile.

Come noto, vi sono controversie per le quali è stato reintrodotto, con il cosiddetto “Decreto del Fare” del Governo Letta risalente al giugno 2013, l’obbligo di preventivo esperimento di un procedimento di mediazione avanti a specifici Organismi di Conciliazione, come nei casi di controversie in tema di condominio, diritti reali, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto d’azienda, contratti assicurativi-bancari-finziari nonché controversie per il risarcimento del danno da responsabilità medica o da diffamazione con il mezzo della stampa od altro mezzo di pubblicità.

Analoghi rilievi valgono in relazione ad altri procedimenti obbligatori di conciliazione previsti in particolari materie, quale quello relativo alla controversie tra utenti ed organismi di telecomunicazione e disciplinato in specifiche Delibere della competente Autorità Garante.

Sono quindi prefigurabili illogiche e non comprensibili sovrapposizioni tra negoziazione assistita e procedimento di mediazione (si pensi, ad esempio, ad una controversia in materia di condominio concernente obbligazioni di pagamento entro il limite di euro 50.000,00).

Il Decreto Legge, all’art.3 comma 5°, prevede espressamente che “restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati”.

Non è dato sapere, peraltro, quale sia l’ordine da seguire tra negoziazione assistita ed altro procedimento obbligatorio di mediazione o conciliazione.

Quale dei due si dovrebbe promuovere per primo? Secondo logica quello di negoziazione assistita, ma il Decreto nulla dice al riguardo.

Pur comprendendo le finalità deflattive del contenzioso civile sottese alle nuove norme, pare obiettivamente non condivisibile una soluzione che impone, a chi intenda far valere un proprio diritto in materie assoggettate all’obbligo sia di negoziazione assistita sia di un preventivo procedimento di mediazione e/o di conciliazione, di attivare molteplici procedure che comportano tempi di attesa e costi, senza alcuna garanzia di ottenimento di un risultato concreto ed effettivo.

Per di più, la procedura di negoziazione assistita introdotta nel recente Decreto Legge del Governo non è tale da scongiurare comportamenti strumentali e dilatori da parte di chi non abbia alcun effettivo interesse a pervenire a soluzioni concordate.

Il Decreto, infatti, prevede solo ed esclusivamente che in caso di mancata risposta ovvero di rifiuto all’invito a stipulare la convenzione di negoziazione assistita obbligatoria, il Giudice che venga successivamente adìto “può” valutare tale comportamento ai fini dell’imputazione e liquidazione delle spese di giudizio e dell’eventuale condanna al risarcimento per lite temeraria ex art.96 c.p.c.(art.4, 1° comma).

Tutto quello che avviene nel corso della procedura di negoziazione assistita, invece, non può essere sottoposto all’attenzione del Giudice, in quanto sia le parti sia i loro difensori debbono mantenere la più assoluta riservatezza sulle dichiarazione rese e sulle informazioni che siano state acquisite nel corso della procedura stessa. La stessa preclusione vale per eventuali deposizioni delle parti e dei loro difensori concernenti le medesime dichiarazione ed informazioni (art.9).

Quindi, potrebbe ben accadere che una delle parti utilizzi la procedura di negoziazione assistita con la finalità di non voler pervenire, in realtà, ad alcun accordo, ma solo con lo scopo di procrastinare il più possibile l’inizio di una causa.

La parte “in buona fede”, quindi, potrebbe vedersi costretta ad affrontare una procedura di negoziazione assistita completamente inutile. E nel caso di obbligatorietà del procedimento di mediazione o di altre procedimenti con finalità conciliative, dovrebbe attendere ancora la definizione di quest’ultimi, con il risultato che chi intenda far valere un proprio fondato diritto, non azionabile con strumenti “rapidi” quale l’ingiunzione di pagamento, potrebbe dover attendere mesi, senza ottenere alcun risultato concreto e senza alcuna possibilità di rivolgersi, nel frattempo, al Giudice.

Le finalità deflattive del contenzioso civile avrebbero ben potuto essere perseguite adottando soluzioni più incisive e radicali.

In primo luogo, prevedendo l’alternatività tra negoziazione assistita e le altre procedure di mediazione e/o conciliazione obbligatorie.

In secondo luogo, consentendo alle parti ed ai loro difensori di poter utilizzare, nel successivo ed eventuale processo avanti al Giudice, tutte le risultanze e tutto quanto emerso nel corso della procedura di negoziazione assistita, consentenendo così a quest’ultimo di tener conto di eventuali condotte dilatorie e contrarie a buona fede ai fini dell’imputazione delle spese di lite e del risarcimento per lite temeraria.

E ancora, avrebbe potuto operarsi una più generalizzata applicazione della procedura di negoziazione assistita, anche in termini di sua obbligatorietà, anziché limitarla ai soli casi di controversie per sinistri relativi a veicoli e natanti e relative ad obbligazioni di pagamento entro il limite dei 50.000,00 euro.

Le nuove disposizioni sulla procedura di negoziazione assistita obbligatoria entreranno in vigore decorsi 90 giorni dall’entrata in vigore della Legge di conversione del Decreto, vi è quindi ancora tempo per apportare correttivi diretti a rafforzare la “valenza” e l’efficacia del nuovo strumento, consentendo così di ottenere concreti ed utili effetti deflattivi del contenzioso giudiziale civile e valorizzando adeguatamente, in tale contesto, il ruolo dell’avvocatura.

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Settembre2014] “Le misure adottate dal Governo Renzi per la giustizia civile (Decreto Legge 12 settembre 2014 n.132): arbitrato per la diminuzione delle cause pendenti. Ennesima illusione?”

