[Novembre 2002] - Sull’applicabilità dell’art 18 L.300/70 alle imprese aventi strutture organizzative in diversi comuni

L’art.18 della legge 20 maggio 1970 n.300, nel testo modificato dall’art.1 della legge 11 maggio 1990 n.108, prevede che la reintegra nel posto di lavoro (tutela reale) è applicabile al datore di lavoro “imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo”.

La stessa disposizione estende la reintegra anche “ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”.

Al fine di accertare l’applicabilità della tutela reale occorre fare riferimento alla nozione di “unità produttiva” elaborata dalla giurisprudenza. In particolare, ai fini dell’applicazione dell’art.18 della L.300/70 per unità produttiva si intende “un’articolazione autonoma dell’impresa, avente sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte l’attività di produzione di beni e servizi dell’impresa, della quale costituisce, quindi, una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica e amministrativa, tale che in essa possa concludersi una frazione dell’attività produttiva aziendale, e perciò distinta dagli organismi aziendali minori che non presentano dette caratteristiche” (Cass. 20 aprile 1995 n.4432; Cass. 9 giugno 1993 n.6413 ed ivi ulteriori citazioni).

Secondo l’insegnamento giurisprudenziale “costituisce un’unità produttiva non ogni sede, stabilimento o filiale, ufficio o reparto dell’impresa, ma soltanto quella più consistente e vasta entità aziendale che, anche se articolata in organismi minori non tutti ubicati nel territorio del medesimo comune, si caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tale che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale, rimanendo così esclusa l’autonomia dei suddetti organismi minori destinati a scopi meramente strumentali e fiancheggiatori rispetto ai fini produttivi dell’impresa, risolvendosi l’identità dei medesimi in quella più vasta e completa unità dotata di dette caratteristiche” (Cass. 19 luglio 1995 n.7848 ed ivi ulteriori citazioni).

In presenza di un’organizzazione datoriale articolata in più strutture organizzative poste in comuni diversi, ove la stessa non occupi complessivamente più di sessanta dipendenti e non abbia in un solo comune più di quindici dipendenti, vi sono due possibilità:

1) i lavoratori occupati in una unità produttiva autonoma nella quale prestino la loro attività sino a quindici dipendenti sono esclusi dal regime di stabilità reale, usufruendo invece del più debole regime di stabilità obbligatoria (risarcimento del danno) di cui alla legge 604/66;

2) i lavoratori occupati in una unità produttiva non autonoma nella quale siano occupati sino a quindici dipendenti possono usufruire della stabilità reale “allorquando l’unità di appartenenza, per avere scopi meramente strumentali ed ausiliari rispetto ai fini produttivi dell’impresa, costituisce parte integrante di altra unità produttiva, dotata di propria autonomia, per caratterizzarsi per sostanziali condizioni imprenditoriali di dipendenza tecnica ed amministrativa“ (Cass. 10 novembre 1997 n.11092).

Pertanto, una unità produttiva deve considerarsi priva di autonomia – con la conseguenza che il numero dei relativi dipendenti va sommato a quello dei lavoratori operanti presso l’unità produttiva a cui la medesima fa capo, anche se ubicata in un altro comune – se ha scopi puramente strumentali ed ausiliari rispetto ai fini produttivi dell’impresa (Cass. 10 novembre 1997 n.11092; Pret. Milano, 30 aprile 1999).

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[Settembre 2002] - Interessi automatici in caso di pagamento in ritardo

In data 20 settembre 2002 è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il decreto legislativo che, in attuazione alla direttiva 2000/35/Ce, mira ad eliminare gli eccessivi ritardi nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie nelle transazioni commerciali.

L’ambito di applicazione del predetto decreto legislativo si estende a tutti i rapporti commerciali tra imprese e tra imprese e pubbliche amministrazioni, che rientrino nella definizione di “transazione” contenuta nell’art.2 e che implichino il pagamento di un prezzo. Sono esclusi i contratti che non hanno un corrispettivo già determinato a fronte della consegna di un bene o della prestazioni di servizi e le permute, nonché i contratti conclusi prima del 8 agosto 2002.

Il creditore ha diritto alla corresponsione degli interessi di mora, che decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine del pagamento oppure, ove non venga fissato un termine, dopo trenta giorni dal ricevimento della fattura o delle merci, fatta salva l’ipotesi in cui il debitore dimostri che il ritardo del pagamento è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui  non imputabile.

Una delle importanti novità introdotte dal decreto legislativo è contenuta all’interno dell’art.4 del decreto legislativo, il quale elimina la necessità della messa in mora del debitore ex art.1219 Cod. Civ., nell’ipotesi in cui il termine per il pagamento non sia stato stabilito nel contratto.

Il creditore ha diritto, altresì, al risarcimento dei costi sostenuti per il recupero delle somme che non sono state tempestivamente corrisposte, salva la prova del maggior danno.

Infine, riteniamo opportuno segnalare il contenuto dell’art.9 riguardante le modifiche apportate al Codice di Procedura Civile, in particolare al procedimento d’ingiunzione.

Parrebbe emergere dal contenuto del predetto articolo la possibilità di ottenere il decreto ingiuntivo anche nei confronti di soggetti che risiedono al di fuori del territorio italiano. In tal caso, se l’intimato risiede in uno degli Stati dell’Unione Europea il termine dell’ingiunzione è di cinquanta giorni e può essere ridotto a venti giorni, mentre se risiede  in altri Stati il termine è di sessanta giorni.

Anche in questo caso segnaliamo che al norma è applicabile solo ed esclusivamente ai rapporti di credito nascenti da contratti stipulati successivamente al 8 agosto 2002.

Lo Studio è a disposizione per qualsivoglia ulteriore chiarimento.

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[Settembre 2002] - Considerazioni in tema di cumulo dei rapporti di amministrazione e di lavoro dipendente

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. Sez.Lav, 12 gennaio 2002, n.329) ha dato avvio ad un nuovo orientamento giurisprudenziale volto a fissare il principio secondo il quale “la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita” nonché, nell’ipotesi in cui la predetta diversità non sussista ed unicamente si verifichi “l’attribuzione allo stesso soggetto solo delle funzioni inerenti al rapporto organico, la nullità del rapporto di lavoro avente ad oggetto quelle stesse attività non esclude il diritto al distinto compenso specificamente deliberato in favore degli amministratori”.

La suddetta pronuncia della Corte di Cassazione si colloca in un panorama giurisprudenziale tutt’altro che univoco, le cui risalenti sentenze mettevano in luce l’incompatibilità del cumulo nella medesima persona, della qualifica di amministratore di società di capitali e di lavoratore subordinato della medesima.

Successivamente vennero rivisti i rigidi indirizzi giurisprudenziali assunti (Cass., 24 marzo 1956, n.845) attraverso la previsione della possibilità di una verifica circa l’esistenza di un conflitto d’interessi: atteggiamento, questo, che creò le basi per un mutamento di indirizzo capace di fissare un principio di diritto, quello della cumulabilità della qualità di amministratore ed al tempo stesso di dipendente della medesima società.

In particolare, sottolinea la Corte di Cassazione, condicio sine qua non risulta essere, l’individuazione di due distinti rapporti, carica sociale e posizione di lavoratore subordinato, per il cui riconoscimento, dovrà effettuarsi l’accertamento in concreto dello svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, tali da configurare due prestazioni ontologicamente differenti. Per il rapporto lavorativo subordinato occorrerà inoltre dimostrare l’esistenza del c.d. vincolo di subordinazione che, ex art. 2094 c.c.,  ne connota la fattispecie (“…perché sia configurabile il rapporto di lavoro subordinato, è necessario che colui che intenda farlo valere […] provi in modo certo il requisito della subordinazione, elemento tipico qualificante del rapporto, che deve consistere nel suo effettivo assoggettamento, nonostante egli rivesta la carica di amministratore, al potere direttivi di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso” Cass. 24 maggio 2000, n.6819).

La sopraccitata sentenza mette in luce un ulteriore elemento caratterizzante, quello relativo all’esistenza di un’autonoma volontà imprenditoriale, comportante l’esercizio del potere di controllo e disciplinare, cui l’amministratore stesso sia subordinato: la sussistenza di detta volontà escluderebbe la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro derivante dallo stesso amministratore-dipendente.

E’ proprio in quest’ottica che è stato ritenuto incompatibile il cumulo sia nel caso di amministratore unico (Cass. 22 dicembre 1983, n.7562) che in quello in cui a due amministratori siano attribuiti congiuntamente i poteri di  rappresentanza, procura e disciplina (Cass. 12 maggio 1992, n.5523), poiché in entrambi i casi prospettati verrebbe a mancare il requisito fondamentale della diversificazione tra ruolo dipendente e ruolo decisionale.

Per quanto concerne infine la figura dell’amministratore delegato, la giurisprudenza afferma (Cass. 12 novembre 1990, n.10900) che sia “configurabile un rapporto di lavoro tra l’amministratore delegato e la società quando il primo sia soggetto ad un organo, a lui esterno, esprimente la volontà della società, che in concreto eserciti i poteri di controllo, comando o disciplina, tipici del datore di lavoro”. L’ipotesi è quella in cui un consiglio d’amministrazione conferisca la carica sociale ad un soggetto, l’amministratore delegato, che permane distinto dal dirigente e titolare del potere di direzione e controllo.

Per concludere, nell’ipotesi in cui non sussista la diversità prospettata (tra funzioni di amministratore e funzioni di lavoratore subordinato) e si verifichi unicamente l’attribuzione delle funzioni proprie del rapporto organico, la giurisprudenza prevede il diritto al compenso pattuito in favore degli amministratori della società, diritto che viene loro riconosciuto implicitamente dal legislatore (ex artt. 2364, c.2, 2389, 2392 c.c.) nella misura prevista dall’atto costitutivo, salvo rinuncia degli stessi. In caso contrario potrà essere oggetto di determinazione da parte del giudice .

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[Luglio 2002] - Reati societari: Riflessioni sulla riforma

Con il decreto legislativo n.61 del 15 aprile 2002 in tema di disciplina degli illeciti penali e amministravi riguardanti le società commerciali è stato definitivamente riscritto il Titolo XI del libro V del Codice Civile (artt.2621 – 2641).