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, in data 12 settembre 2014, il Decreto Legge varato dal Governo per l’adozione di “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia civile”.

Ci si limiterà a proporre alcune osservazioni sulle disposizioni del Decreto relative al trasferimento, in sede arbitrale, dei procedimenti già pendenti avanti all’autorità giudiziaria civile.

In successive circolari esamineremo le restanti novità introdotte dal Governo.

Le nuove disposizioni relative alla possibilità di trasferire procedimenti civili in ambito arbitrale sono tutte contenute nell’art.1 del Decreto e riguardano i procedimenti di Tribunale o di appello pendenti alla data di entrata in vigore del Decreto (13 settembre 2014), che non siano già in fase decisoria, che non riguardino diritti indisponibili e che non vertano in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale.

Per tali procedimenti di primo e di secondo grado è previsto che le parti, con istanza congiunta, possano chiedere di promuovere un arbitrato.

Il Giudice, in assenza di ragioni ostative, trasmette il fascicolo al Presidente del Consiglio dell’Ordine territorialmente competente, per la nomina del Collegio Arbitrale.

In tal caso, quindi, il procedimento “prosegue” davanti agli arbitri, ferme restando le preclusioni e le decadenze che siano già nel frattempo intervenute.

Restano salvi gli effetti sostanziali e processuali prodotti dall’originaria domanda giudiziale e il lodo arbitrale ha gli stessi effetti della sentenza.

Per l’ipotesi in cui il trasferimento del procedimento dall’autorità giudiziaria alla sede arbitrale avvenga in grado d’appello, è stato previsto un termine per l’emissione del lodo arbitrale (120 giorni dall’accettazione della nomina da parte del Collegio Arbitrale) decorso il quale il processo deve essere riassunto avanti all’autorità giudiziaria ordinaria entro e non oltre i successivi 60 giorni (termine perentorio).  E’ poi stabilito che se il lodo viene pronunciato entro 120 giorni dall’accettazione della nomina da parte del Collegio Arbitrale, ovvero entro i 60 giorni successivi, e se lo stesso lodo viene dichiarato nullo a seguito di relativa impugnazione, il processo avanti al Giudice Ordinario può essere riassunto entro i 60 giorni successivi al passaggio in giudicato della sentenza che ha dichiarato la nullità.

In linea generale, destano non poche perplessità le prime “reazioni” di alcuni organi di informazione che hanno salutato con favore la prevista trasferibilità di cause civili in procedure arbitrali, ritenendo che ciò potrebbe effettivamente dar origine a rilevanti e positivi effetti riduttivi e deflattivi degli imponenti, ed ormai “cronici”, carichi giudiziari.

In primo luogo, occorre considerare che l’arbitrato non è certo uno strumento di recente introduzione nel nostro ordinamento. Da moltissimi anni, infatti, le parti hanno la possibilità di dirimere eventuali controversie in sede arbitrale, anche tramite l’adozione di adeguate e preventive clausole contrattuali.

Ma nella realtà dei fatti e nella prassi, l’arbitrato non è stato e non viene largamente utilizzato per molteplici ragioni, inclusa l’entità dei costi complessivi che è molto spesso superiore a quella di un procedimento giudiziario ordinario. Nell’articolo del Decreto Legge in esame, è prevista una possibile riduzione dei parametri relativi ai compensi riservati agli arbitri, da adottare con Decreto Ministeriale, ma attualmente non vi è alcuna indicazione al riguardo.

In secondo luogo, va tenuto presente che molto spesso una delle parti in causa non ha alcun interesse ad abbreviare i tempi della controversia ed in tali casi, tutt’altro che rari, è da escludere già linea di principio la possibilità che venga presentata un’istanza congiunta per il trasferimento del processo in sede arbitrale.

Viene spontaneo chiedersi, quindi, per quale ragione le nuove previsioni dovrebbero avere particolare successo, con effetti di rilievo anche in termini di riduzione dei carichi giudiziari pendenti.

Vi sono poi alcune criticità anche in relazione ai contenuti letterali della nuova norma.

La possibilità di riassumere il giudizio ordinario, in caso di mancata pronuncia del lodo entro un certo termine, è prevista solo in relazione al grado d’appello mentre nulla si dice, al riguardo, per il caso di trasferimento, in sede arbitrale, di un procedimento pendente avanti al  Tribunale.

In detta fattispecie, non è dato comprendere quali siano le conseguenze sul processo ordinario di primo grado, e ciò anche nell’ipotesi di pronunciamento del lodo.

Secondo logica, il processo dovrebbe essere sospeso e, nel caso di successivo lodo arbitrale, lo stesso non potrebbe più essere riassunto, fatta salva l’ipotesi di accertata nullità del lodo.

Trattasi di ipotesi, in quanto la norma nulla dice al riguardo.

Per le cause in grado d’appello l’omissione riguardante le sorti del processo lascia ancor più perplessi, visto che l’ipotesi della riassunzione, in quest’ultimo caso, è stata espressamente  prevista.

E ancora, il termine di 120 giorni per la pronuncia del lodo, contemplato per i casi di trasferimento in sede arbitrale delle cause in grado d’appello, appare eccessivamente breve e irrealistico, soprattutto se riferito a controversie di particolare complessità e/o che richiedano l’esame di molteplici documenti e la valutazione di numerosi aspetti probatori e giuridici.

Conclusivamente, il fondato timore è che la norma sarà scarsamente applicata, senza alcun effetto di rilievo in termini di riduzione del contenzioso civile pendente.

Le nuove previsioni nell’art.1 del Decreto non sembrano essere state scritte in modo completo, chiaro ed adeguato: il che lascia obiettivamente sconcertati sia per la risonanza complessiva data all’iniziativa del Governo, tanto attesa e dipinta quale incisivo intervento con finalità deflattive del contenzioso civile, sia tenendo conto del fatto che le norme di carattere procedurale dovrebbero essere scritte in modo chiaro ed adeguato, senza presentare lacune, foriere di difficoltà e dubbi interpretativi per tutti gli operatori del settore.

Non resta ora che attendere la conversione in Legge del Decreto, auspicando l’adozione di adeguati correttivi al testo attuale dell’art.1).

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Aprile 2014] - Nuove disposizioni del Codice del Consumo in tema di contratti “a distanza”

Con il Decreto Legislativo 21 febbraio 2014 n.21, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale in data 11/3/2014 e quindi attualmente in vigore, sono state introdotte rilevanti modifiche nell’ambito della normativa diretta alla tutela dei consumatori (cosiddetto “Codice del Consumo”, Decreto Legislativo 6 settembre 2005 n.206).

Assumono particolare rilievo le disposizioni in tema di contratti “a distanza”, anche in considerazione del progressivo incremento di accordi perfezionati in ambito telematico, tramite Internet.

Veniamo ad esaminare, in estrema sintesi, i tratti essenziali dell’attuale normativa in materia di contratti a distanza (artt.49-59 Decreto Legislativo n.206/2005, testo attuale).

I- Obblighi di informazione: il consumatore deve ricevere ampie informazioni prima della conclusione di qualsivoglia accordo. Tali informazioni, in particolare, devono essere fornite in modo chiaro e ben comprensibile e devono riguardare, tra l’altro: le caratteristiche dei beni o servizi offerti, tutti i dati personali ed i recapiti di chi offra i beni o servizi, i contenuti economici dell’ipotizzato accordo con il massimo possibile dettaglio anche in termini di eventuali variazioni dei corrispettivi e di ogni altro onere o spesa (si pensi, ad esempio, ai contratti di telefonia), la specifica indicazione delle clausole contrattuali relative alle modalità e tempistiche del recesso ovvero della mancanza del diritto di recedere nel corso del rapporto contrattuale.

Se il contratto a distanza deve essere perfezionato in via telematica, gli obblighi di informazione a favore del consumatore devono essere assolti prima che quest’ultimo inoltri l’ordine e/o esegua qualsivoglia pagamento.

Nei contratti da perfezionarsi in via telefonica il consumatore, dopo aver ricevuto tutte le necessarie informazioni e fornito una prima risposta affermativa, deve in seguito confermare la propria volontà di concludere l’accordo in forma scritta ovvero, se il consumatore lo consente, “su un supporto durevole”. Quest’ultima previsione è stata frutto di una specifica scelta di “compromesso” in sede di ultima stesura delle norme, consentendosì così – in pratica – alle società di telecomunicazioni di continuare a perfezionare contratti telefonici raccogliendo adesioni in forma verbale, appositamente registrate.

II- Diritto di recesso: se le informazioni inerenti al contratto vengono correttamente fornite al consumatore, quest’ultimo può recedere dal contratto stesso entro 14 giorni decorrenti: dalla conclusione del contratto, se riguardante servizi; dal giorno di acquisizione del possesso dei beni da parte del consumatore, in caso di vendita; dal giorno di consegna dell’ultimo bene, in caso di forniture multiple; dal giorno di consegna dell’ultimo componente, in caso di vendite di beni in più lotti; dall’acquisizione del possesso del primo bene, per i contratti di consegna periodica di beni (ad esempio, abbonamenti a riviste o quotidiani), dal giorno della conclusione del contratto nei casi di fornitura di acqua, gas, elettricità o teleriscaldamento.

Nel caso in cui le informazioni inerenti al contratto non vengano fornite in modo corretto e/o completo al consumatore, quest’ultimo ha il diritto di recedere dal contratto entro il più ampio termine di 12 mesi decorrenti dalla scadenza del periodo di recesso (di 14 giorni) secondo le modalità appena descritte. In sostanza quindi, in quest’ultima ipotesi, il diritto di recesso può essere esercitato entro il periodo di 12 mesi e 14 giorni, con le medesime decorrenze già indicate per le differenti tipologie di contratto.

Infine, se il consumatore riceve le informazioni inerenti al contratto in ritardo, ma entro i 12 mesi, il consumatore può comunque recedere entro i 14 giorni successivi al ricevimento delle informazioni obbligatoriamente richieste dalla Legge.

In caso di recesso, il consumatore ha il diritto di ottenere l’immediato rimborso di tutti i pagamenti già effettuati restituendo i beni eventualmente ricevuti, fatta eccezione per eventuali costi supplementari che siano derivati da una tipologia di consegna diversa da quella usualmente utilizzata, su specifica richiesta del consumatore. Inoltre, il consumatore è comunque responsabile per la diminuzione del valore dei beni che sia stata causata da una loro “manipolazione” che non si sia resa necessaria per “stabilire” la natura, le caratteristiche e le modalità di funzionamento dei beni stessi. Il consumatore, in ogni caso, non è responsabile per la diminuzione del valore dei beni nel caso in cui non vi sia stata un’adeguata e preventiva informazione in relazione al suo diritto di recedere dal contratto.

Nei casi di contratti di prestazione di servizi, a seguito del recesso il consumatore deve comunque corrispondere al professionista il corrispettivo per i servizi utilizzati sulla base degli accordi pregressi o, se eccessivo, in conformità ai valore di mercato.