Questa riforma, come abbiamo già avuto modo di analizzare in dettaglio nella Circolare n.35 pubblicata sul sito Onlinelex.com nel febbraio 2002, anche se ritenuta da tempo necessaria da più parti, è apparsa troppo radicale e poco in armonia con l’intero ordinamento giuridico vigente.

Pertanto in questa sede ci preme non tanto puntare l’attenzione sulla fisionomia dei nuovi reati societari, la cui struttura era già stata definita nella prima bozza di decreto legislativo approvata dal Consiglio dei Ministri l’11 gennaio 2002, ma sulle novità dell’ultima ora, che hanno subito innescato una serie di dibattiti dentro e fuori le aule dei tribunali.

E’ evidente, quindi, che l’oggetto del nostro esame riguarda da un punto di vista di diritto sostanziale la quantificazione oggettiva del falso in bilancio con le relative soglie di non punibilità e da quello di diritto processuale il problema della continuità tra la vecchia e la nuova fattispecie nonché la procedibilità a querela di parte per le società non quotate in Borsa.

Procedendo con ordine, la più significativa innovazione introdotta dalla riforma è rappresentata dalla soluzione data al problema del cosiddetto “falso quantitativo”.

Infatti il Legislatore ha previsto delle soglie di punibilità come criterio matematico di irrilevanza per quelle falsità che rimangono al di sotto di certi limiti percentuali, limiti che non essendo stati previsti nella legge delega sono stati unilateralmente fissati dal delegato e quindi oggetto di possibili censure sotto il profilo dell’illegittimità costituzionale.

Prescindendo, però, da queste considerazioni di legittimità, il Legislatore con le nuove norme si è posto l’obbiettivo di evitare il riproporsi di casi giudiziari, in cui gli amministratori sono giudicati responsabili del reato di false comunicazioni sociali per l’omissione di somme nel bilancio tale da comportare una variazione minima ed irrilevante rispetto alla reale situazione patrimoniale ed economica delle società (vd. caso Fiat).

A tale scopo il decreto legislativo prevede sia per il falso in bilancio contravvenzionale (art.2621, 3°comma, c.c.) sia per il falso in bilancio “dannoso” (art.2622, 5° comma, c.c.) un doppio sistema di soglie di punibilità articolato in termini indefiniti e in termini percentuali.

E’ opportuno, in primo luogo, analizzare la soglia di carattere percentuale, la quale esclude la punibilità se “le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%”.

La soglia quantitativa di non punibilità determinata nella misura non superiore al 5% del risultato economico di esercizio, era già stata prevista nella prima bozza del decreto legislativo.

Essendo quest’ultima ritenuta corretta dalla Security Exchange Commission (SEC) degli Stati Uniti, il Legislatore, su raccomandazione del Senato della Repubblica, ha introdotto in via alternativa la soglia dell’1% di variazione del patrimonio netto, al fine di evitare che, a parità di risultato economico, venissero penalizzate quelle società aventi un elevato capitale sociale, ma una bassa redditività.

Trattandosi, quindi, di criteri alternativi, come si legge anche nella relazione del Governo al decreto legislativo, si è voluta individuare con precisione una sorta di franchigia penale all’interno della quale le falsità o le omissioni si devono ritenere inoffensive e conseguentemente non punibili.

E’ necessario anche precisare che, se queste prime due soglie percentuali non dovessero trovare applicazione, il Legislatore ne ha comunque previsto una terza di uguale natura, con cui ha stabilito che “in ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta” (art.2621, 4° comma, c.c.).

Quest’ultimo comma dell’art.2621 c.c. deve, però, essere correttamente interpretato, ossia l’espressione “il fatto non è punibile” induce a ritenere che questa causa di non punibilità sia finalizzata a escludere la rilevanza penale non delle mere valutazioni estimative scorrette (che esulano dalla nozione di fatto), ma delle errate valutazioni (superiori al 10%) di fatti materiali.

In poche parole, parrebbe che il “fatto materiale” senza valutazioni è punibile di per sé ove ricorrano una delle variazioni sopra indicate e previste dal 3° comma dell’art.2621, mentre se viene anche assoggettato a valutazione è punibile solo se questa accerti una divergenza superiore al 10% rispetto alla reale situazione patrimoniale ed economica della società.

Da questa analisi delle soglie quantitative, ritenute indispensabili per restringere in qualche modo il raggio d’azione del reato di falso in bilancio, emerge che siamo in presenza di una situazione in cui l’operato degli amministratori delle società, costituito da false sopravvalutazioni o sottovalutazioni delle singole voci di bilancio, se un tempo veniva considerato illegale ed eventualmente punibile, oggi con questa riforma viene legalizzato purchè compreso nei limiti percentuali previsti.

In ultimo, dalla lettura del principio generale contenuto nella prima parte del 3° comma dell’art.2621 c.c., secondo cui “la punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società”, derivano le maggiori perplessità se lo si interpreta nel senso che al giudice è in ogni caso attribuita la più ampia ed incontrollata discrezionalità nel giudicare punibili anche falsità o omissioni non rientranti nelle soglie sopra esaminate.

Correttamente, invece, parrebbe che tale valutazione del giudice debba assumere un ruolo decisivo solo nei casi in cui, non trovando in alcun modo applicazione le soglie percentuali, le falsità o le omissioni siano realmente idonee ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni arrecando anche un danno patrimoniale ai soci o ai creditori.

Solo così, quindi, tale principio sembra essere in linea con lo spirito della riforma e con  l’intera struttura del nuovo falso in bilancio caratterizzata da una estrema precisione nei suoi elementi costitutivi.

Diversamente, invece, il Legislatore non avrebbe fatto nessun passo avanti rispetto alla vecchia disciplina e alle molteplici interpretazioni che venivano date all’avverbio “fraudolentemente” contenuto nell’ abrogato art.2621 c.c. .

In ogni modo si dovranno comunque attendere le prime applicazioni di tali norme ai casi concreti per comprendere il corretto funzionamento delle soglie.

A primi risvolti in senso pratico abbiamo già assistito il giorno dopo l’entrata in vigore di tale decreto legislativo.

Infatti sono subito sorti problemi di carattere pratico processuali, quali la continuità tra la vecchia e la nuova disciplina e la procedibilità a querela per il delitto di false comunicazioni sociali nel caso di società non quotate in Borsa.

Con riferimento alla questione della continuità normativa possiamo brevemente esporre cosa è successo il giorno dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto legislativo presso il Tribunale di Milano nell’ambito di un noto processo per falso in bilancio.

In assenza di specifiche norme che stabiliscano se siano diventati penalmente irrilevanti i fatti integranti ipotesi di falso in bilancio o in altre comunicazioni sociali commessi prima della riforma, i difensori degli imputati non avevano perso tempo a presentare istanze di archiviazione per i processi in corso, sostenendo che i fatti contestati ai loro assistiti non sarebbero più previsti come reati.

Questa mossa degli avvocati, abbastanza logica e prevedibile, ha dato vita ad un acceso dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina sulla successione temporale delle leggi (art.2 c.p.), ossia se le nuove norme hanno comportato la completa abrogazione di quelle precedenti oppure no.

Secondo la prevalente se pur ancora scarsa giurisprudenza il criterio preferibile da seguire è quello che si basa sul rapporto strutturale delle fattispecie, grazie al quale si può sostenere che sia stata abrogata una disposizione di legge generale (il vecchio art. 2621 c.c.) e che siano state introdotte al suo posto due disposizioni speciali (gli attuali articoli 2621 e 2622 c.c.) che contemplano le tre ipotesi di reato (una contravvenzionale  e due delittuose) caratterizzate da un numero maggiore di elementi costitutivi.

Sulla base di questo criterio, quindi, solo i comportamenti pregressi che non rientrano nell’ambito delle nuove e più ristrette disposizioni incriminatrici perderebbero rilievo penalistico, sicchè solo nei loro confronti si potrebbe parlare di vera e propria abolitio criminis.

E’ su questa linea, quindi, l’importante ordinanza pronunciata dai giudici della seconda Sezione penale del Tribunale di Milano il 23 aprile 2002 in risposta alle istanze di archiviazioni. Infatti in questa i giudici, dopo aver esaminato gli elementi costitutivi delle attuali fattispecie di false comunicazioni sociali e dopo aver posto a confronto la vecchia e la nuova disposizione di legge, hanno osservato che le nuove condotte sono strutturalmente assimilabili a quelle della normativa previgente, in quanto il nucleo centrale del fatto rimane lo stesso.

In sostanza, si legge nell’ordinanza: “le attuali incriminazioni aggiungerebbero agli elementi costitutivi della fattispecie precedente alcuni elementi specializzanti, realizzando così uno dei modelli tipici di successione nel tempo di fattispecie incriminatrici delineati da dottrina e giurisprudenza”.

A sostegno di questa tesi, ci sarebbe anche la volontà del legislatore come rivelano alcuni indici normativi: 1) il riferimento, nell’art.1 del decreto legislativo n.61/2002, non all’abrogazione, ma alla sostituzione del precedente art.2621 c.c., 2) il mantenimento della medesima collocazione nel Codice Civile, pur con lo sdoppiamento del reato in due diverse ma contigue disposizioni di legge, 3) l’utilizzazione dello stesso nomen iuris  di false comunicazioni sociali, 4) la previsione di un regime transitorio assolutamente incompatibile con l’introduzione di una nuova incriminazione, essendo stata contemplata nell’art.5 dello stesso decreto legislativo la possibilità di proporre querela in ordine ai reati perseguibili in tal modo commessi prima dell’entrata in vigore della riforma.

Contro questa impostazione giurisprudenziale, un’autorevole dottrina capeggiata dal Musco ritiene che la riforma dei reati societari presenta, senza alcuna ombra di dubbio, un carattere evidente di discontinuità rispetto alla precedente legislazione e alla prassi applicativa formatasi sotto la vigenza del precedente testo normativo.

Tali affermazioni si basano fondamentalmente su un ineccepibile orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione che, valorizzando i profili di diversità strutturale fra le fattispecie, ritiene che ci sia abolitio criminis tutte le volte in cui si sia in presenza di segni di “disomogeneità strutturale”.