Sono anche previsti specifici casi di esclusione del diritto di recesso del consumatore (art.59), quali quelli relativi alle forniture di:

-beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati;

-beni che rischino di deteriorasi o di scadere rapidamente;

-beni sigillati che non si prestino ad essere restituiti per motivi igienici o connessi alla protezione della salute e siano stati aperti dopo la consegna;

-registrazioni audio o video sigillate o software informatici che siano stati aperti dopo la consegna;

-servizi di trasporto di beni, di noleggio di autovetture, di catering o per le attività del tempo libero qualora il contratto preveda una data o un periodo di esecuzione specifici;

-forniture di contenuto “digitale” mediante supporto non materiale se l’esecuzione è iniziata con l’accordo espresso del consumatore e con la sua specifica rinuncia al diritto di recesso.

Infine, deve essere tenuto presente che la nuova normativa in materia di contratti a distanza non è applicabile a molteplici tipologie di contratto, per espressa previsione di Legge (art.47).

Tra i contratti per i quali non operano le disposizioni del Codice del Consumo in precedenza ricordate hanno particolare rilevanza: i contratti finanziari; i contratti di assistenza sanitaria (per servizi prestati da professionisti sanitari a pazienti, inclusa la prescrizione, la somministrazione e la fornitura di medicinali e dispositivi medici); i contratti stipulati con l’intervento di un pubblico ufficiale che deve garantire, fornendo un’informazione giuridica completa, che il consumatore concluda il contratto soltanto sulla base di una decisione “ponderata”;  i contratti conclusi al di fuori dei locali commerciali che prevedano un corrispettivo non superiore a 50 euro.

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Dicembre 2013] - Tutela dei creditori dell’Unione Europea: ordinanza europea di sequestro conservativo

Dopo l’introduzione nell’anno 2008 nel nostro ordinamento giuridico degli istituti del titolo esecutivo europeo e del procedimento di ingiunzione europeo,  istituti già trattati nella circolare di aprile 2009 pubblicata sul nostro sito internet www.giemmelex.it, a cui si rinvia, i ministri della Giustizia dei Paesi Membri dell’UE hanno approvato il 6/12/2013 la proposta della Commissione Europea che prevede l’istituzione di un’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari per facilitare il recupero transfrontaliero dei crediti in materia civile e commerciale.

Il regolamento proposto, una volta recepito da tutti gli stati membri dell’UE, introdurrà una procedura che consentirà al creditore-ricorrente di ottenere un’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari per evitare il ritiro o il trasferimento delle somme detenute dal debitore-convenuto in un conto bancario ubicato nell’UE.

Tale strumento verrà introdotto per arginare il fenomeno del trasferimento di denaro da un conto bancario acceso in uno Stato membro ad un altro con la finalità di sottrarsi all’esecuzione di provvedimenti giurisdizionali ottenuti da creditori procedenti a tutela dei propri crediti.

Al fine di perseguire lo scopo sopra esposto e per fornire una maggiore tutela ai creditori dell’UE, sarà possibile per un creditore domiciliato in uno stato membro, ricorrere ad un procedimento ante causam per ottenere dalle autorità giudiziarie dello Stato membro in cui deve essere iniziata l’azione di merito o da quelle sul cui territorio è ubicato il conto corrente da aggredire, un’ordinanza di sequestro preventivo riconosciuta ed esecutiva negli altri stati membri senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al suo riconoscimento (abolizione del cosidetto procedimento di exequatur)

Il procedimento che porterà all’emissione di detta ordinanza, oltre ad essere alternativo rispetto a quelli previsti dai rispettivi ordinamenti nazionali, avrà natura cautelare e richiederà la sussistenza dei requisiti del fumus boni iuris e del pericuulm in mora.

La prova di detti requisiti dovrà essere data allegando alla domanda introduttiva documenti e pezze giustificative del credito azionato (ad esempio: contratti, fatture, bolle di consegna, corrispondenza intercorsa tra le parti anche ricongnitiva de debito e documenti equipollenti) o anche una decisione giudiziaria, una transazione o un atto pubblico per il pagamento di un importo di denaro che sono esecutivi nello stato membro d’origine e possono essere riconosciuti nello stato membro dell’esecuzione.

Occorrerà altresì provare che, senza l’emissione dell’ordinanza, sussiste il rischio concreto che la successiva esecuzione di un titolo esecutivo esistente o futuro nei confronti del convenuto sarà probabilmente compromessa o resa assai più difficile in quanto sussiste il rischio costante che il convenuto rimuova, disponga o nasconda i beni detenuti nel conto o nei conti bancari su cui porre sequestro.

Inoltre, il ricorrente, salvo che richieda all’autorirtà competente di ottenere informazioni sui conti correnti bancari da sottoporre a sequestro, dovrà fornire tutte le informazioni relative al convenuto e al suo conto o ai suoi conti bancari affinchè le banche possano identificare il convenuto e i suoi conti bancari.

Nel caso in cui il ricorrente non abbia informazioni sui conti bancari, potrà richiedere unitamente alla domanda di sequestro che sia l’autorità giudiziaria adita ad assumere tali informazioni utilizzando tutti i mezzi più opportuni a disposizione nello stato membro ove dovrà essere inziata l’esecuzione.

Inoltre, il ricorrente, al momento della presentazione della domanda, dovrà dichiarare se ha già presentato ad altre autorità giudiziarie una o più domande equivalenti contro lo stesso convenuto e dirette a garantire lo stesso credito e se ha ottenuto provvedimenti cautelari analoghi ai sensi del proprio diritto nazionale, indicando anche quelle eventualmente già respinte.

Nel caso in cui i documenti allegati siano ritenuti sufficienti a comprovare la sussistenza dei requisiti sopra citati ed assunte le informazioni bancarie necessarie, l’ordinanza verrà emessa inaudita altera parte entro 14 giorni dalla presentazione della domanda e il ricorrente sarà tenuto, a pena di revoca dell’ordinanza, a promuovere il giudizio di merito entro due settimane dalla data di emissione dell’ordinanza o entro il termine più breve deciso dall’autorità giudiziaria.

Qualora circostanze eccezionali rendano necessaria un’audizione orale, l’autorità giudiziaria convocherà un’udienza quanto prima ed, in ogni caso, entro 7 giorni giorni di calendario dalla presentazione della domanda. Ove sussistano i presupposti, l’autorità giudiziaria emetterà l’ordinanza entro i successivi 7 giorni dalla data in cui si è tenuta l’udienza.

Nel caso di diniego dell’ordinanza di sequestro, il ricorrente potrà impugnare tale decisione presentando un ricorso presso la competente autorità giudiziaria.

Nel caso di emissione dell’ordinanza, detto provvedimento verrà notificato alla banca o alle banche del debitore o secondo la normativa prevista dalla legge delle stato membro in cui si trova l’autorità che ha emesso l’ordinanza se questo coincide con lo stato membro in cui dovrà svolgersi l’esecuzione o secondo il regolamento CE n.1393/2007 se lo stato membro emittente è diverso da quello in cui deve essere eseguito il sequestro.

Ricevuta l’ordinanza corredata dei documenti allegati al ricorso, la banca informerà il debitore, entro il termine di una giornata lavorativa dalla ricevuta notificazione, trasmettendo allo stesso l’ordinanza e i relativi documenti.

Inoltre, la banca, entro 3 giorni lavorativi dal ricevimento dell’ordinanza, informerà l’autorità competente e il ricorrente se e in che misura siano state sequestrate le somme sul conto bancario del convenuto, trasmettendo, con mezzi di comunicazione elettronici idonei, la relativa dichiarazione.

Il convenuto potrà chiedere la revoca, la modifica e la sospensione dell’ordinanza, presentando un reclamo avverso il provvedimento di sequestro sia avanti all’autorità giudiziaria che l’ha emessa sia avanti all’autorità guidiziaria dello stato membro in cui si svolge l’esecuzione e, in entrambi i casi, entro il termine di 45 giorni di calendario dal giorno in cui ha avuto effettiva conoscenza del contenuto dell’ordinanza.

Il reclamo potrà essere proposto sia perché non ricorrono le condizioni e i presupposti per l’emissione dell’ordinanza sia perché il ricorrente non ha avviato il procedimento di merito entro il termine di due settimane dalla data di emissione dell’ordinanza o entro il termine più breve fissato dall’autorità giudiziaria emittente, sia per motivi afferenti l’infondatezza del credito azionato.

Se il reclamo è giustificato, l’autorità giudiziaria adita deciderà se revocare o modificare l’ordinanza, senza indebiti ritardi ed entro 14 giorni di calendario dalla notificazione o comunicazione del reclamo al ricorrente.

Pertanto, le somme sequestrate saranno assegnate al creditore ricorrente nel caso di definitività dell’ordinanza e di reiezione delle impugnazioni del debitore convenuto.

Solo dopo l’entrata in vigore in tutti gli stati membri, si potrà verificare  l’efficacia di questo nuovo ed alternativo strumento giuridico e ciò  anche sotto il profilo delle “ottimistiche” tempistiche procedurali previste per le fasi di emissione, notificazione, esecuzione dell’ordinanza e per la fase di decisione dei reclami.

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Stefano Bardelloni

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Luglio 2013] - Le azioni esperibili nei casi di gravi difetti dell’edificio condominiale imputabili al costruttore -venditore

La problematica delle azioni esperibili nei casi di gravi vizi e difetti degli edifici, anche condominiali, realizzati dal costruttore –venditore, è stata oggetto di un approfondito dibattito giurisprudenziale e dottrinale che ha preso in esame, negli ultimi anni, una vasta casistica e l’applicabilità a tali fattispecie della disciplina prevista dall’art.1669 c.c.

L’art.1669 c.c. prevede che: “Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denunzia”.

Dall’esame di numerose sentenze delle corti di merito e della corte di Cassazione è emerso, in modo unanime e costante, che la disciplina prevista dall’articolo sopracitato è applicabile, anche nei confronti del costruttore-venditore e nei casi in cui quest’ultimo abbia realizzato l’immobile servendosi dell’opera di terzi, purché la costruzione sia ad esso riferibile per aver mantenuto il potere di coordinare lo svolgimento dell’attività altrui (Cass.n.27495/2009, n.4622/2002; n.8187/2000; n.3146/1998; n.9853/1998, n.3301/1996; Trib.Milano, sez.VII, 9/9/2011).

La norma in esame disciplina una forma di responsabilità extracontrattuale (vd. Trib. Milano sez. VII del 11/10/2011 e del 10/11/2009 e Trib. Roma, sez. VIII, del 13/1/2010) e si pone in un rapporto di specialità rispetto al principio generale del neminem laedere, comportando una presunzione di responsabilità in capo al costruttore-venditore, di cui non andrà provata la colpa.

Nel caso in cui sia decorso il termine decennale dal compimento dell’opera (non dalla data di acquisto dell’immobile nel caso di costruttore –venditore rif. Cass.4510/1996) e la rovina totale o parziale o il pericolo di essa o i gravi difetti si manifestino oltre detto termine, è in ogni caso esperibile l’azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

Nell’ipotesi di esperimento dell’azione ex art. 2043 cod. civ. non opera, però, il regime probatorio speciale di presunzione della responsabilità del costruttore; in tale ipotesi, spetta a colui che agisce provare tutti gli elementi richiesti dalla norma generale, e, in particolare, anche la colpa del costruttore (Cass.8520/2006).