Questa disomogeneità, secondo le Sezioni Unite, si desume da tre indici: 1) diversa natura dell’illecito; 2) previsione di un dolo specifico; 3) realizzazione dell’evento.

Applicando, quindi, questi parametri alla nuova disciplina, la dottrina sostiene che la sola coerente conclusione non può che essere nel senso dell’abrogazione del vecchio reato di falso, con tutte le conseguenze che devono, per legge, discendere.

Ultima novità rilevante in materia procedurale è la previsione, nell’art.2622 c.c., della querela in ipotesi di falso in bilancio in danno dei soci o dei creditori per le società non quotate in Borsa.

Bisogna evidenziare che per i reati commessi dopo l’entrata in vigore nulla quaestio, mentre per quelli pregressi il Legislatore, come sopra accennato, ha previsto all’art.5 del decreto legislativo che il termine  per la proposizione della querela decorre dalla data di entrata in vigore della riforma stessa.

Ne deriva quindi che per questi ultimi reati gli interessati dovranno attivarsi per presentare la querela entro tre mesi così come sancito dall’art.124 c.p.

Qualora i danneggiati non intendano presentare la querela, la perseguibilità dei responsabili della società che hanno commesso le falsità potrà avvenire solo a titolo contravvenzionale a norma dell’art.2621 non sussistendo, in concreto, alcun danno.

Per concludere, si può notare che, con l’introduzione delle novità sopra esaminate, la riforma dei reati societari anche se da un punto di vista strutturale si può ritenere completa ed omogenea rispetto alla disciplina precedente, da un punto di vista pratico invece darà vita a numerosi problemi di carattere applicativo, per la cui soluzione ci si dovrà affidare alle valide capacità critiche ed interpretative degli operatori del diritto.

STUDIO LEGALE GGM

[Maggio 2002] - La Confindustria ha pubblicato le Linee Guida per la Costruzione dei modelli anti-reato ex art. 6 della legge 231/2000

La Confindustria ha finalmente approvato le Linee Guida per la Costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo previsti dall’art. 6 della legge 231/2000.

Tali modelli, già presi in esame nella circolare pubblicata da questo studio sul sito Onlinelex.com il 21.09.2001 (Responsabilità degli enti: dubbi e ritardi nella predisposizione dei modelli organizzativi antireato), hanno la funzione di esimere l’ente che provvede ad adottarli, da responsabilità in caso di commissione dei reati di frode, concussione e corruzione commessi dai propri amministratori/dipendenti.

La legge 231/2001 prevede l’adozione del modello di organizzazione gestione e controllo in termini di facoltatività e non di obbligatorietà. La mancata adozione del modello, pertanto, non comporta alcuna sanzione a carico dell’ente, ma l’ente che vorrà beneficiare dell’esimente avrà l’obbligo di adottare un modello che presenti i requisiti e le caratteristiche, indicate dalla legge, necessarie a garantirne l’efficacia.

L’applicazione delle sanzioni alle imprese, infatti, incide direttamente sugli interessi economici dei soci. Questi, nel caso di commissione di un reato per il quale è prevista una responsabilità dell’impresa, potrebbero esperire un’ azione di responsabilità nei confronti degli amministratori per non aver adottato quei modelli in grado di far beneficiare all’ente del meccanismo di esonero.

Allo scopo di fornire delle indicazioni utili alle imprese e associazioni che vogliano realizzare un efficace modello “anti-reato”, la Confindustria ha pertanto diffuso una serie di indicazioni, tratte essenzialmente dalla pratica aziendale, ritenute utili a rispondere in astratto alle esigenze delineate dal D. lgs. 231/2001.

Le indicazioni fornite dalla Confindustria sono peraltro molto generali e astratte e necessitano di una successiva attività di elaborazione e di adattamento da parte della singola impresa o associazione anche per il tramite dei propri professionisti di fiducia. Cìò,  in quanto la costruzione di un efficace modello “antireato” è strettamente connessa alle caratteristiche proprie dell’impresa cui esso si applica e di conseguenza, il rischio reato sarà diverso per ogni impresa a seconda della struttura, delle dimensioni,  del settore economico –geografico in cui quest’ultima svolge la propria attività.

Lo schema seguito dalla confindustria nell’elaborazione delle Linee Guida riprende i processi di risk management e risk assessment normalmente attuati nelle imprese e consiste:

·        nell’identificazione dei rischi in relazione ai reati che possono essere commessi;

·        nella progettazione di un sistema di controllo preventivo, realizzato attraverso la costruzione di un sistema organizzativo adeguato e la procedimentalizzazione di determinate attività;

·        nell’adozione di un codice etico e di un sistema di sanzioni disciplinari applicabili in caso di mancato rispetto delle misure previste dal modello, al fine di conservarne l’effettività;

·        nell’individuazione dei criteri per la scelta di un organismo di controllo interno all’impresa, dotato delle funzioni necessarie, che dovrà vigilare sull’efficacia, sull’adeguatezza e sull’applicazione del rispetto del modello.

La Confindustria costruisce il proprio sistema di controllo preventivo partendo dall’individuazione del concetto di “rischio accettabile” per un simile sistema.

La soglia di accettabilità del rischio è rappresentata da un sistema di prevenzione che non possa essere aggirato se non intenzionalmente.

Ciò sta a significare che il modello organizzativo dell’ente, dovrà essere tale da potere essere aggirato non per negligenza o imperizia, ma unicamente per volontà dolosa.

Al fine di realizzare un sistema di gestione del rischio, la Confindustria, pone quale obiettivo quello di procedimentalizzare le attività che comportano un rischio di reato, al fine di evitarne la commissione.

Per attivare un sistema di gestione dei richi l’ente dovrà pertanto:

·        fare una mappa delle aree aziendali a rischio

·        fare una mappa delle potenziali modalità attuative degli illeciti, nelle aree sopra individuate

·        fare una descrizione dei sistemi di controllo attivati e degli adeguamenti necessari.

Tale sistema dovrà essere completato e integrato da parte dell’ente, mediante la costruzione di un’adeguato sistema di controllo preventivo, che dovrà possedere una serie componenti (o protocolli) ritenute necessarie e indispensabili al fine di garantire l’efficacia del modello.

Tra le varie componenti vi sono : l’adozione di un codice etico con rifermento ai reati considerati; un sistema organizzativo chiaro e formalizzato in grado di assicurare trasparenza sulle linee di dipendenza gerarchica e sulle attribuzioni di responsabilità; procedure manuali e informatiche tali da regolamentare lo svolgimento delle attività prevedendo gli opportuni punti di controllo; poteri autorizzativi e di firma; sistema di controllo di gestione in grado di mettere in evidenza l’insorgenza di situazioni critiche.

L’ente che vorrà evitare di vedersi addebitata la responsabilità per i reati commessi dai propri amministratori/dipendenti, in conformità con quanto previsto dalla lett. b) dell’art. 6 del D. lgs. 231/2001, dovrà affidare “ad un organismo autonomo dell’ente dotato di propri poteri di iniziativa e di controllo il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del modello e di garantirne l’aggiornamento..”

In relazione a tale organismo di controllo, la Confindustria esclude che tale organo possa essere identificato nel Consiglio d’Amministrazione o all’insieme degli amministratori senza deleghe, in primo luogo in considerazione delle attività specialistiche e di controllo proprie di tale organo autonomo che presuppongono la conoscenza di tecniche e strumenti ad hoc, nonché una continuità di azione levata.

In secondo luogo, perché l’indicazione contenuta nella relazione di accompagamento al decreto 231/2001, in merito all’organismo, parla di “struttura che deve essere costruita all’interno dell’ente”, mentre al Consiglio di Amministrazione, secondo il Codice Preda[1], va affidato il compito di sovraintendere al Sistema di Controllo Interno (il Comitato per il Controllo Interno), con poteri soltanto consultivi e propositivi.

Considerazioni analoghe sono state effettuate per il Collegio Sindacale. In merito al profilo della professionalità tale organo potrebbe essere attrezzato per adempiere al ruolo di vigilanza, resterebbe però difficoltoso riscontrare in esso i caratteri di struttura interna e di continuità d’azione che il legislatore ha inteso attribuire a tale organo.

Molti dubbi sono stati avanzati anche in merito alla soluzione di affidare tale compito alle strutture aziendali già esistenti, quali per esempio quella legale o di gestione e Organizzazione del Personale. Al riguardo, infatti, si sono evidenziati due elementi negativi che ne sconsigliano l’adozione e cioè: la mancanza in capo a tali soggetti della professionalità e tecnicità richiesta dalla legge; il difetto dell’imprescindibile requisito della imparzialità e obiettività di giudizio di tale organo sull’iter di un processo o di un operato aziendale.

La soluzione proposta dalla Confindustria è quella di affidare un tale compito alla funzione di Internal Auditing (o Revisone Interna).

Negli enti medio-grandi, quotati e non si va sempre più diffondendo l’istituzione di tale funzione  che  è un’attività indipendente ed obiettiva di “assurance” e consulenza, finalizzata al miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’organizzazione.

Tale funzione  viene generalmente collocata alle dirette dipendenze del Vertice esecutivo aziendale, giacchè deve operare in supporto ad esso e a tutto campo sul monitoraggio del Sistema di Controllo Interno che ha, tra i suoi obiettivi, quello di assicurare l’efficacia e l’efficienza di controlli e delle attività operative aziendali.

Inoltre tale funzione  ha compito di fare indagini di carattere ispettivo e di verificare l’esistenza e il buon funzionamento dei controlli atti ad evitare il rischio di infrazioni della legge in generale, tra cui quelle sulla sicurezza e sulla privacy.

Per l’attività di controllo e di ispezione da essa svolta e per le caratteristiche proprie di tale funzione, la Confindustria ritiene che tale funzione sia idonea a fungere da Organismo ex D. Lgs. n. 23172001, prevedendo altresì come ipotesi possibile quella di affiancare tale funzione a dei consulenti esterni, specializzati in determinati settori ai quali delegare circoscritti ambiti di indagine.