La norma di cui all’art.1669 c.c. offre, inoltre, una tutela parallela a quella generale e di natura contrattuale di garanzia per vizi prevista per ogni tipologia di compravendita ex artt. 1490 e seguenti c.c.. Tuttavia, rispetto a detta disciplina il regime previsto dall’art. 1669 c.c. si presenta oltremodo vantaggioso soprattutto con riferimento al termine di decadenza annuale ivi previsto per la denuncia del vizio, rispetto a quello di solo otto giorni statuito con riguardo alla garanzia per vizi previsti all’art.1495 c.c.; dalla denuncia dei vizi, infine, decorre il termine prescrizione di un anno per esperire la relativa azione giudiziale nei confonti del costruttore venditore.

Sulla decorrenza del termine annuale per la denuncia dei vizi è interessante rilevare che diverse sentenze di corti di merito hanno statuito che “il termine per la relativa denuncia non inizia a decorrere finchè il committente non abbia conoscenza dei difetti e tale consapevolezza non può ritersi raggiunta sino a quando non sia manifestata la gravità dei difetti medesimi e non sia acquisita, in ragione degli effettuati accertamenti tecnici, la piena comprensione del femomeno e la chiara individuazione ed imputazione delle sue cause, non potendosi inerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo” (vd. Trib. Roma sez. X del 23/5/2011 e in senso conforme vd. anche Trib. Treviso, sez. II del 8/6/2011 e Trib. Padova, sez. II del 7/6/2010).

Inoltre, la giurisprudenza di merito e di legittimità  ha precisato  altresì che i gravi difetti dell’opera oggetto della garanzia di cui al citato art. 1669 c.c ricorrono anche se non si producono fenomeni tali da influire sulla stabilità della costruzione e consistono in qualsiasi alterazione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione dell’opera, che, pur non riguardando le sue parti essenziali, ne compromettono la conservazione, limitandone sensibilmente il godimento degli acquirenti –condomini  o diminuendone in maniera rilevante il valore (Cass. n. 8149/2004 Cass.n.4692/1999, n.3301/1996; Trib. Milano sez.VII, 4/6/2012, Trib. Monza, sez. II, del 4/1/2010, Trib. Padova, sez.II del 18/6/2010, Trib. Milano sez.VII, 26/7/2010).

In particolare, può dunque trattarsi di lesioni alle strutture, di imperfezioni o di difformità tali da diminuire sensibilmente il valore economico dell’edificio nel suo complesso, o di singole sue parti, senza che debba sussistere anche il pericolo di un crollo immediato (Cass. 2977/1998); ovvero di alterazioni che attengano a quegli elementi, accessori o secondari, che consentono però l’impiego duraturo cui l’opera è destinata, (Cass. 11740/2003; Cass. 8811/2003; C. 9636/2001; C. 456/1999), quali, ad esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l’impianto di riscaldamento, la canna fumaria (Cass. 11740/2003, Cass. 456/1999), le infiltrazioni derivanti da difetti di impermeabilizzazione anche se non determinanti l’inagibilità dei box o l’allagamento degli stessi (Trib. Milano, Sez. VII 26/7/2010); nonché, più in generale, di rilevanti carenze strutturali dipendenti da inidonea progettazione dell’appaltatore (Cass. 3752/2007).

Ad avviso dello scrivente, pur non avendo rinvenuto specifica giurisprudenza, si ritiene che possano rientrare nella tutela prevista dall’art.1669 c.c. anche eventuali problematiche degli spazi verdi comuni, ove il costruttore-venditore abbia realizzato gli stessi non a regola d’arte o in violazione del capitolato d’appalto.

 Le azioni previste dagli articoli sopra citati sono esperibili, oltre che dal committente e dai singoli proprietari degli immobili per quanto riguarda i vizi e difetti inerenti le singole unità immobiliari, anche da parte degli amministratori di condominio nei confronti dei costruttori-venditori, e ciò in forza dei poteri e della legittimazione attribuitigli per legge dall’art.1130 n.4 c.c. (vd. Cass. n.22656/2010)

Il citato articolo prevede tra i doveri degli amministratori quello di compiere gli atti conservativi a tutela delle parti comuni del condominio anche al fine evitare che i vizi e difetti edificatori e/o costruttori ledano i diritti e le proprietà dei singoli condomini che potrebbero rivalersi nei confronti dell’intero condominio ai sensi dell’art.2051 c.c., per richiedere il risarcimento dei danni cagionati dalle cose date in custodia (vd. Cass. n.15291/2011).

Il potere degli amministratori di condominio di intraprendere dette azioni nei confronti del costruttore è altresì svincolato dalla necessità della preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea condominiale, ma gli amministratori, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, non possono proporre azioni risarcitorie per i danni subiti nelle unità immobiliari di esclusiva proprietà dei medesimi condomini.

Sul punto, esiste una copiosa e consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità a cui, per ragioni di sintesi, si rinvia (si veda Cass. n.22656/2010, Cass. 23693/2009, Corte d’Appello de L’Aquila 1/12/2012, Corte d’Appello di Roma del 8/4/2010, Trib. Monza 5/2/2013, Trib. Latina 29/7/2011, Trib. Monza del 18/5/2011, Trib. Trento del 15/12/2010).

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Stefano Bardelloni    

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Giugno 2013] - “Decreto del fare”: le misure adottate dal Governo Letta per la giustizia civile

Il Consiglio dei Ministri, in data 15 giugno 2013, ha approvato un importante Decreto Legge (subito denominato “Decreto del fare”, con evidenti finalità di particolare impatto comunicativo) mediante il quale sono state anche introdotte misure finalizzate a ridurre la durata dei procedimenti civili ed a promuovere il ricorso a procedure extragiudiziali.

Il “pacchetto” di norme in questione è contenuto nell’ultima parte del Decreto (Titolo III) ed è ricompreso negli articoli da 57 a 79.

Veniamo ad esaminare, in estrema sintesi, le principali misure approvate dal Consiglio dei Ministri, in tema di giustizia:

- Giudici ausiliari (artt.57-67): al fine di agevolare la definizione e lo “sfoltimento” dell’elevatissimo numero di procedimenti civili pendenti, è prevista la nomina di giudici ausiliari, per un numero massimo complessivo di quattrocento, rientranti in specifiche categorie professionali, ed anche se “a riposo” (magistrati ed avvocati dello Stato, professori  e ricercatori universitari, avvocati e notai).

- Stages formativi presso gli uffici giudiziari; magistrati ed assistenti di studio presso la Corte di Cassazione  (artt.68-69):  i laureati in giurisprudenza particolarmente meritevoli possono accedere ad un periodo di formazione presso Tribunali, Corti d’Appello, Tribunali Amministrativi Regionali e Corte dei Conti. L’esito positivo dello stage, attestato dal magistrato incaricato della guida e del controllo del soggetto di volta in volta interessato, costituisce titolo idoneo per l’accesso al concorso di magistratura ordinaria ed è parificato ad un anno di tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato o di notaio.

 E’ stato inoltre previsto il rafforzamento degli organici delle Sezioni Civili della Corte di Cassazione, mediante l’inserimento di trenta magistrati di ruolo, con incarico di assistenti di studio.

- Proposta di conciliazione obbligatoria (art.72, lett.a):   è stato introdotto un nuovo articolo nel codice di procedura civile (art.185-bis c.p.c.). E’ ora previsto l’obbligo, per il Giudice, alla prima udienza ed in ogni caso entro la fine della fase istruttoria, di formulare una proposta “transattiva o conciliativa”. L’auspicio, naturalmente, è che la proposta del Giudice induca le parti a perfezionare accordi di definizione delle cause, evitando così ulteriori attività processuali e redazione di sentenze.

- Misure processuali finalizzate alla tutela del credito (art.73): il Decreto prevede alcune integrazioni di previgenti articoli del codice di procedura civile, dirette a tutelare i creditori ed a scongiurare dilazioni strumentali delle tempistiche processuali da parte dei debitori.

 Per i casi di opposizione a decreti ingiutivi con fissazione di prime udienze a date molto lontane e di gran lunga eccedenti i termini di Legge, è stata prevista un’integrazione dell’art.645 c.p.c. consentendo così ai creditori non solo di ottenere un’anticipazione delle date di prima udienza (come già avveniva in precedenza) ma anche accedere a tale prima udienza entro un  periodo di tempo predeterminato (“trenta giorni dalla scadenza del termine minimo a comparire”).

 Inoltre, è stata introdotta una modifica dell’art.648 c.p.c. stabilendo che nei procedimenti di opposizione ai decreti ingiutivi il Giudice deve pronunciarsi sulla concessione, o meno, della loro provvisoria esecutorietà “in prima udienza”.

- Criteri di redazione delle sentenze (art.74): vengono sostituiti i primi due commi dell’art.181 disp. att. c.p.c., introducendo criteri per una redazione più snella e sintetica delle sentenze. Per il Giudice sarà sufficiente una “concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto”, anche facendo esclusivo riferimento a “precedenti conformi” nonchè al contenuto degli scritti difensivi o di altri atti di causa.

- Foro delle società con sede all’estero (art.75): anche al fine di agevolare finanziamenti stranieri in Italia, è stata prevista una rilevante semplificazione dei criteri per l’individuazione del Foro competente per le cause in cui siano parti società estere, prive di sede nel nostro territorio nazionale. Tali cause saranno concentrate nei Tribunali e nelle Corti d’Appello di Roma, Milano e Napoli.

- Condordato preventivo (art.77): sono state introdotte due integrazioni alla previgente disciplina di Legge, dirette ad evitare strumentali ed abusivi ricorsi alla procedura di concordato preventivo.

Più in particolare, è stato previsto che la domanda di concordato preventivo dovrà essere corredata da un elenco specifico e dettagliato dei creditori e dei debiti della società interessata.

 Inoltre, il Tribunale potrà nominare il commissario giudiziale per verificare se la società interessata si sia o meno attivita per la predisposizione di una proposta di pagamento dei propri debiti. In caso di verifica con esito negativo, il Tribunale potrà dichiarare l’improcedibilità della domanda di concordato preventivo e, ove ve ne siano i presupposti, il fallimento della stessa società.

- Mediazione civile e commerciale (art.79): è stato reintrodotto lo strumento della mediazione civile e commerciale che aveva dato origine a molteplici e ben giusitificate lamentele da parte dell’Avvocatura.

L’esperienza pregressa aveva dato esiti, a dir poco, deludenti.

Anziché diminuire le cause civili nella materie previste (condominio, diritti reali, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno da responsabilità medica o da diffamazione con il mezzo della stampa od altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, risarcimento del danno da sinistro stradale non più presente nel nuovo Decreto), si era assistito a numerosissimi tentativi di mediazione del tutto inutili, spesso nemmeno esperiti per totale assenza delle controparti.

 Con il risultato di aggiungere all’inevitabile e conseguente procedimento giudiziario civile, una fase preliminare di mediazione stragiudiziale che ben potrebbe essere inconcludente: quindi, tempistiche complessive più lunghe e maggiori costi.