Tuttavia, bisogna tenere presente come in molte realtà esistenti, anche di ampie dimensioni, tale funzione non sia attualmente prevista.

La Confindustria, al riguardo, non propone una soluzione alternativa a quella appena delineata e suggerisce di demandare a un organo interno alla società tale funzione di vigilanza, avvalendosi casomai delle specifiche professionalità dei consulenti esterni per l’esecuzione delle operazioni tecniche necessarie per lo svolgimento della funzione di controllo.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

[1] Codice di Autodisciplina elaborato dal Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate della Borsa Italiana.

[Aprile 2002] - Le novità del nuovo Accordo Economico Collettivo agenti e rappresentanti del settore commercio

La Confindustria ha finalmente approvato le Linee Guida per la Costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo previsti dall’art. 6 della legge 231/2000.

Tali modelli, già presi in esame nella circolare pubblicata da questo studio sul sito Onlinelex.com il 21.09.2001 (Responsabilità degli enti: dubbi e ritardi nella predisposizione dei modelli organizzativi antireato), hanno la funzione di esimere l’ente che provvede ad adottarli, da responsabilità in caso di commissione dei reati di frode, concussione e corruzione commessi dai propri amministratori/dipendenti.

La legge 231/2001 prevede l’adozione del modello di organizzazione gestione e controllo in termini di facoltatività e non di obbligatorietà. La mancata adozione del modello, pertanto, non comporta alcuna sanzione a carico dell’ente, ma l’ente che vorrà beneficiare dell’esimente avrà l’obbligo di adottare un modello che presenti i requisiti e le caratteristiche, indicate dalla legge, necessarie a garantirne l’efficacia.

L’applicazione delle sanzioni alle imprese, infatti, incide direttamente sugli interessi economici dei soci. Questi, nel caso di commissione di un reato per il quale è prevista una responsabilità dell’impresa, potrebbero esperire un’ azione di responsabilità nei confronti degli amministratori per non aver adottato quei modelli in grado di far beneficiare all’ente del meccanismo di esonero.

Allo scopo di fornire delle indicazioni utili alle imprese e associazioni che vogliano realizzare un efficace modello “anti-reato”, la Confindustria ha pertanto diffuso una serie di indicazioni, tratte essenzialmente dalla pratica aziendale, ritenute utili a rispondere in astratto alle esigenze delineate dal D. lgs. 231/2001.

Le indicazioni fornite dalla Confindustria sono peraltro molto generali e astratte e necessitano di una successiva attività di elaborazione e di adattamento da parte della singola impresa o associazione anche per il tramite dei propri professionisti di fiducia. Cìò,  in quanto la costruzione di un efficace modello “antireato” è strettamente connessa alle caratteristiche proprie dell’impresa cui esso si applica e di conseguenza, il rischio reato sarà diverso per ogni impresa a seconda della struttura, delle dimensioni,  del settore economico –geografico in cui quest’ultima svolge la propria attività.

Lo schema seguito dalla confindustria nell’elaborazione delle Linee Guida riprende i processi di risk management e risk assessment normalmente attuati nelle imprese e consiste:

·        nell’identificazione dei rischi in relazione ai reati che possono essere commessi;

·        nella progettazione di un sistema di controllo preventivo, realizzato attraverso la costruzione di un sistema organizzativo adeguato e la procedimentalizzazione di determinate attività;

·        nell’adozione di un codice etico e di un sistema di sanzioni disciplinari applicabili in caso di mancato rispetto delle misure previste dal modello, al fine di conservarne l’effettività;

·        nell’individuazione dei criteri per la scelta di un organismo di controllo interno all’impresa, dotato delle funzioni necessarie, che dovrà vigilare sull’efficacia, sull’adeguatezza e sull’applicazione del rispetto del modello.

La Confindustria costruisce il proprio sistema di controllo preventivo partendo dall’individuazione del concetto di “rischio accettabile” per un simile sistema.

La soglia di accettabilità del rischio è rappresentata da un sistema di prevenzione che non possa essere aggirato se non intenzionalmente.

Ciò sta a significare che il modello organizzativo dell’ente, dovrà essere tale da potere essere aggirato non per negligenza o imperizia, ma unicamente per volontà dolosa.

Al fine di realizzare un sistema di gestione del rischio, la Confindustria, pone quale obiettivo quello di procedimentalizzare le attività che comportano un rischio di reato, al fine di evitarne la commissione.

Per attivare un sistema di gestione dei richi l’ente dovrà pertanto:

·        fare una mappa delle aree aziendali a rischio

·        fare una mappa delle potenziali modalità attuative degli illeciti, nelle aree sopra individuate

·        fare una descrizione dei sistemi di controllo attivati e degli adeguamenti necessari.

Tale sistema dovrà essere completato e integrato da parte dell’ente, mediante la costruzione di un’adeguato sistema di controllo preventivo, che dovrà possedere una serie componenti (o protocolli) ritenute necessarie e indispensabili al fine di garantire l’efficacia del modello.

Tra le varie componenti vi sono : l’adozione di un codice etico con rifermento ai reati considerati; un sistema organizzativo chiaro e formalizzato in grado di assicurare trasparenza sulle linee di dipendenza gerarchica e sulle attribuzioni di responsabilità; procedure manuali e informatiche tali da regolamentare lo svolgimento delle attività prevedendo gli opportuni punti di controllo; poteri autorizzativi e di firma; sistema di controllo di gestione in grado di mettere in evidenza l’insorgenza di situazioni critiche.

L’ente che vorrà evitare di vedersi addebitata la responsabilità per i reati commessi dai propri amministratori/dipendenti, in conformità con quanto previsto dalla lett. b) dell’art. 6 del D. lgs. 231/2001, dovrà affidare “ad un organismo autonomo dell’ente dotato di propri poteri di iniziativa e di controllo il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del modello e di garantirne l’aggiornamento..”

In relazione a tale organismo di controllo, la Confindustria esclude che tale organo possa essere identificato nel Consiglio d’Amministrazione o all’insieme degli amministratori senza deleghe, in primo luogo in considerazione delle attività specialistiche e di controllo proprie di tale organo autonomo che presuppongono la conoscenza di tecniche e strumenti ad hoc, nonché una continuità di azione levata.

In secondo luogo, perché l’indicazione contenuta nella relazione di accompagamento al decreto 231/2001, in merito all’organismo, parla di “struttura che deve essere costruita all’interno dell’ente”, mentre al Consiglio di Amministrazione, secondo il Codice Preda[1], va affidato il compito di sovraintendere al Sistema di Controllo Interno (il Comitato per il Controllo Interno), con poteri soltanto consultivi e propositivi.

Considerazioni analoghe sono state effettuate per il Collegio Sindacale. In merito al profilo della professionalità tale organo potrebbe essere attrezzato per adempiere al ruolo di vigilanza, resterebbe però difficoltoso riscontrare in esso i caratteri di struttura interna e di continuità d’azione che il legislatore ha inteso attribuire a tale organo.

Molti dubbi sono stati avanzati anche in merito alla soluzione di affidare tale compito alle strutture aziendali già esistenti, quali per esempio quella legale o di gestione e Organizzazione del Personale. Al riguardo, infatti, si sono evidenziati due elementi negativi che ne sconsigliano l’adozione e cioè: la mancanza in capo a tali soggetti della professionalità e tecnicità richiesta dalla legge; il difetto dell’imprescindibile requisito della imparzialità e obiettività di giudizio di tale organo sull’iter di un processo o di un operato aziendale.

La soluzione proposta dalla Confindustria è quella di affidare un tale compito alla funzione di Internal Auditing (o Revisone Interna).

Negli enti medio-grandi, quotati e non si va sempre più diffondendo l’istituzione di tale funzione  che  è un’attività indipendente ed obiettiva di “assurance” e consulenza, finalizzata al miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’organizzazione.

Tale funzione  viene generalmente collocata alle dirette dipendenze del Vertice esecutivo aziendale, giacchè deve operare in supporto ad esso e a tutto campo sul monitoraggio del Sistema di Controllo Interno che ha, tra i suoi obiettivi, quello di assicurare l’efficacia e l’efficienza di controlli e delle attività operative aziendali.

Inoltre tale funzione  ha compito di fare indagini di carattere ispettivo e di verificare l’esistenza e il buon funzionamento dei controlli atti ad evitare il rischio di infrazioni della legge in generale, tra cui quelle sulla sicurezza e sulla privacy.

Per l’attività di controllo e di ispezione da essa svolta e per le caratteristiche proprie di tale funzione, la Confindustria ritiene che tale funzione sia idonea a fungere da Organismo ex D. Lgs. n. 23172001, prevedendo altresì come ipotesi possibile quella di affiancare tale funzione a dei consulenti esterni, specializzati in determinati settori ai quali delegare circoscritti ambiti di indagine.

Tuttavia, bisogna tenere presente come in molte realtà esistenti, anche di ampie dimensioni, tale funzione non sia attualmente prevista.

La Confindustria, al riguardo, non propone una soluzione alternativa a quella appena delineata e suggerisce di demandare a un organo interno alla società tale funzione di vigilanza, avvalendosi casomai delle specifiche professionalità dei consulenti esterni per l’esecuzione delle operazioni tecniche necessarie per lo svolgimento della funzione di controllo.

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[1] Codice di Autodisciplina elaborato dal Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate della Borsa Italiana.

[Aprile 2002] - Lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e giurisdizione

La nuova disciplina della giurisdizione in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che è entrata in vigore a partire dal 1 luglio 1998, trae la sua origine dal decreto legislativo del 23.10.1993 n. 29 ma ha trovato una compiuta regolamentazione solo con la legge di delega del 15.03.1997 n. 59 (legge Bassanini), con il d. lgs. 31.03.1998 n. 80 e con la legge 205/2000.

Dalla tradizionale tutela giurisdizionale del pubblico dipendente legata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[1], si è passati,  con le disposizioni di cui all’art. 68 del d. lgs. n. 29/1993 ad una devoluzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, di gran parte delle controversie relative al rapporto di lavoro di pubblico impiego.

Questo spostamento di giurisdizione è stato la conseguenza immediata e diretta di quel processo, avviato con il d. lgs. n. 29/1993, di unificazione del sistema delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico con quello privato che viene assoggettato alla disciplina del codice civile, alle leggi che regolano i rapporti di lavoro  subordinato nell’impresa (art. 2, d. lgs. n. 29/1993) e allo Statuto dei lavoratori “che si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. (art. 55, d. lgs  n. 29/1993)

L’orginaria formulazione dell’articolo 68 del d. lgs. n. 29/1993, peraltro mai entrata in vigore per effetto delle successive modifiche, prevedeva la devoluzione al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze pubbliche, con esclusione delle materie di cui i numeri da 1 a 7 dell’art. 2 comma 1, lett. c) della legge delega 421/1992.[2] L’articolo effettuava altresì una inopportuna esemplificazione delle controversie che erano “in ogni caso” devolute al giudice ordinario.

L’attuale formulazione dell’art. 68, così come modificato dall’art. 29 del d. lgs. n. 80/1998, è espressione della volontà del legislatore di attribuire al giudice ordinario una competenza in materia di rapporto di lavoro il più possibile unitaria e completa nonchè di determinare un riparto tra le giurisdizioni sulla base di una competenza per materia.

L’art. 68 prevede, al primo comma, “la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 comma 2 dello stesso decreto[3], incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti”.

L’articolo precisa poi nello stesso comma, che la devoluzione avviene ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti, giacchè quest’ultimi, se sono rilevanti ai fini della decisione e illegittimi, vanno disapplicati e che comunque “l’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo”.

Al secondo comma l’articolo 68 chiarisce che il giudice ordinario può e deve adottare nei riguardi delle pubbliche amministrazioni convenute tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati e che le sue sentenze che riconoscono il diritto all’assunzione ovvero accertano che l’assunzione è avvenuta illegittimamente, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro.

Al giudice ordinario sono altresì devolute le controversie in materia di comportamento antisindacale e quelle relative alle procedure di contrattazione collettiva e in ogni caso il ricorso per cassazione è ammesso pure per violazione dei contratti o accordi collettivi (art. 68 comma terzo così come novellato dal d. lgs. n. 80/1998).

In ragione della scelta del legislatore di attribuire al giudice ordinario una competenza pressochè generale in relazione alle controversie in materia di pubblico impiego, nasce spontaneo domandarsi se lo stesso non abbia voluto istituire una nuova giurisdizione esclusiva del giudice ordinario, comprensiva di una competenza dello stesso giudice anche in materia di interessi legittimi.

Anche a voler superare il problema della astratta possibilità di attribuire al G.O. una giurisdizione in materia di interessi legittimi, visto l’attuale criterio costituzionale del riparto della giurisdizione per posizioni giuridiche soggettive,  in realtà una simile ipotesi deve essere esclusa in virtù delle previsioni normative.

In primo luogo infatti, si deve osservare che l’attribuzione di una competenza pressochè generale al G.O. è stata ottenuta attraverso la quasi totale eliminazione delle posizioni soggettive di interesse legittimo avvenuta mediante la riconduzione alla disciplina privatistica di una molteplicità di atti della pubblica amministrazione tra i quali rientrano anche quelli attinenti alla c.d. micro-organizzazione dell’amministrazione, cioè quelli inerenti alla concreta e minuta organizzazione degli uffici,  ai sensi dell’art. 2 co. 2 e art. 3 co.2 e  art.4 co.2 del d. lgs. n. 29/1993 come novellato dal d. lgs. 80/1998.

In secondo luogo, la fondatezza di una simile ipotesi va esclusa dalla previsione, contenuta nell’articolo 68 primo comma, della possibilità di impugnazione dell’atto amministrativo di fronte al giudice amministrativo che conferma l’esistenza in materia di residui interessi legittimi tutelabili avanti al giudice amministrativo (secondo l’ordinario riparto di giurisdizione  ex art. 103 Costituzione) e dalla permanenza del divieto, in capo al giudice ordinario, di annullare gli atti amministrativi, ancorchè illegittimi.

Il giudice amministrativo, secondo quanto disposto dall’art. 68 novellato dal d. lgs. n. 80/1998, invece, mantiene la propria competenza in quelle controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e una giurisdizione esclusiva nelle controversie relative ai rapporti di lavoro non privatizzati ex. art. 2 co. 4 e 5 del d. lgs. n. 29/1993 (che riguardano il pubblico impiego di particolari categorie di di personale, quali magistrati, avvocati dello stato, personale della carriera prefettizia, militari, forze di polizia).

Nello stesso tempo il legislatore, con gli art. 33-35 del d. lgs. n. 80/1998, ha attribuito al giudice amministrativo una vera e propria giurisdizione esclusiva in materia: 1) di pubblici servizi, con particolare riguardo a quelle relative al credito, alla vigilanza sulle assicurazioni, al mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla legge 481/1995, alle procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori e forniture; 2) in materia di urbanistica ed edilizia.

Sono escluse invece dalla sua competenza, i casi già rientranti nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche e quelle controversie riguardanti la determinazione e corresponsione dell’indennità di espropriazione o comunque connessa all’adozione di provvedimenti ablatori.

L’art. 35 del d. lgs. n.80/98 dispone che il giudice amministrativo nelle materie attribuite alla propria giurisdizione esclusiva “dispone anche attraverso il risarcimento in forma specifica del risarcimento del danno” e che “ il giudice può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore di pubblici servizi  possono determinare una somma di denaro da versare alla controparte, evidentemente a titolo risarcitorio.”

Alcune problematiche nella individuazione della giurisdizione competente:

L’attuale formulazione dell’art. 68 ha creato alcune difficoltà interpretative in relazione alla individuazione della giurisdizione competente: in particolare con riferimento agli incarichi dirigenziali, alle procedure concorsuali e infine alla applicazione del criterio del riparto temporale  tra le giurisdizioni.

In relazione alle controversie relative al conferimento delle cariche dirigenziali, nonostante il legislatore all’art. 68 co 1 del d. lgs. n. 29/1993 nella sua originaria formulazione le abbia espressamente  devolute al G.O., si è determinato un contrasto tra le pronunce di alcuni giudici ordinari e quelle di alcuni TAR: i primi rivendicavano infatti la  propria competenza sul presupposto che l’atto di nomina dovesse essere considerato come atto negoziale inerente al rapporto di lavoro, i secondi invece rivendicavano la propria giurisdizione a conoscere di dette controversie in forza della qualificazione dell’atto di nomina quale atto di esercizio di una potestà pubblica (TAR Lombardia Milano sez. II, 21.02.1999 n. 60 e TAR Puglia, Lecce, sez. I, 6.02.1999 n. 271).

In senso contrario, invece, sulla spettanza della giurisdizione al giudice ordinario in merito alle controversie relative al conferimento di incarichi dirigenziali (TAR Campania, Napoli, sez IV, 7.02.2000 n. 352 e TAR Lombardia, Milano, ord. N. 2747 del 22.08.2000).

Tale contrasto è stato recentemente risolto a seguito di alcune pronunce della Corte Costituzionale: già con sentenza  n. 275/2001, la Corte aveva affermato la piena legittimità dell’articolo 68 del d. lgs n. 29/1993 nella parte in cui attribuisce al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie relative agli incarichi dirigenziali.

Ancor più recentemente, tale principio è stato di nuovo riaffermato dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza 11/2002.

Con tale ordinanza la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di illegittimità costituzionale della nuova disciplina ( e in particolare, della norma di delega contenuta nell’art. 11, comma 4, lett. a della legge n. 59/1997 e degli art.15, 19, 21, 23 e 24 del d. lgs. n. 29/1993, nel testo modificato), estensiva del regime di diritto privato già esistente per i dirigenti anche ai dirigenti generali, per presunto contrasto con gli articoli 3, 97 e 98 della Costituzione. Ciò in quanto la nuova disciplina avrebbe comportato per i dirigenti generali uno stato di  debolezza e precarietà che avrebbe impedito loro di operare secondo i canoni dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione.

La Corte, invece, nella suddetta ordinanza ha ritenuto in sostanza:

-         che l’estensione della normativa privatistica anche ai dirigenti generali rientri nell’ambito della discrezionalità del legislatore in quanto trattasi di posizioni che, a differenza di quanto accade per es. ai magistrati,  non necessitano di essere stabiliti necessariamente con legge al fine di garantire loro uno stato giuridico particolare;

-         che, nonostante la privatizzazione, la posizione dei dirigenti generali rimane differenziata anche all’interno del ruolo unico e che la disciplina di significativi momenti del rapporto riserva ai dirigenti di prima fascia uno speciale e più favorevole trattamento;

-         che la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale (in particolare il conferimento degli incarichi dirigenziali e la loro revoca) nonché la procedimentalizzazione dell’accertamento di tale responsabilità è connotata da specifiche garanzie mirate a presidiare il rapporto di pubblico impiego dei dirigenti generali;

-         che i dirigenti generali sono quindi posti in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto del principio di imparzialità e buon andamento.

Assolutamente incerto appare tutt’ora l’orientamento in materia di conferimento di incarichi di dirigente sanitario di secondo livello, principalmente in ordine alle incertezze sulla qualificazione “concorsuale” o meno, della particolare procedura selettiva che precede la determinazione del Direttore Generale dell’Azienda sanitaria.

Alle pronunzie che hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario in materia (TAR Molise, 25.11.1999 n.496; TAR Lombardia, sez. Brescia, ord. 25.02.2000 n.. 115 e 7.04.2000 n.209 e sent. 8.07.2000 n.618; TAR Sicilia, Palermo, sez. I 3.10.2000 n.1778 e 5.03.2001 n.351) si sono contrapposte altre pronunzie che hanno invece, affermato la competenza del giudice amministrativo (TAR Valle d’Aosta 23.06.2000 n.113; TAR Abruzzo, Pescara 26.02.2000 n.132 e L’Aquila 3.08.2000 n.605).

Le modalità e i tempi di attribuzione delle varie materie affidate alla competenza del giudice ordinario sono state disciplinate dall’art. 45 del d.l. 1998 n. 80 comma 17, il quale prevede che la competenza del giudice ordinario sia riservata per quelle questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998.

Le questioni invece attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e devono essere proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000

Nell’individuare il criterio del riparto tra le giurisdizioni il legislatore prescinde da quanto previsto dall’art. 5 del c.p.c e determina la giurisdizione in virtù delle questioni attinenti al … “periodo del rapporto di lavoro”….. che è divenuto il vero elemento di discrimine della giurisdizione.

Le difficoltà interpretative che una simile espressione, generica e atecnica, ha creato sono dovute al fatto che essa può essere riferibile ad una molteplicità di momenti: come al dato storico di avveramento del fatto materiale e delle circostanze in relazione alle quali sia sorta la controversia, oppure all’arco temporale in cui l’atto produce i suoi effetti, oppure al momento di insorgenza del diritto in contestazione.

Ancora non è stata fatta definitiva chiarezza sul punto, ad una prima pronunzia della giurisprudenza che poneva l’accento sul dato storico costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze- così come posti a base della pretesa avanzata- in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta la controversia (Cass. 808/1999) ne sono seguite altre che pongono l’accento sulla data di adozione dell’atto ritenuto lesivo,  provvedimentale o negoziale, dell’amministrazione. (Cass. S.S.UU 505/2000; Cass. S.S.UU 553/2000; Cass. 41/2000, 1214/2000).

Recentemente il Consiglio di Stato (sez. IV, n.1176/2001) ha recepito detta soluzione, ritenendo che se la lesione del diritto del lavoratore è prodotta da un atto provvedimentale o negoziale, debba farsi riferimento all’epoca della sua emanazione.

La Cassazione ha ritenuto che, nel caso in cui il lavoratore riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore e in parte successivo alla data del 30.06.1998, la competenza giurisdizionale dovrà essere del giudice amministrativo per il periodo pregresso al 30 giugno 1998, e del giudice ordinario per il periodo successivo a tale data. (Cass. SS.UU.1323/2000).

Il riparto delle giurisdizioni nel caso di richiesta di risarcimento del pubblico dipendente per lesioni alla propria integrità fisica.

Ai fini del riparto della giurisdizione, nel caso di controversie che hanno per oggetto la richiesta di risarcimento del dipendente della pubblica amministrazione per i danni cagionati alla propria integrità fisica, è interessante ricordare il principio di diritto affermato ormai da una recente giurisprudenza, tutta a sezione unite. (Cass.24/12/2000 n. 42; Cass. 14/12/1999 n. 900; Cass. 25/5/1999).

Secondo la giurisprudenza il criterio da utilizzare ai fini della individuazione della giurisdizione deve far riferimento al petitum sostanziale: se la pretesa risarcitoria del pubblico dipendente si fonda sulla invocazione di una responsabilità contrattuale sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; se invece la pretesa risarcitoria si fonda su di una responsabilità extracontrattuale sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.

In quest’ultima ipotesi, infatti, la pretesa del dipendente non trae il suo titolo dal rapporto di pubblico impiego bensì dalla violazione di un diritto assoluto, il diritto alla vita e all’integrità fisica, rispetto al quale la tutela deriva dal principio del neminem leadere, principio che preesiste al pubblico impiego e che dà luogo ad una tutela del tutto autonoma.

La giurisprudenza ha altresì precisato che debbano essere qualificate come pretese extracontrattuali non soltanto quelle domande che espressamente invocano una responsabilità aquiliana, ma anche quelle in cui non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore della responsabilità contrattuale, come quando per esempio la richiesta risarcitoria del danneggiato faccia riferimento in generale alla lesione dell’integrità fisica, senza però dedurre espressamente la violazione dell’inosservanza di una specifica obbligazione contrattuale.

Peraltro, a parere della giurisprudenza, la prospettazione della sola inosservanza dell’art. 2087 c.c., non è di per sé sufficiente a giustificare la qualificazione dell’azione come contrattuale, potendo la stessa essere stata effettuata in funzione esclusiva della dimostrazione della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di lesioni colpose e della configurabilità dell’illecito come extracontrattuale.

Alla luce dei predetti insegnamenti, potrebbe pertanto essere disattesa la competenza del giudice amministrativo qualora, nell’atto del giudizio il ricorrente addebiti la responsabilità dell’ente in base ad una asserita violazione contrattuale che richiami genericamente e astrattamente l’inosservanza delle cautele idonee a prevenire incidenti senza però dedurre espressamente la violazione di una specifica obbligazione contrattuale.

Considerata la complessità dei temi trattati lo studio è a completa disposizione per ogni eventuale chiarimento.

GGM & PARTNERS

[1] La genesi storica di tale assetto risale al testo Unico Giolittiano 1908 n.639 che per la prima volta dettò una disciplina organica dello stato giuridico dei dipendenti dello stato e al d. leg. 1923/2840 che aggiunse la materia del pubblico impiego a quelle nelle quali il consiglio di Stato  e le giunte provinciali amministrative conoscevano anche di questioni relative ai diritti soggettivi.

[2] L’articolo indica le seguenti  materie: le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento di procedure amministrative; gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità dei medesimi, i principi fondamentali e l’organizzazione degli uffici; i procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro; i ruoli e le dotazioni organiche, la garanzia di libertà di insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca, la disciplina della responsabilità e della incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività.

[3] Art. 1 comma 2 d .lgs. n. 29/1993 “ Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province , i comuni, le comunità montane loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale.

[Febbraio 2002] - Uso distorto delle risorse sul web:lesione del diritto al marchio o condotta di concorrenza sleale

Segnaliamo l’ordinanza del 14 maggio 2001 con la quale il Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio, si è pronunciato su complesse tematiche, non solo di carattere giuridico ma anche di carattere tecnologico, che solo di recente hanno fatto la loro comparsa nelle aule giudiziarie italiane.

Nello specifico, il Giudice ha focalizzato la propria attenzione sul fenomeno confusorio che può derivare dall’inserimento di collegamenti ipertestuali ad altri siti in una pagina di un sito web e sulla responsabilità del provider, nel suo ruolo di gestore della Rete, per gli illeciti posti in essere nei siti cui per suo tramite si può accedere.

Per comprendere pienamente gli effetti che possono derivare dall’utilizzo illegittimo di tali collegamenti, è necessario passare brevemente in rassegna le pratiche, che sono divenute ormai comuni sulla Rete, finalizzate all’utilizzo delle risorse di Internet.

Il linking

Il link non è altro che la connessione che si crea tra il contenuto di due differenti files o due parti differenti dello stesso file. Un link può condurre direttamente ad un altro file presente all’interno del computer dello stesso sito web oppure ad un file presente in un diverso computer localizzato altrove in Internet. Facendo specifico riferimento alle problematiche derivanti dalla tutela del diritto d’autore, in ambito anglosassone si è rilevato che colui che predispone il link potrebbe non violare direttamente alcun diritto del titolare del sito “agganciato” in quanto non ne copia fisicamente il contenuto sul proprio sito. Si è comunque superato tale ostacolo sostenendo che colui che crea un link potrebbe essere giudicato responsabile a titolo di contraffazione indiretta. Tale ipotesi sussiste in tutti i casi in cui il titolare della pagina web che predispone il link sia a conoscenza che il sito collegato mediante il link stesso contiene materiale che viola il diritto d’autore di terzi, oppure quando avrebbe potuto ragionevolmente conoscere tale circostanza. La pratica del linking può suddividersi in surface o deep linking.

Si è in presenza di surface linking quando il link è predisposto per consentire il collegamento del sito di partenza alla home page del sito d’arrivo. La giurisprudenza e la dottrina straniera, così come parte della dottrina italiana, ritengono che la pratica del surface linking sia da considerarsi lecita in base alla teoria della licenza implicita o del fair use. A sostegno della liceità del surface linking si è giustamente sottolineato che esso è la ragione d’essere di Internet e rappresenta lo strumento indispensabile per accedere al mondo dell’informazione. Va comunque evidenziato che anche coloro che accettano la teoria della licenza implicita non mancano di rilevare che per la liceità del surface linking è sempre necessario che il collegamento al sito altrui venga indicato sul sito di partenza in modo corretto ed equilibrato al fine di evitare ogni rischio di confusione nel pubblico circa l’associazione tra le due entità e, soprattutto, in modo tale da non danneggiare gli interessi dell’entità “agganciata”.

Si ha deep linking, invece, quando il collegamento trasmette l’utente direttamente all’interno delle pagine del sito agganciato, omettendo il  passaggio dalla relativa home page. A differenza di quanto avviene per il surface linking, la pratica del deep linking può facilmente portare alla lesione dei diritti altrui. Anzitutto perché saltando la pagina iniziale del sito si evita la visione dei banner pubblicitari da parte del visitatore il cui accesso, inoltre, non viene conteggiato, con una sicura riduzione del valore commerciale del sito agganciato. Il sito da cui è originato il link, invece, trarrà vantaggi agli occhi degli utenti in quanto consentirà a questi ultimi di ottenere subito l’informazione richiesta, senza dover attendere il caricamento della pagina iniziale. Inoltre, il deep linking può impedire o comunque rendere più difficoltosa l’identificazione del proprietario del sito agganciato così da indurre i visitatori a ritenere che l’informazione sia offerta direttamente dal proprietario del sito da cui parte il collegamento.

Il framing

I frames sono utilizzati per suddividere in varie porzioni le pagine web in modo da consentire la visualizzazione di testi ed immagini differenti all’interno di sezioni della medesima pagina web. La particolarità tecnica di questo meccanismo consiste nel fatto che le varie cornici sono fra loro indipendenti per cui il cambiamento di una di esse non determina la contestuale modifica delle altre. Il framing costituisce una forma particolare di linking poiché anche in questa ipotesi si può venire a creare un collegamento fra due siti con la peculiarità, però, che la pagina agganciata verrà visualizzata all’interno di una cornice del sito di provenienza, in modo da formare agli occhi del visitatore un quadro unitario. In Italia si è giustamente rilevato che la potenzialità lesiva del framing è di molto superiore a quella del linking. In particolare, tale forma di agganciamento che impedisce una chiara identificazione del sito agganciato renderebbe illecito non solo il deep linking ma anche il surface linking.

Il metatagging

I comandi del linguaggio HTML consentono di inserire all’interno delle pagine web alcune informazioni, denominate meta-tag, che non sono immediatamente visualizzate dal programma browser del visitatore, rimanendo quindi nascoste ad un esame superficiale, ma che rivestono invece un ruolo fondamentale nell’ambito delle operazioni effettuate dai motori di ricerca. Infatti, al fine di catalogare le varie pagine in base al loro contenuto i motori di ricerca utilizzano particolari programmi che scandagliano Internet analizzando le sole pagine Html ed in particolare modo proprio le stringhe meta-tag in esse contenute. Attraverso i meta-tag, colui che crea un sito non solo è in grado di descrivere in sintesi il contenuto ed i servizi offerti, ma può inserire parole chiave che, se particolarmente efficaci, permettono di rendere più visibile il proprio sito nei risultati dei motori di ricerca. A volte però tali tecniche possono sconfinare nell’illecito quando, ad esempio, nei meta-tag vengano inseriti denominazioni, ragioni sociali e marchi di imprese altrui, oppure parole di uso comune che nulla hanno a che vedere con il contenuto del sito. Da un punto di vista prettamente giuridico, si ritiene che l’uso in mala fede dei meta-tag possa assumere rilievo sotto un duplice profilo, sia come contraffazione di marchio sia come concorrenza sleale. Quanto al primo profilo, è stato evidenziato che l’utilizzo del marchio altrui all’interno del meta-tag potrebbe deviare la clientela del concorrente verso il proprio sito. L’utilizzo distorto del meta-tag può inoltre portare a configurare un’ipotesi di comportamento anticoncorrenziale sia sotto il profilo dell’attività confusoria sia sotto il profilo dello sfruttamento della notorietà del concorrente.

Le tutele

Va anzitutto detto che è possibile tutelarsi contro il deep linking ed il framing mediante l’utilizzo di speciali accorgimenti tecnici. In primo luogo si potrebbe imporre a colui che intende visitare il sito di digitare una password di ingresso, anche se tale sistema mal si concilia con un sito che si rivolge alla generalità del pubblico. Si potrebbero poi adottare strumenti più raffinati quali, ad esempio, l’inserimento di particolari files all’interno della propria pagina web. Tali files hanno lo scopo di escludere ogni eventuale collegamento al proprio sito effettuato da altri siti, limitando tale esclusione solo verso alcuni siti concorrenti oppure riportando il visitatore “linkante” direttamente alla pagina iniziale del sito così da evitare ogni pericolo di confusione o di elusione della lettura dei messaggi pubblicitari. In ogni caso, è sempre opportuno inserire sul proprio sito, preferibilmente in precisa corrispondenza del link, apposite dichiarazioni finalizzate a consentire la piena individuazione del sito agganciato e ad evitare, o quanto meno ridurre, i rischi di confusione e di usi in qualche modo sleali dei link. Non vi è dubbio che il metodo più sicuro per evitare di essere soggetti ad azioni legali a causa di linking o di framing è quello di ottenere l’autorizzazione del titolare del sito che si vuole agganciare, mediante la stipulazione di appositi accordi. Questi accordi, che nel mondo anglosassone vengono definiti come “Web Linking Agreements”, hanno ad oggetto proprio la disciplina e le condizioni di utilizzo dei link tra i siti coinvolti. In ogni caso, nell’ipotesi in cui l’utilizzo di detti collegamenti ipertestuali avvenisse al solo fine di trarre un vantaggio ingiusto o per danneggiare l’attività del concorrente commerciale, potranno essere invocati gli strumenti di tutela previsti dagli artt. 2598 e ss. del Codice Civile.

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[Febbraio 2002] - Automatismi nella deducibilità di cessioni pro soluto

La Sezione tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza n.14568/2001, è tornata a pronunciarsi sulla dibattuta tematica della deducibilità della perdita conseguente ad una cessione pro soluto del credito.

In particolare la Corte di Cassazione, non ritenendo opportuno mutare l’orientamento già espresso con la sentenza n.13181/2000 in tema di deducibilità delle perdite su crediti, ha mantenuto fermo il principio in base al quale gli automatismi della deducibilità valgono solo nel caso in cui il debitore sia soggetto a procedure concorsuali e ha ribadito il principio secondo il quale detti automatismi siano da ritenersi legittimi a condizione che tali perdite risultino da elementi certi e precisi.

A nulla è valso il tentativo di parte ricorrente di portare l’attenzione della Corte su una precedente pronuncia (n.13916/2000) nella quale la stessa Corte, adottando un’interpretazione estensiva dell’art.66 del Tuir, avrebbe implicitamente ammesso la deducibilità della perdita per il solo fatto della cessione, senza attribuire rilevanza allo stato di solvibilità del debitore ceduto.

La norma che disciplina la tematica affrontata dalla Suprema Corte è quella contenuta nel terzo comma dell’art.66 del Tuir, secondo la quale “la perdita di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzabile di essi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali”.

L’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione della norma sopra indicata appare eccessivamente restrittiva se si considera che neppure da un’interpretazione letterale dell’art.66 del Tuir è possibile desumere che la presenza di tali “elementi certi e precisi” ricorra esclusivamente nell’ipotesi in cui l’inesigibilità dei crediti sia comprovata dall’avvenuto esperimento dei tentativi di riscossione e dal loro esito infruttuoso.

Alla luce dell’interpretazione sopra indicata, appare opportuno esaminare quali possano essere, ad avviso della Corte di Cassazione, gli ulteriori elementi “certi e precisi”, idonei a comprovare l’inesigibilità del credito.

La sentenza recita testualmente: “se il creditore resta inerte nella titolarità del suo credito, esiste un credito inattuato per volontà del creditore ma non esistono elementi certi per configurare una perdita fiscalmente rilevante… non potendosi accettare l’idea che si può parlare di perdita a fini fiscali nelle ipotesi in cui il creditore nulla abbia fatto, nelle forme previste dalla legge, per esercitare il suo diritto di credito, ed abbia nella sostanza tenuto un comportamento remissivo o liberale”.

La Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, sembra voler sanzionare il comportamento, definito dalla stessa Corte “remissivo o liberale”, di quelle società che optino per una cessione pro soluto del credito, senza avere precedentemente esperito alcun tentativo di recupero del credito stesso.

Il riconoscimento della deducibilità della perdita, secondo l’interpretazione proposta dalla Corte, parrebbe essere limitato alle sole ipotesi in cui l’inesigibilità del credito fosse inconfutabile ovvero quando, una volta esperiti tutti i tentativi di riscossione, il credito risultasse ancora insoddisfatto.

Da ciò è possibile desumere che, secondo l’orientamento della Suprema Corte, affinché una perdita originata da una cessione pro soluto dei crediti sia deducibile ai sensi dell’art.66 del Tuir, è necessario che vi sia una prova documentale dei tentativi (infruttuosi) esperiti dalla società cedente per ottenere il pagamento del credito successivamente ceduto.

Alla luce delle riflessioni sopra esposte riteniamo opportuno evidenziare alle società che volessero optare per una cessione pro soluto dei propri crediti che le perdite derivanti da dette cessioni non possono considerarsi deducibili ex se, ma è necessario provare lo stato di insolvibilità del debitore ceduto.

Al riguardo, potrebbe essere consigliabile rafforzare la posizione della società cedente il credito con attestazioni rese da “consulenti legali” dalle quali risultino in maniera oggettiva le difficoltà che potrebbero essere incontrate nell’escussione dei crediti una volta ottenuto il riconoscimento giudiziale degli stessi.

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[Febbraio 2002] - Riforma dei reati societari: lavori in corso

La riforma dei reati societari, dopo anni di dibattiti politico – giuridici e di lavoro da parte dei giuristi della commissione Mirone, è giunta, non senza polemiche, all’esame delle Commissioni Parlamentari, le quali dovranno rilasciare un parere sullo schema di decreto legislativo, contenente la “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’art.11 della legge 3 ottobre 2001, n.366”, approvato l’11 gennaio 2002 dal Consiglio dei Ministri.

E’ interessante, quindi, non solo esaminare, per grandi linee, le nuove norme previste dall’art.1 del suddetto decreto legislativo - che andranno a sostituire quelle attualmente in vigore nel codice civile al titolo XI, libro V, articoli 2621/2642 -, ma occorre soprattutto e in via preliminare evidenziare i caratteri generali di questa riforma confrontandoli con quelli che hanno retto fino ad ora il diritto penale societario.

In primo luogo, la riforma non va considerata limitatamente al falso in bilancio, in quanto questa fattispecie, pur avendo una preminenza assoluta nell’ambito del diritto penale societario ed un ruolo centrale nella repressione della criminalità economica, non può esaurirne la portata più ampia in tema sia di controllo penalistico dell’attività economica che di politica criminale.

In secondo luogo, la legge delega 366 del 2001, sebbene avesse dovuto riprendere il testo già elaborato dalla commissione Mirone in segno di continuità con l’attività di riforma  avviata dal precedente Governo, ha introdotto invece all’interno delle singole fattispecie incriminatrici elementi di modifica di tale rilevanza da comportare un distacco radicale dal progetto precedente.

Infatti, nei primi commenti di illustri giuristi si evidenzia come tra il progetto Mirone e la suddetta legge delega “le coincidenze divengono puramente formali, essendo radicalmente mutato lo spirito dell’intervento”. Secondo tali autori il progetto Mirone era solo un “avvio” di riforma certamente bisognoso di miglioramenti in molte parti e mirava ad una riscrittura dei reati societari che, non solo semplificasse le norme, riducesse l’eccesso di penalizzazione e colmasse antiche lacune di tutela, ma tenesse altresì conto della longevità, dell’inadeguatezza e della scarsissima efficienza del nostro diritto penale.

La mancanza di razionale equilibrio tra l’attuale sistema penale e lo schema di decreto legislativo in esame è il punto critico della riforma. Le nuove norme in materia societaria, pur ispirandosi a principi incontestabili come la determinazione e la tassatività della condotta criminale, comporteranno un restringimento dell’ambito di applicazione della sanzione penale in senso stretto a favore di quella contravvenzionale. Tuttavia questo ipotizzato restringimento non si realizzerà in modo omogeneo nei confronti di tutte le fattispecie penalmente rilevanti previste dal codice penale, ma solo nei confronti di quelle societarie. Ciò potrà determinare evidenti squilibri tra fattispecie criminose disciplinate dal codice penale e fattispecie disciplinate invece da legislazione speciale.

Se da un lato, allora, si può porre l’accento su questa incoerenza, dall’altro si deve anche dire che queste scelte normative, contenute nello schema del decreto legislativo in esame, sono dettate da una già avviata “armonizzazione europea ”, che prevede in materia societaria un aumento delle ipotesi contravvenzionali. In Italia una prima attuazione di detta “armonizzazione ” si è avuta  nella cosiddetta “legge Draghi” del 1998, in cui le false comunicazioni alla Consob sono previste come ipotesi contravvenzionali.

Per questo lo schema di decreto legislativo non deve essere ritenuto né un esperimento isolato né una creazione dell’attuale legislatore, ma deve servire da stimolo per una successiva fase di riforma del nostro sistema penale in modo che questo si caratterizzi per uniformità di disciplina e un elevato grado di efficienza.

Fatte queste premesse generali, passiamo ad analizzare le novità contenute nelle singole fattispecie di reato e le problematiche connesse.

Primi fra tutti vanno considerati gli articoli “sulle falsità” (2621-2625 c.c.). Questi stanno suscitando le maggiori perplessità e critiche, data la sostanziale metamorfosi a cui è sottoposto l’illecito base “delle false comunicazioni sociali”. Infatti, i nuovi articoli prevedono che il neo reato di “falso in bilancio” sia sussistente e sanzionabile “con l’arresto fino a un anno e sei mesi” solo quando:

“gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, con l’intenzione di ingannare i soci e il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri ingiusto profitto (dolo specifico), nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorchè oggetto di valutazioni, ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo a indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione (pericolo concreto)” (art.2621, 1°comma, c.c.).

Per completezza, si deve aggiungere che, oltre agli elementi del pericolo concreto e del dolo specifico presenti nella condotta criminosa prima descritta, sono richiesti per la punibilità sia che “le falsità e le omissioni alterino in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene o comunque determinino una variazione del risultato economico, al lordo delle imposte superiore al 5% ”, sia che “le valutazioni estimative, singolarmente considerate, differiscano in misura superiore al 10% rispetto a quella corretta ” (3°- 4°comma, art.2621 c.c.).

E’ questa la struttura portante del nuovo reato di falso in bilancio che si riscontra anche nel “falso in prospetto” (art.2623 c.c.) e nel caso di “falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione”  (art.2624 c.c.), comportando un definitivo abbandono dell’impostazione “plurioffensiva ”. Tale impostazione, ritenendo invece sussistente il reato di falso in bilancio ogniqualvolta l’esposizione o l’omissione di fatti non rispondenti al vero risultava idonea a ledere o a porre in pericolo una pluralità di interessi di portata diversa (interessi patrimoniali della società, dei soci, dei creditori, la fede pubblica, il corretto funzionamento della società commerciale e  così via), poteva essere di difficile accertamento e causa anche di veri e propri arbitri.

Il legislatore, dunque, ha preferito, come abbiamo accennato, non solo determinare con più precisione il bene giuridico oggetto di tutela – non più un interesse pubblico, ma interessi privatistici degli azionisti, dei creditori, dei destinatari del prospetto o delle comunicazioni rilasciati dalle società di revisione – ed elevare la soglia di punibilità, ma anche prevedere una variante più grave dell’illecito base. Questa si realizza nel caso in cui “le false comunicazioni o l’omissione di esse cagionino un danno patrimoniale ai soci o ai creditori” (art.2622 c.c.). In quest’ultimo caso, però, la fattispecie “delittuosa” si sdoppia a seconda che l’illecito venga commesso in “società quotate o non”.

Nel primo caso, allora, le pene saranno più severe, “reclusione da uno a quattro anni e procedibilità d’ufficio” (3°comma, art.2622 c.c.). Nel secondo caso, invece, “la reclusione potrà andare da sei mesi a tre anni e servirà sempre la presentazione della querela della parte lesa” (ult. part.1°comma, art.2622 c.c.).

E’ immediatamente evidente come nell’articolo 2622 c.c. siano contenute le novità di maggior rilievo ma anche di maggior perplessità. Infatti, la fattispecie subisce una brusca deviazione dall’art.2621 all’art.2622, in quanto il primo articolo la qualifica come vera e propria contravvenzione e si rivolge a destinatari indeterminati (soci e pubblico), mentre il secondo, spostando l’attenzione sulla lesione del patrimonio del singolo, la ritiene un delitto a tutti gli effetti e ribadisce che il bene protetto è pienamente disponibile da parte del soggetto leso, il quale può decidere di ricomporre il conflitto in ambito negoziale attraverso la querela.

Non si riescono poi a comprendere le ragioni vere per cui  le società non quotate debbano avere uno statuto penalistico privilegiato rispetto a quello delle società quotate, per le quali è prevista la procedibilità d’ufficio. Si può solo presumere che il reato di falso in bilancio nelle società non quotate sia stata considerata meno grave  rispetto a quello commesso in società quotate.

Dal punto di vista edittale, la scelta di contenere in questi casi di danno patrimoniale la sanzione della reclusione nel tetto massimo di quattro anni non rappresenta un vero e proprio “depotenziamento” del falso in bilancio, ma costituisce una comprensibile risposta sanzionatoria adeguata al disvalore del fatto. Al riguardo non deve essere dimenticato che per il reato di truffa (art.640 c.p.), altra ipotesi di danno patrimoniale, è prevista la pena detentiva da sei mesi a tre anni e la procedibilità a querela. Il vero problema legato alla riduzione della sanzione, dunque, non parrebbe essere  principalmente di carattere tecnico, ma pratico, dato che la riduzione della sanzione rispetto a quella originariamente prevista andrà ad incidere sulle prescrizioni…

Conclude il capo primo l’art.2625 che, in tema di “impedito controllo”, prevede nei confronti degli amministratori che occultano documenti, al fine di impedire o comunque ostacolare lo svolgimento delle attività di controllo o di revisione, una sanzione amministrativa pecuniaria e nel caso di danno patrimoniale ai soci la reclusione fino a un anno con procedibilità a querela di parte (2°comma).

Le regole esaminate fino a questo punto trovano applicazione anche negli altri articoli del decreto legislativo. Per cui si può osservare come nelle norme del capo secondo, riguardanti “gli illeciti commessi dagli amministratori”, sia prevista l’applicazione o della reclusione fino a un anno per il caso di “indebita restituzione dei conferimenti” (art.2626 c.c.) e per quello di “illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o su quelle della società controllante”(art.2628 c.c.), o la sanzione amministrativa dell’arresto fino a un anno per “l’illegale ripartizione degli utili e delle riserve”(art.2627 c.c.).

La configurazione privatistica si deve notare anche in questi reati, in quanto nel 2°comma dell’art.2627 e nel 3°comma dell’art.2628 sono previste delle cause di estinzione di natura negoziale, come la restituzione degli utili e la ricostituzione del capitale sociale o delle riserve che, effettuate prima del termine previsto per l’approvazione del bilancio, estinguono la fattispecie criminale.

In questo capo, l’unico riferimento al danno patrimoniale e alla querela di parte si trova nell’art.2629, il quale sancisce “la reclusione da sei mesi a tre anni per gli amministratori che, in violazione delle disposizioni di legge a tutela dei creditori, effettuano riduzione del capitale sociale o fusioni o scissioni cagionando danno ai creditori. Il risarcimento del danno prima del giudizio estingue il reato”.

Nel capo terzo, dedicato agli “illeciti commessi mediante omissione”, l’unica sanzione prevista è quella amministrativa pecuniaria. Si riscontra ciò sia nel caso di “omessa esecuzione di denunce, comunicazioni o depositi” da parte di chiunque vi sia tenuto per legge a causa delle funzioni rivestite in una società o in un consorzio (art.2630 c.c.), sia nel caso di “omessa convocazione dell’assemblea dei soci” da parte degli amministratori e dei sindaci (art.2631 c.c.).

Nel capo quarto, assumono una certa rilevanza, visto l’esordio assoluto in tale materia, i reati di “infedeltà patrimoniale” (art.2634 c.c.) e di “infedeltà a seguito di dazione o promesse di utilità ” (art.2635 c.c.). L’art.2634 commina in capo agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci, ai liquidatori e ai responsabili della revisione la sanzione della reclusione (da sei mesi a tre anni), qualora questi, “avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali cagionando alla società un danno patrimoniale”.

L’art.2635 prevede ancora che in capo ai suddetti soggetti si applichi la sanzione della reclusione (fino a tre anni), qualora, a seguito “della dazione o della promessa di utilità ”, questi “compiono o omettono atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società”. Per entrambe le fattispecie è richiesto che venga esercitata la querela, per conto della società, da parte di un curatore speciale, previa delibera assembleare.

I restanti articoli non fanno altro che descrivere diversi tipi di illecito societario punibili con la sola reclusione. E’ questo il caso della “formazione fittizia del capitale” (art.2632 c.c.), della “indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori”, per la quale si richiede anche la querela della persona offesa (art.2633 c.c.), della “illecita influenza sull’assemblea” (art.2636 c.c.), dell’ “aggiotaggio” (art.2637) e dell’ “ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ”(art.2638 c.c.).

Per concludere, è interessante segnalare sia la previsione di una “circostanza attenuante” nel caso in cui i fatti previsti come reato negli articoli precedenti abbiano cagionato un’offesa di particolare tenuità da comportare la diminuzione della pena (art.2640 c.c.), sia quella della “confisca” del prodotto o del profitto di reato applicabile ad ogni fattispecie descritta (art.2641).

Queste sono, seppur in sintesi, le prime considerazioni sullo schema del decreto legislativo su cui le commissioni parlamentari dovranno esprimere il loro parere.

Il tema, per sua importanza e complessità, richiederà ulteriori riflessioni non appena il provvedimento verrà approvato nel suo testo definitivo.

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