 Tale esperienza negativa, che era cessata per effetto di noto intervento della Corte di Costituzionale, viene oggi – purtroppo – riproposta ed è facile immaginare che gli esiti negativi e le problematiche a cui si è assitito in passato si riproporranno puntualmente nel prossimo futuro.

 Restano infine solo da richiamare, per completezza, le altre disposizioni del Decreto in materia di “giustizia”, inerenti ad alcuni particolari aspetti processuali e notarili (intervento ed attribuzione del p.m. nei giudizi avanti alla Corte di Cassazione: artt.71 e 76; divisione a domanda congiunta demandata a Notaio: art.71).

  Occorre ora attendere la pubblicazione del Decreto sulla Gazzetta Ufficiale e non si può escludere che nel frattempo possano intervenire ultimi interventi correttivi e modificativi.

 Tali eventuali interventi, se attuati, costituiranno oggetto di un nostro successivo e specifico commento.

*Avv. Marco Emanuele Galanti

*Avv. Fabio Meriggi    

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Gennaio 2013] - Riforma Fornero: le collaborazioni professionali (soggetti titolari di Partita Iva) – ultimi chiarimenti ministeriali

La Riforma Fornero in materia di lavoro, incentrata sulle disposizioni della Legge n.28 giugno 2012 n.92, ha riguardato anche le collaborazioni professionali rese da soggetti titolari di Partita Iva, introducendo nuove disposizioni dirette a contrastare un ricorso indiscriminato a tali tipologie di accordi con la finalità di “nascondere” veri e propri rapporti di lavoro subordinato.

Con la citata Legge n.92/2012 è stato disposto che in presenza di determinate condizioni le prestazioni rese da soggetti titolari di Partita Iva, anziché di lavoro autonomo, possono essere considerate collaborazioni coordinate e continuative, con la conseguente applicabilità della disciplina del lavoro a progetto, disciplina che - a sua volta - prevede la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in assenza di uno specifico progetto.

Le condizioni che fanno presumere, fino a prova contraria (presunzione relativa), che si sia in presenza di una collaborazione coordinata e continuativa, e non di un rapporto di lavoro autonomo, sono le seguenti:

- la collaborazione per uno stesso committente deve essersi protrattata per almeno 8 mesi complessivi all’anno, per due annualità consecutive;

- il corrispettivo derivante dalla collaborazione deve superare l’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal soggetto interessato, nell’arco di due anni solari consecutivi;

- il collaboratore deve disporre di una postazione fissa di lavoro presso una sede del committente.

La presunzione in esame “scatta” in presenza di almeno due delle citate condizioni.

Su questo impianto normativo essenziale, sono da ultimo intervenute alcune precisazioni mediante una circolare del Ministero del Lavoro (n.32 del 27 dicembre 2012) ed un decreto dello stesso Ministero del 20 dicembre 2012.

La circolare ministeriale n.32/2012 ha riguardato, in particolare, i tre parametri in precedenza elencati, specificando che per i primi due di essi (durata delle prestazioni e corrispettivo) ogni verifica potrà essere effettuata solo a seguito del decorso dei due anni legislativamente previsti.

Sermpre nella circolare in esame è stato chiarito che il parametro degli 8 mesi va correlato all’annualità 1 gennaio-31 dicembre mentre per il parametro del fatturato occorre fare riferimento ad un doppio periodo di 365 giorni a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della “Legge Fornero”.

Con queste ultime disposizioni, è possibile ora fare una previsione sulle tempistiche dei primi accertamenti da parte degli organi ispettivi preposti: così, ad esempio, per poter far valere i parametri del fatturato e della postazione fissa presso il committente occorrerà attendere il luglio 2014 mentre per poter far valere una diversa “combinazione” di parametri (durata collaborazione-postazione fissa oppure durata collaborazione-fatturato) occorrerà attendere il 2015.

E ancora, sempre nella circolare in esame, è stato precisato che per postazione fissa si intende anche quella condivisa con altri lavoratori e non solo quella utilizzata dal collaboratore in via esclusiva.

Nel Decreto Ministeriale del 20 dicembre 2012, invece, è stata estesa e meglio precisata l’elencazione dei soggetti esclusi dall’applicabiltià della normativa in questione.

Le ricordate disposizioni della Legge Fornero non si applicano, ad esempio, alle prestazioni svolte da professionisti iscritti a un Ordine, collegio, registro, albo, ruolo o elenco professionale.

In presenza di un’attività in parte protetta dall’ordinamento e riservata ad una determinata categoria professionale ed in parte non rientrante in tale specifico ambito (cosiddette attività “miste”), opera ugualmente l’esclusione, tenendo conto che quest’ultima riguarda, in ogni caso, tutte le attività che richiedono “competenze teoriche” di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi ovvero particolari capacità tecnico-pratiche acquisite mediante rilevanti esperienze professionali.

Tra i soggetti esclusi dall’applicabilità della normativa compaiono anche le Federazioni Sportive.

Alla luce delle novità introdotte dalla Legge Fornero, è necessario prestare la massima attenzione nella predisposizione di accordi di collaborazione con soggetti titolari di Partita Iva. Ciò vale, in particolare, per accordi con soggetti che non siano professionisti iscritti ad un Ordine ovvero a “collegi, registri, albi, ruoli od elenchi” specifici.

In quest’ultimi casi, è essenziale che gli accordi prevedano un progetto ben definito, al fine di evitare che, in presenza di due dei ricordati parametri, possa essere configurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con i conseguenti impatti retributivi, contributivi e previdenziali.

Lo Studio è naturalmente a disposizione per ogni ulteriore approfondimento.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners