[Novembre 2003] - La somministrazione di lavoro nel decreto legislativo n. 276/2003

Il decreto legislativo attuativo dei primi cinque articoli della legge 30/2003 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed è entrato in vigore venerdì 24 ottobre. Da tale data si è aperta, come illustreremo nella parte conclusiva della presente circolare, una complessa fase di transizione (art. 86) che porterà, solo gradualmente e con il concorso di molteplici attori (Governo, Regioni e parti sociali), al nuovo assetto tratteggiato dalla riforma del mercato del lavoro.

In questa sede verranno proposti alcuni brevi spunti relativi all’istituto della  somministrazione di lavoro. Il capo I del titolo III dell’articolato governativo è, infatti,  interamente dedicato a tale ipotesi contrattuale, la quale, a seguito dell’abrogazione della legge 1369/60 che ne sanciva l’illiceità penale, da reato diventa un contratto tipico, ovvero un contratto con requisiti specificamente disciplinati dalla legge.

Tale disciplina porta a compimento un processo evolutivo iniziato con la legge 196/1997 sul lavoro interinale, la quale, seppur in termini di mera deroga al regime vincolistico della legge 1369/1960 che vietava ogni forma di somministrazione di lavoro altrui, introduceva nel nostro ordinamento l’istituto del lavoro interinale quale unica ipotesi di fornitura di lavoro temporaneo.

Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 276/03, che, da un lato abroga gli articoli da 1 a 11 della legge 196/1997 ma, dall’altro, ne conferma principi e modelli giuridici, si realizza una figura unitaria di esternalizzazione di lavoro, la cui disciplina è interamente contenuta nel provvedimento in esame.

Da ciò derivano le numerose analogie con la fattispecie del lavoro interinale, istituto del quale ci siamo occupati in una precedente circolare pubblicata il mese di maggio, alla quale si rinvia.

Con la nuova disciplina viene, dunque, superato lo sfavore dell’ordinamento verso ogni forma di esternalizzazione del lavoro e decentramento produttivo. Tuttavia, non si tratta di una totale liberalizzazione della materia, dal momento che, come vedremo, la somministrazione di lavoro sarà possibile solo in presenza di determinate condizioni oggettive, definite dalla legge stessa o dalla contrattazione collettiva, e solo se resa da agenzie per il lavoro a ciò appositamente autorizzate.

L’articolo 20 delinea del nuovo istituto, disponendo, in primo luogo, che tale contratto “può essere concluso da ogni soggetto, di seguito denominato utilizzatore, che si rivolga ad altro soggetto, di seguito denominato somministratore, a ciò autorizzato ai sensi degli articolo 4 e 5”. (comma 1)

Il primo requisito richiesto è, dunque, l’autorizzazione in capo ai soggetti che svolgono attività di somministrazione prevista ai dall’art. 4 del presente decreto. Tali soggetti consisteranno in agenzie di lavoro e  potranno essere abilitate a svolgere non soltanto attività di somministrazione di lavoro a termine e a tempo indeterminato, ma anche attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, di ricerca e selezione del personale, nonché di supporto nella ricollocazione di lavoratori usciti dal circuito produttivo.

Tali soggetti dovranno, però, ricevere una autorizzazione dal Ministero del Lavoro ed essere regolarmente iscritti in un apposito albo che sarà istituito presso il Ministero stesso. Tale albo sarà diviso in 5 sezioni, ciascuna corrispondente a una delle diverse attività sopra riportate, con requisiti giuridici e finanziari differenziati, elencati in dettaglio dall’articolo 5. Inoltre, le Agenzie dovranno essere accreditate presso le Regioni nel cui ambito territoriale intendono operare.

Entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto, ovvero entro il 23 novembre, il Ministero dovrà predisporre alcuni dei provvedimenti necessari all’applicazione di determinati punti della riforma. È il caso, per esempio, delle modalità di presentazione della richiesta di autorizzazione e delle modalità di funzionamento dell’albo per le agenzie di lavoro. È tuttavia prevista una disciplina transitoria che verrà illustrata nella parte conclusiva della circolare.

Il secondo comma dell’articolo 20 dispone che “per tutta la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore”.

Si verifica, dunque, come per la fattispecie contrattuale del lavoro interinale, una scissione tra titolarità giuridica del rapporto di lavoro ed effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa. I lavoratori vengono, infatti, assunti dal soggetto somministratore, ma prestano la propria attività presso l’impresa utilizzatrice, estranea al rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra il lavoratore stesso e l’agenzia di lavoro.

Nell’ambito di tale distinzione, infatti, il somministratore, pur essendo il reale datore di lavoro, è privo di potere gestionale nei confronti del lavoratore. I poteri di direzione e controllo dell’attività lavorativa subordinata sono, durante la durata del contratto, per intuibili ragioni organizzative, trasferiti dal datore di lavoro reale al soggetto che, di fatto, utilizza la prestazione lavorativa.

Questa scissione viene, invece, superata in tema di potere disciplinare, la cui titolarità giuridica, essendo riservata al somministratore, torna in capo al reale datore di lavoro. La normativa stabilisce, infatti, che “ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, che è riservato al somministratore, l’utilizzatore comunica al somministratore gli elementi che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300” (art. 23, comma 7)).

Per quanto riguarda il profilo giuridico dell’istituto, il principale elemento di novità della disciplina in esame attiene alla legittimazione di forme di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (cosiddetto staff leasing), utilizzabile in specifici settori elencati dal terzo comma dell’articolo 20. Il lungo elenco comprende attività eterogenee, talvolta dai confini non facilmente determinabili, quali sevizi di consulenza e assistenza nel settore informatico; servizi di pulizia, custodia e portineria; gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi e magazzini; consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse, gestione, ricerca e selezione del personale; attività di marketing, gestione di call-center; particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia e alla cantieristica navale.

Accanto alla tipizzazione ex lege, il decreto assegna alla contrattazione collettiva, nazionale o territoriale, il compito di individuare ulteriori ipotesi di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (art. 20, comma 3, lett. i). In questo modo, si affida alle parti sociali la possibilità di individuare nuove ipotesi di liceità dell’istituto.

Nel contratto a tempo indeterminato, in capo al somministratore, datore di lavoro reale, ricade l’obbligo di corrispondere al lavoratore un’indennità mensile di disponibilità per i periodi nei quali il lavoratore rimane in attesa di assegnazione. La misura di tale indennità, che deve essere indicata nel contratto, è stabilita “dal contratto collettivo applicabile al somministratore e comunque non è inferiore alla misura prevista, ovvero aggiornata periodicamente, con decreto del ministro del Lavoro e delle politiche sociali” (art. 23, comma 3).

Per quanto riguarda il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato (che era l’unica ipotesi ammessa dalla legge 196/1997), in luogo della tipizzazione legale adoperata nell’ipotesi di contratto a tempo indeterminato, il decreto introduce una clausola generale. L’ammissibilità della somministrazione a termine è, infatti, tassativamente subordinata all’esistenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, ma, e la differenza rispetto alla disciplina precedente è importante, “anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore” (art. 20, comma 4).

La norma prosegue, come nel caso di contratto a tempo indeterminato, con un rinvio alla contrattazione collettiva, in base al quale “l’individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi”. Viene meno, quindi, la necessità del requisito della temporaneità e straordinarietà dell’esigenza dell’utilizzatore, che caratterizzava il lavoro interinale (a tempo detrminato).

Pur in un contesto, come abbiamo illustrato, volto a sostenere l’esternalizzazione della forza lavoro, una delle principali preoccupazioni del Legislatore è stata quella di fornire un’adeguata tutela al prestatore di lavoro “somministrato”.

In questo contesto, il punto cardine dell’intera disciplina è rappresentato dall’applicazione del principio di parità di trattamento. I lavoratori dipendenti dal somministratore hanno, infatti, diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, ovviamente a parità di mansioni svolte (art. 23, comma 1).

Anche per quel che riguarda la regolamentazione dei rapporti tra somministratore ed utilizzatore, sono confermati i principi e le scelte operate dalla disciplina della fornitura di lavoro temporaneo, ex articoli da 1 a 11 della legge 196/1997.

In particolare, e a titolo esemplificativo, viene confermato, in primo luogo, il regime di solidarietà tra utilizzatore e somministratore in relazione ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali (art. 23, comma 3). Il Legislatore pone, infatti, in capo alle due parti del contratto di somministrazione obblighi in proprio e/o solidali in ordine ai profili retributivi, e previdenziali connessi alle prestazioni rese dai lavoratori somministrati.

Più dettagliatamente, il somministratore ha sia l’obbligo di corrispondere direttamente al lavoratore il trattamento economico spettante a quest’ultimo, sia quello di provvedere in via diretta al versamento dei relativi contributi previdenziali (art. 21, comma 1, lett. h)

In caso di inadempimento del somministratore, tale obbligo ricade sull’utilizzatore,  fatto comunque salvo il diritto di rivalsa nei confronti del soggetto inadempiente (art. 21, comma 1, lett. k). Sull’utilizzatore ricade, comunque, sia l’obbligo di comunicare al somministratore i trattamenti retributivi da applicare ai lavoratori somministrati presso di sé (art. 21, comma 1, lett. j), sia quello di rimborsare a quest’ultimo tutti gli oneri retributivi e previdenziali effettivamente sostenuti (art. 21, comma 1, lett. i).

Le conseguenze in caso di impiego in mansioni superiori o comunque non equivalenti a quelle dedotte in contratto da parte dell’utilizzatore sono disciplinate dal comma 6 dell’articolo 23. Nel caso in cui il lavoratore venga adibito a mansioni superiori o comunque diverse da quelle dedotte in contratto, l’utilizzatore deve darne comunicazione scritta sia al lavoratore che al somministratore. Ove tale obbligo di informazione non venga adempiuto, l’utilizzatore risponde in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori, nonché per l’eventuale risarcimento del danno spettante al lavoratore occupato in mansioni inferiori.

Il quinto comma dell’articolo 23 prevede un ulteriore obbligo in capo al somministratore: spetta a quest’ultimo, infatti, informare “i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale” nonché formarli ed addestrarli “all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale essi vengono assunti”. Il contratto di somministrazione può, però, prevedere che tale obbligo sia adempiuto dall’utilizzatore, purché ne venga data menzione nel contratto con il lavoratore.

A rigor di logica è, quindi, prevedibile un ampio uso di tale facoltà, posto che, in realtà, è l’utilizzatore a d essere compiutamente informato sui rischi connessi all’attività che verrà svolta dal lavoratore, nonché sull’uso delle attrezzature messe a disposizione dello stesso.

In continuità con il quadro normativo previgente, il prestatore di lavoro non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto, fatta eccezione per quelle relative alla materia dell’igiene e della sicurezza sul luogo di lavoro (art. 22, comma 5).

Sempre nell’ambito dell’apparato di tutela previsto per il lavoratore, un diverso ordine di regole attiene alla predeterminazione legale del regolamento negoziale. Il Legislatore,  nell’ottica di una rivalutazione dell’importanza del formalismo giuridico, ha optato per un sistema estremamente rigoroso e severo.

In base all’articolo 21, infatti, il contratto di somministrazione dovrà essere stipulato in forma scritta, e dovrà contenere quegli elementi indicati dal suddetto articolo a pena di nullità (comma 1, lettere dalla a alla e). Di conseguenza, nel contratto andranno necessariamente indicati: 1) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata dal Ministero al somministratore; 2) il numero dei lavoratori da somministrare; 3) le ipotesi previste dall’art. 20, comma 3 per l’ammissibilità della somministrazione a tempo indeterminato, ovvero le ragioni previste dal comma 4 dello stesso articolo per l’ammissibilità di quella a termine; 4) la presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e le misure di prevenzione adottate; 5) la data di inizio e la durata prevista per la prestazione lavorativa.

La mancanza di forma scritta del contratto, ovvero l’omessa indicazione nel contratto stesso di anche uno solo dei suddetti elementi, comporterà la nullità del contratto di somministrazione, con la conseguenza che i lavoratori saranno considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore fin dall’inizio del rapporto (art. 21, comma 4).

Una particolare attenzione sarà, quindi, necessaria all’atto del perfezionamento del contratto di somministrazione, in quanto l’eventuale nullità comporterebbe l’instaurarsi di diritto di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore, il quale, come vedremo, deve essere messo a conoscenza del contenuto del contratto di somministrazione.

Per quanto riguarda il profilo strettamente contenutistico, ossia le condizioni di liceità della somministrazione, il Legislatore delegato ha disciplinato tre diverse ipotesi di inammissibilità dell’istituto: somministrazione irregolare (art. 27), somministrazione illecita (art. 18, commi 1 e 2) e somministrazione fraudolenta (art.28).

La somministrazione irregolare, che secondo un ordine di gravità della risposta sanzionatoria, costituisce l’ipotesi minima di illegalità, si verifica allorquando la somministrazione avvenga “al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 20 e 21, lett. a), b), c), d) ed e)” (art. 27, comma 1).

Per quanto riguarda l’articolo 21, si rimanda a quanto appena illustrato. L’articolo 20, invece, nel delineare il profilo giuridico dell’istituto, ne enuncia le condizioni di liceità. Oltre all’autorizzazione ministeriale in capo al soggetto somministratore (comma 1), sono indicati sia i settori specifici nei quali è ammessa la somministrazione a tempo indeterminato (comma 3), sia le ragioni per le quali è ammessa quella a termine (comma 4), sia le ipotesi nelle quali l’istituto è vietato (comma 5).

Le ipotesi di somministrazione vietata sono quattro, due delle quali (sostituzione di lavoratori in sciopero e presso imprese che non hanno effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. n. 626/94) costituiscono divieti assoluti. Le altre due ipotesi  costituiscono, invece, divieti relativi (presso unità produttive interessate negli ultimi 6 mesi da procedure di licenziamento collettivo per i lavoratori adibiti alle mansioni alle quali si riferisce il contratto di somministrazione, e presso unità produttive in cui operi una sospensione dei rapporti di lavoro o una riduzione dell’orario lavorativo con diritto all’integrazione salariale). In questi due casi la norma prevede, infatti, un’eventuale ammissibilità, affermando che il divieto opera “salva diversa disposizione degli accordi sindacali” (art. 20, comma 5, lett. b).

Laddove, dunque, il contratto di somministrazione venga concluso “al di fuori dei limiti e delle condizioni” appena illustrati, si configurerà l’ipotesi di somministrazione irregolare.

Le conseguenze di tale illiceità sono di due diversi tipi. Un primo tipo opera su un piano sanzionatorio: in base all’articolo 18, comma 3, sia il somministratore, sia l’utilizzatore, saranno soggetti alla sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1.250 euro. La stessa sanzione è prevista per il solo somministratore ove questi non comunichi per iscritto al lavoratore, all’atto della stipulazione del contratto ovvero del suo invio presso l’utilizzatore, le informazioni contenute nel contratto stesso, nonché la data di inizio e la durata dell’attività lavorativa presso l’utilizzatore.

Certamente più rivelante è l’altro tipo di conseguenza, che opera, invece, sul piano giuslavoristico. Ai sensi dell’articolo 27, comma 1, infatti, nei casi di somministrazione irregolare “il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 c.p.c., notificato anche soltanto al soggetto che ne  ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione”.

È inoltre previsto che, in questo caso, per quanto riguarda i contributi e la retribuzione dovuti, i pagamenti già effettuati dal somministratore valgono a liberare l’utilizzatore fino alla concorrenza delle somme versate. Inoltre, gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto si intendono compiuti dall’utilizzatore (art. 27, comma 2).

La norma precisa che “ai fini della valutazione delle ragioni di cui all’articolo 20, commi 3 e 4, che consentono la somministrazione di lavoro (si tratta dei settori in cui è ammessa la somministrazione a tempo indeterminato e delle ragioni per le quali è ammessa quella a termine), il controllo giudiziale è limitato esclusivamente all’accertamento della esistenza delle ragioni che la giustificano” (art. 27, comma 3).

Si deve tuttavia osservare che tale ultima previsione può avere un senso in relazione al richiamo del comma 4 dell’art.20 (ragioni che consentono la somministrazione a termine) mentre più oscuro risulta, invece, il richiamo al comma 3 dello stesso articolo (settori di ammissibilità della somministrazione a tempo indeterminato), posto che, ove la somministrazione riguardi un settore non previsto ex lege e/o dalla futura contrattazione, non si possono ravvisare “ragioni che giustifichino” detto comportamento.

La somministrazione illecita costituisce un’ipotesi di reato e vi verifica nei casi in cui il contratto sia concluso in assenza dell’autorizzazione rilasciata dal Ministero al somministratore. La pena prevista, a carico sia del somministratore che dell’utilizzatore, consiste nell’ammenda di 5 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata lavorativa. Di conseguenza, l’utilizzatore avrà il potere di verificare l’esistenza di tale autorizzazione in capo al somministratore (art. 18, commi 1 e 2).

È previsto, poi, l’incremento della sanzione nei casi di sfruttamento di minori, allorché impiegati in una somministrazione non autorizzata siano minori non occupabili, ovvero che non hanno compiuto il quindicesimo anno di età o che comunque sono ancora soggetti all’obbligo scolastico. In questo caso la pena prevista sia per il somministratore che per l’utilizzatore, consiste nell’arresto fino a 18 mesi e nell’ammenda di base aumentata fino al sestuplo.

Essendo l’autorizzazione rilasciata dal Ministero al somministratore una condizione di ammissibilità dell’istituto, anche in caso di somministrazione illecita il lavoratore può chiedere in giudizio la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore.

L’articolo 28 disciplina invece le ipotesi di somministrazione fraudolenta, ovvero effettuata “con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo”. In questo caso l’ammenda (prevista per entrambe le parti del contratto) è elevata a 20 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata lavorativa. Anche in caso di somministrazione fraudolenta, laddove il contratto non rispetti condizioni e limiti di cui agli articoli 20 e 21 lettere a), b), c), d) ed e), il lavoratore potrà chiedere in giudizio la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore.

Al fine di evitare possibili speculazioni ai danni dei lavoratori, l’art. 18, comma 4 prevede per chi esiga o comunque percepisca compensi da parte del lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro oggetto di somministrazione la pena alternativa dell’arresto non superiore ad un anno o dell’ammenda da 2.500 a 6.000 euro. In questo caso, nell’ipotesi in cui il soggetto che compie l’illecito sia il somministratore, è prevista anche la cancellazione dall’albo.

Come anticipato in apertura, con l’entrata in vigore del decreto si apre una delicata fase di transizione e di raccordo tra vecchia e nuova disciplina. Per quel che riguarda l’istituto della somministrazione, in attesa dei nuovi regimi di autorizzazione e di accreditamento da definirsi in sede regolamentare, resterà applicabile la disciplina vigente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

La nuova ipotesi contrattuale della somministrazione a tempo indeterminato, in particolare, potrà operare sul piano pratico solo una volta definiti i percorsi di autorizzazione, dal momento che le agenzie già autorizzate ai sensi della precedente disciplina (legge 196/1997) sono abilitate a svolgere attività di mera fornitura di lavoro a termine e  solo per esigenze temporanee dell’impresa utilizzatrice.

Anche il quadro normativo della somministrazione a termine è, tuttavia, complicato dal fatto che le clausole dei contratti collettivi nazionali stipulati ai sensi della predetta legge e vigenti alla data di entrata in vigore del decreto  “mantengono, in via transitoria, e salve diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza /…/ con esclusivo riferimento alla determinazione per via contrattuale delle esigenze di carattere temporaneo che consentono la somministrazione di lavoro a termine” (art. 86, comma 3).

Questo non impedirà l’operatività della somministrazione di lavoro a termine così come regolata dal decreto 276/2003 anche in parallelo alle vigenti clausole contrattuali, ma ciò sarà possibile soltanto a partire dal momento in cui le agenzie di somministrazione saranno pienamente abilitate a operare ai sensi degli articoli 4 e 5. Nell’attesa, infatti, continueranno ad applicarsi le clausole degli attuali contratti collettivi, le quali subordinano l’ammissibilità della somministrazione a termine alla sussistenza di situazioni temporanee con carattere di eccezionalità e straordinarietà.

Di fatto, dunque, per effetto di una scelta certamente discutibile, la somministrazione a tempo determinato così come innovativamente delineata dal nuovo decreto parrebbe essere vincolata dalla prossima (si spera!) definizione del sistema autorizzatorio, con tutte le incertezze ad esso conseguenti.

La consapevolezza delle difficoltà che la transizione al nuovo regime comporterà ha, inoltre, indotto il Legislatore a predisporre un impianto normativo volto a realizzare una prima fase sperimentale della riforma. L’intero titolo III, e quindi anche tutte le disposizioni che abbiamo illustrato, ha, infatti, carattere sperimentale. L’articolo 86 stabilisce che “decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore (del presente decreto) il ministro del Lavoro e delle politiche sociali procede, sulla base delle informazioni raccolte /…/, a una verifica con le organizzazioni sindacali /…/ degli effetti delle disposizioni in esso contenute e ne riferisce al Parlamento entro tre mesi ai fini della valutazione della sua ulteriore vigenza” (art. 86, comma 12).

Di notevole importanza è, poi, la previsione di cui al comma successivo, che ipotizza un accompagnamento guidato della riforma mediante l’intervento delle parti sociali. Entro il 29 ottobre, infatti, il ministro del Lavoro dovrà convocare le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale al fine di verificare la possibilità di affidare a uno o a più accordi interconfederali la gestione della messa a regime del regime transitorio del presente decreto e dei rinvii in esso contenuti alla contrattazione collettiva (art. 86, comma 13).

Per quanto concerne il settore del pubblico impiego, con l’entrata in vigore del presente decreto le pubbliche amministrazioni potranno applicare le nuove disposizioni solo per quel che riguarda la somministrazione a tempo determinato. Infatti, a fronte dell’abrogazione degli articoli da 1 a 11 della legge 196/97 disposta dall’articolo 85, il successivo articolo 86, comma 9 stabilisce la possibilità la P.A. di applicare le norme relative alla somministrazione di lavoro a termine, e non anche quelle sul contratto a tempo indeterminato.

La stessa disposizione precisa, inoltre, che in caso di somministrazione illecita il lavoratore non potrà, a differenza che nel privato, chiedere la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Anche per il settore del pubblico impiego vale, poi, la norma transitoria contenuta nel terzo comma dell’articolo 86. Questo significa che nell’attesa della messa a regime dell’istituto della autorizzazione, come per il settore privato, continueranno ad applicarsi le clausole contenute negli attuali contratti collettivi, i quali subordinano l’ammissibilità della somministrazione a termine alla sussistenza di situazioni temporanee con carattere di eccezionalità e straordinarietà.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners.

La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Settembre 2003] - Decreto attuativo della legge delaga in materia di occupazione e mercato del lavoro

SCOMPARSA DEL CONTRATTO DI COLLABORAZIONE

COORDINATA E CONTINUATIVA ED

ESORDIO DEL LAVORO A PROGETTO:

TAPPE APPLICATIVE DELLA RIFORMA E QUESTIONI INTERPRETATIVE.

Il Consiglio dei Ministri, in data 30 luglio 2003, ha varato in via definitiva il decreto legislativo con il quale si da attuazione agli articoli da 1 a 5 della legge delega 30/2003 emanata dal Parlamento per la riforma del mercato del lavoro.

La fase di prima applicazione della normativa dettata dalla legge 30/2003 avrà carattere sperimentale, dal momento che la stessa legge delega concede al Governo un ulteriore periodo di due anni per intervenire sulle materie oggetto di riforma con i decreti correttivi che, alla luce delle valutazioni operate in corso d’opera, riterrà opportuni.

L’entrata in vigore del decreto attuativo oggetto della presente circolare (che avverrà dopo 15 giorni dalla pubblicazione del provvedimento sulla Gazzetta Ufficiale) era prevista per i primi di settembre.  Ad oggi il provvedimento non è ancora stato pubblicato, ma gli “addetti ai lavori” ritengono che ciò avverrà, al più tardi, entro i primi giorni di ottobre.

Dopo aver brevemente illustrato le linee guida e gli aspetti a nostro avviso più significativi della legge delega in tre precedenti circolari pubblicate sui siti “giemmelex.it” e “onlinelex.com”, ci occuperemo delle disposizioni applicative dei primi cinque articoli della stessa dettate al riguardo dal Governo.

L’importanza e la complessità delle innovazioni cui il decreto legislativo da attuazione rende opportuna una trattazione separata degli istituti previsti dal testo governativo. In questa prima circolare verranno dunque proposti alcuni brevi spunti relativi ai rapporti di collaborazione, che da coordinati e continuativi diventano “a progetto”, mentre le ulteriori novità contenute nel provvedimento in esame saranno trattate nelle prossime circolari.

Come abbiamo avuto modo di sottolineare nella circolare n. 50, per quanto riguarda il settore dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la legge delega, contrariamente alla sua ispirazione originaria orientata  verso l’introduzione di maggiore flessibilità, ha disciplinato l’ingresso di una serie di obblighi e procedure nuovi, in direzione di una minore flessibilità a fronte di maggiori tutele. Più specificamente, gli elementi dettati dal legislatore in proposito consistono, in primo luogo, nel requisito formale dell’atto scritto tra le parti, il quale deve necessariamente contenere la durata determinata, o comunque determinabile, del rapporto di collaborazione; la necessaria indicazione dell’oggetto del contratto, riconducibile a uno o più progetti; nonché l’indicazione del corrispettivo, che deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro (L. 30/2003, art. 4, comma 1, lett. c, n. 1).

Vediamo, ora, in che termini le indicazioni contenute nella legge delega hanno ricevuto attuazione. L’articolo 61 del decreto legislativo introduce una nuova tipologia contrattuale, il lavoro a progetto, e dispone che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili  a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa ”. In sostanza, soltanto per le collaborazioni che potranno essere ricondotte ad uno o più progetti specifici, programmi di lavoro o fasi di esso sarà possibile la conversione del rapporto al nuovo tipo di contratto.

L’articolo 69 sancisce, inoltre, il divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici, ovvero privi dell’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, disponendo che tali rapporti saranno considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla loro data di costituzione.

La norma, facendo riferimento alla mancata “individuazione di uno specifico progetto o programma di lavoro o fase di esso”, pare riferirsi ad uno dei requisiti formali del nuovo contratto di collaborazione a progetto previsti a fini probatori dall’articolo 62 (articolo che di seguito illustreremo più dettagliatamente). Tra gli elementi indicati da tale norma, è, infatti, riportata anche “l’indicazione del progetto o programma di lavoro o fasi di esso” (art. 62, camma 1, lett. b).

Essendo tale indicazione un elemento formale, previsto dalla norma a fini probatori, parrebbe, allora, trattarsi di un caso di mera presunzione, la quale potrà essere vinta in sede giudiziale mediante la prova da parte del committente dell’esistenza concreta di un progetto, oggetto sostanziale del nuovo contratto di collaborazione.

Affermando, quindi, che i rapporti di collaborazione instaurati senza l’individuazione, intesa in senso formale, di un progetto (ovvero senza la mera trascrizione del progetto nel contratto) “sono considerati rapporti di lavoro subordinato”, il legislatore ha inteso creare una presunzione di legge a favore del collaboratore, ponendo a carico del committente l’onere di provare l’esistenza di un progetto, e, di conseguenza, la conformità del contratto stipulato alla legge.

Il secondo comma dell’articolo 69 stabilisce, infatti, che laddove il giudice accerti che il rapporto instaurato tra le parti ai sensi dell’articolo 61 configura in realtà un rapporto di lavoro subordinato, e quindi, laddove il committente non abbia fornito la prova dell’esistenza del progetto, il rapporto “si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi dalle parti”. Si ricorda infatti che, al di là delle novità normative introdotte dalla riforma, il principio fondamentale operante nell’ambito del diritto del lavoro consiste nella prevalenza degli aspetti sostanziali rispetto agli elementi meramente formali eventualmente con essi in contrasto.

Proseguendo nella lettura dell’articolo, al terzo comma il legislatore sottolinea che “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente /…/ all’accertamento dell’esistenza di un progetto, programma di lavoro o fase di esso, e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. In sostanza, dunque, l’indagine che il  giudice potrà condurre in sede giurisdizionale dovrà essere finalizzata esclusivamente alla verifica dell’esistenza di un progetto quale oggetto del contratto, senza poterne però sindacare la validità o l’opportunità nell’ambito dell’organizzazione aziendale.

L’intera disciplina dettata dai tre commi dell’articolo 69 che abbiamo appena illustrato si riferisce ai rapporti di collaborazione instaurati sotto la vigenza del decreto legislativo, e dunque a contratti stipulati dopo la sua entrata in vigore. Per tutti i rapporti pendenti è infatti prevista un’apposita disposizione transitoria, l’articolo 86, che riguarda i contratti di collaborazione posti in essere prima dell’entrata in vigore del presente decreto, articolo di cui ci occuperemo nella parte finale della circolare.

Le due disposizioni sulle quali ci siamo fin qui soffermati, gli articoli 61 e 69, sono da sole sufficienti a evidenziare l’indiscutibile centralità nell’ambito del nuovo panorama lavorativo del concetto di progetto, quale fulcro e discrimine tra diverse ipotesi contrattuali. Una corretta applicazione pratica del dettato normativo implica, dunque, che sia inequivocabilmente chiaro che cosa debba intendersi per progetto.

Al riguardo, i diversi testi legislativi non facilitano un’interpretazione univoca, dal momento che il concetto viene espresso, nei diversi passaggi della disciplina, in maniera non del tutto uguale: il Libro Bianco parlava di progetto o programma di lavoro o fase di esso; la legge 30/2003 parla di uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso; il decreto attuativo fa riferimento a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso. Sul punto, il sottosegretario al Lavoro si limita a dire, con una definizione a contrario, cosa il progetto non è, affermando semplicemente che “non si tratta dell’esecuzione di un’opera” (Il Sole – 24 Ore, 13 settembre 2003, n. 251).

Considerando che tale istituto sarà immediatamente applicabile con l’entrata in vigore del decreto legislativo, e che  non saranno necessari ulteriori interventi da parte della contrattazione collettiva o del ministero (salvo, come precedentemente accennato, eventuali decreti correttivi), un simile “astrattismo” potrebbe rischiare di vanificare la stessa introduzione dell’intero istituto.

Dall’impostazione lessicale scelta per il testo definitivo varato dal Governo (“uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso”), parrebbe emergere l’intenzione del legislatore di fornire contenitori concettuali il più possibile ampi, in grado di accogliere realtà tra loro eterogenee. A conferma di ciò vale anche l’assenza di una definizione giuridica dei termini “progetto specifico” e “programma”.

La mancanza di tali definizioni determinerà, quasi certamente, non poche difficoltà nell’ambito della predisposizione formale dei nuovi contratti, e ciò anche alla luce della indubbia genericità dei termini utilizzati. Sarebbe lecito, quindi, domandarsi, a titolo esemplificativo, se il progetto sia un concetto più o meno ampio rispetto al programma, o se il progetto debba necessariamente o meno comprendere un programma, o, ancora, se  progetto e programma possano consistere in ordinarie attività operative. Questi sono soltanto alcuni dei quesiti che ad oggi rimangono senza una risposta certa e che solo l’elaborazione giurisprudenziale e della dottrina potranno contribuire a risolvere.

Ma, al di là di ogni definizione e sottigliezza lessicale, dietro i concetti di “progetto” e “programma” deve sussistere effettivamente un rapporto di lavoro di natura sostanzialmente autonoma, ovvero senza vincolo di subordinazione (il progetto specifico o il programma deve, infatti, essere gestito “autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato /…/”, art. 61, comma 1).

Per quanto riguarda, invece, i requisiti formali previsti per le nuove collaborazioni a progetto, il testo legislativo non pone particolari questioni interpretative. L’articolo 62 del decreto legislativo, infatti, come precedentemente accennato, si limita a riprendere quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, lett. c, n. 1 della legge delega.

Il contratto di lavoro a progetto dovrà essere stipulato in forma scritta e dovrà contenere, come precedentemente accennato a fini probatori, una serie di elementi tassativamente indicati dal legislatore delegato. I cinque requisiti formali previsti per le nuove collaborazioni sono dall’articolo 62 elencati come segue: indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro; indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuato nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto; il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonché i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese; le forme di coordinamento tra il lavoratore a progetto e il committente sull’esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicare l’autonomia del lavoratore nell’esecuzione dell’obbligazione lavorativa; e, infine, le eventuali misure per la tutela della salute e la sicurezza del collaboratore a progetto, ferma restando l’applicazione delle norme di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e integrazioni, qualora la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente, nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e le disposizioni sul processo del lavoro (art. 66, comma 4).

Per quel che riguarda i diritti riconosciuti alla nuova figura del collaboratore a progetto, la disciplina dettata dal decreto non esclude l’applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il lavoratore (art. 61, comma 4).

Oltre a quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 66, il decreto precisa che la gravidanza, la malattia e l’infortunio del collaboratore non comportano l’automatica estinzione del contratto, il quale, in questo lasso di tempo, rimane sospeso senza l’erogazione del corrispettivo (art. 66, comma 1).

Con riguardo a malattia ed infortunio, inoltre, la nuova disciplina  riserva un ruolo rilevante alla volontà delle parti in sede di contrattazione individuale, disponendo che, in tali casi, la sospensione del rapporto non comporta la proroga della durata del contratto, il quale si estinguerà dunque alla scadenza prevista, salvo che i contraenti abbiano stabilito un diverso accordo contrattuale (art. 66, comma 2).

In caso di gravidanza, invece, la durata del rapporto è prorogata ex lege per un periodo di 180 giorni, salvo, anche qui, una disposizione del contratto più favorevole per la donna (art. 66, comma 3).

Esclusa l’ultima ipotesi illustrata, “il committente può comunque recedere dal contratto se la sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata stabilita dal contratto, quando essa sia determinata, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata determinabile” (art. 66, comma 2).

Il legislatore ha, poi, stabilito il criterio per la determinazione del corrispettivo spettante al collaboratore, il quale dovrà essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito. Tale determinazione dovrà inoltre tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni lavorative autonome nel luogo di esecuzione del rapporto (art. 63).

Anche questa disposizione, la cui ratio è certamente più riconducibile ai rapporti di lavoro subordinato, potrà, nell’ambito di lavori a progetto eseguiti in équipe, provocare intuibili problematiche applicative e probabili rivendicazioni.

Una disposizione ad hoc è dedicata alla disciplina delle invenzioni del collaboratore: l’art. 65 stabilisce, infatti, che il lavoratore a progetto ha diritto di essere riconosciuto autore delle invenzioni fatte nello svolgimento del rapporto.

L’articolo 67 disciplina, poi, l’estinzione del contratto, stabilendo che la realizzazione del progetto o del programma di lavoro o della fase di esso indicato nel contratto ne comporta la risoluzione (comma 1). Il recesso prima della scadenza stabilita o prima della realizzazione del progetto o del programma di lavoro o di una sua fase, sarà possibile solo in presenza di giusta causa ovvero “secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale” (comma 2).

Anche in questo caso, dunque, come per eventuali ipotesi di proroga possibili in caso di malattia, infortunio  gravidanza, la volontà delle parti assume un’importanza notevole, poiché a loro è lasciata la possibilità di tracciare, attorno al nucleo delineato dal legislatore, i contorni del rapporto che, di fatto, intendono attuare. Al di là delle disposizioni di legge, la reale portata della forza contrattuale effettivamente esercitabile dal collaboratore nell’ambito della definizione dell’assetto contrattuale sarà valutabile soltanto sulla base dell’esperienza concreta.

In ogni caso, i diritti previsti per il collaboratore dalle disposizioni finora illustrate possono formare oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto (art. 68).

Il quadro dei rapporti tra committente e collaboratore include, infine, il divieto per quest’ultimo, di svolgere attività in concorrenza con l’attività del committente. Inoltre, il lavoratore non dovrà diffondere notizie o apprezzamenti relativi ai programmi e all’organizzazione dell’attività (art. 64, comma 2). Si tratta, in sostanza, di un generale obbligo di fedeltà e riservatezza posto a carico del collaboratore a progetto, al quale, salvo un diverso accordo tra le parti, resta consentito di svolgere la propria attività in favore di più committenti (art. 64, comma 1).

Il secondo comma dell’articolo 61 opera una prima delimitazione del campo di applicazione delle disposizioni dettate per le collaborazioni a progetto, escludendo dalla disciplina fin qui illustrata le prestazioni occasionali, ovvero i “rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro, nel qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo”.

Le prestazioni occasionali non rientrano, dunque, nell’ambito delle collaborazioni a progetto laddove si verifichino le condizioni temporali ed economiche espressamente stabilite dal decreto legislativo. La disposizione appena richiamata definisce, infatti, le prestazioni occasionali come quelle derivanti da rapporti di lavoro di durata complessiva non superiore a trenta giorni svolti nello stesso anno solare e con il medesimo committente. Il che induce a ritenere possibile la ripetizione di tali rapporti nel corso degli anni, fermo restando il limite complessivo annuale.

Il terzo comma dell’articolo 61, proseguendo nel delineare i limiti  di applicazione della presente disciplina, elenca i settori non sottoposti alle disposizioni fin qui illustrate. In particolare, tali disposizioni non si applicano alle professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, ai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e ai partecipanti a collegi e commissioni, nonché a coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia. Infine, sono esclusi dall’applicazione di tale disciplina i rapporti e le attività di collaborazione continuativa resi a fini istituzionali a favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni.

Per quanto riguarda l’esclusione delle professioni intellettuali, oltre al limite della necessaria iscrizione in appositi albi professionali, è previsto che tali albi siano esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo.

L’esplicita esclusione prevista per i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società è collegata alla previsione della legge 80/2003, che ha delegato il Governo alla “revisione della disciplina dei redditi derivanti dai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa espressamente definiti, con inclusione degli stessi nell’ambito dei reddito di lavoro autonomo” (art. 3, comma 1, punto 8 legge 80/2003). Amministratori, sindaci e revisori contabili saranno, pertanto, ricondotti nell’ambito dei percettori di reddito da lavoro autonomo. Considerando, comunque, che questi rapporti non trovano origine in un contratto, tale esclusione si configura più come una precisazione che come un’innovazione.

Per quanto riguarda il settore del pubblico impiego, il decreto legislativo stabilisce che le nuove disposizioni non si applicano al personale della pubblica amministrazione, fatte salve alcune previsioni espressamente estese al settore pubblico. Per quello che in questa sede ci interessa, ovvero le disposizioni relative alle collaborazioni a progetto, è prevista l’esclusione della loro applicazione a tale settore. Ne consegue, dunque, che in questo ambito si potranno continuare a stipulare contratti di collaborazione anche a tempo indeterminato e, comunque, non riconducibili a un progetto, programma di lavoro o fasi di esso (ferma restando l’assenza di vincoli di subordinazione).

Sul punto è già intervenuto il Consiglio di Stato con una sentenza relativa ai requisiti di indipendenza e infungibilità caratterizzanti l’incarico professionale nel settore pubblico. Secondo i giudici del Consiglio, gli incarichi di collaborazione con un ente locale sono compatibili con la sussistenza di elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato (quali l’osservanza di un certo orario di lavoro o la concessione di ferie e permessi), purché vi siano elementi sostanziali che marchino l’autonomia nelle modalità di svolgimento dell’attività e la infungibilità della stessa con una prestazione di lavoro subordinato (Cons. di Stato, sez. V, sent. n. 5144 del 15 sett. 2003).

Al settore pubblico non si applicano, inoltre, i criteri previsti dall’articolo 61, comma secondo, in ordine alla determinazione del rapporto di lavoro occasionale.

Tutta la disciplina finora delineata prevede, come abbiamo avuto modo di accennare, una normativa che sarà immediatamente applicabile non appena entrerà in vigore il presente decreto legislativo. In ordine al profilo del nuovo istituto della collaborazione a progetto, infatti, non sono necessari ulteriori interventi da parte della contrattazione collettiva o del ministero.

Per quanto riguarda il regime transitorio, il testo governativo prevede che i contratti di collaborazione in essere (e quindi i contratti instaurati prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo), i quali non possano essere ricondotti ad un progetto, “mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento” ( art. 86, comma 1).

Ciò significa che i contratti di collaborazione coordinata e continuativa eventualmente stipulati da oggi alla data di entrata in vigore del decreto legislativo (ovvero 15 giorni dopo la pubblicazione del testo sulla Gazzetta Ufficiale), laddove non siano riconducibili ad un progetto, e fatta, ovviamente, sempre salva la possibilità da parte del lavoratore di contestare la loro reale natura, manterranno efficacia (ovvero continuano ad consistere nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa) fino, al massimo, a settembre / ottobre 2004.

Proseguendo, però, la lettura dell’articolo 86 relativo al regime transitorio, si legge che “termini diversi, anche superiori all’anno, di efficacia delle collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente potranno essere stabiliti nell’ambito di accordi sindacali di transizione al nuovo regime”.

In sostanza, dunque, viene data alla contrattazione collettiva la possibilità di mantenere in vita una tipologia contrattuale diversa da quella voluta dal legislatore con la presente riforma. Si prevede, infatti, a favore della contrattazione collettiva, il potere di derogare alla legge senza che venga contestualmente stabilito un limite temporale a tale deroga.

Il legislatore, inoltre, sul punto non si limita a demandare alla contrattazione collettiva nazionale, ma rimanda addirittura a quella di livello aziendale. La norma fa, infatti, riferimento ad “accordi sindacali di transizione /…/ stipulati in sede aziendale con le istanze aziendali dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”.

Quindi, le collaborazioni coordinate e continuative, stipulate da oggi fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, non riconducibili a un progetto potrebbero, in linea teorica, restare in vita per un tempo indeterminato. La durata di tali contratti dipenderà, infatti, dalla forza contrattuale che avranno le singole aziende di imporre alle organizzazioni sindacali il mantenimento di un contratto che, dal punto di vista legislativo, non esiste più.

Quanto appena detto appare ancora più curioso se si considera la disciplina dettata per i rapporti che sorgeranno dopo l’entrata in vigore del presente provvedimento. E’ infatti lo stesso decreto legislativo ad imporre, come visto a proposito dell’articolo 69, la conversione dei rapporti di collaborazione non riconducibili a un progetto in contratti di lavoro subordinato sin dalla data di costituzione del rapporto.

In conclusione, dunque, il legislatore delegato da un lato vieta di porre in essere nuovi contratti di collaborazione coordinata e continuativa, disponendo che le collaborazioni non riconducibili a progetto subiranno la conversione in rapporti di lavoro subordinato (art. 69), dall’altro consente che i contratti di collaborazione già esistenti al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, i quali non siano riconducibili a un progetto, potrebbero rimanere in essere sine die in base ad accordi sindacali “di transizione” (art. 86).

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners.

La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Settembre 2003] - Risarcibilità dei danni derivanti dallo sconvolgimento della vita famigliare

Con due importantissime sentenze, La Suprema Corte di Cassazione ha affrontato la problematica, sino ad oggi ampiamente dibattuta, della risarcibilità dei danni non patrimoniali.

Le vicende che hanno originato queste due decisioni, sebbene tra loro differenti, hanno avuto un medesimo denominatore comune, ovvero quello della risarcibilità degli effetti prodotti da alcuni tragici eventi sulla normale vita familiare, in quanto causa di uno sconvolgimento delle abitudini di vita.

Le due decisioni della Corte, rispettivamente n.8827/2003 e n.8828/2003, hanno di fatto superato il rigido schema del risarcimento del danno non patrimoniale subordinato all’art.185 c.p. che, come noto, sancisce la riscarcibilità del danno conseguente a reato.

Come è noto, l’art.29 della Costituzione sancisce e riconosce i diritti della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, da intendersi, nei casi di specie, come diritto alla realizzazione della vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti ispirati dal rapporto parentale, ove, pur generando bisogni e doveri, danno luogo a gratificazioni, supporti, affrancazione e significati.

L’alterazione di questi particolarissimi e personalissimi rapporti positivi, derivanti dal più generale rapporto parentale, determinerebbe questa particolare fattispecie di danno non patrimoniale, consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita, risarcibile ex art. 2059 c.c. poiché lesione di un interesse costituzionalmente protetto.

Ebbene nella richiesta risarcitoria promossa dai congiunti di una persona deceduta a seguito di sinistro stradale, sfociata nella sentenza 7-31 maggio 2003 n.8828, lo sconvolgimento è rappresentato dall’estinzione del rapporto parentale con i congiunti e dalla lesione della sfera degli affetti reciproci e della famiglia. In questa pronuncia la Corte ha opportunamente sottolineato che la lesione che si vuole risanare è quella relativa alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, lesione differente sia da quella al bene salute (risarcibile con il danno biologico) che da quella all’integrità morale da ingiusta sofferenza (risarcibile con il danno morale soggettivo).

Detta lesione si concreta, nel caso in esame, nella irreversibile perdita del godimento del congiunto, nella definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali nell’ambito del nucleo familiare.

Perdite e preclusioni che sono diretta conseguenza della lesione di un interesse protetto.

Per quanto concerne la prova del danno, la Suprema Corte ha evidenziato che detta tipologia di danno non patrimoniale non è in re ipsa, ovvero coincidente con la lesione dell’interesse, dovrà invece essere adeguatamente provato. Si dovrà perciò avere riguardo, trattandosi di pregiudizio che si proietta nel futuro, al periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente protratto il godimento del congiunto, anche mediante valutazioni prognostiche e presuntive, sulla base degli elementi che dovrà fornire il danneggiato.

In ordine, infine, alla liquidazione di detta tipologia di danno non patrimoniale, trattandosi di lesione di valori inerenti alla persona, la stessa dovrà unicamente avvenire in base ad una valutazione equitativa, sulla base di parametri quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza (più o meno ampia) del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.

Con la sentenza 7-31 maggio 2003 n.8827, relativa ai gravi ed irreversibili danni riportati da un neonato all’atto della nascita, tali da costringere lo stesso ad una vita vegetativa, la Suprema Corte ha ripreso i principi sopra enunciati stabilendo che, quando un fatto lesivo altera l’assetto su cui si fonda il nucleo familiare (fatto di bisogni e doveri ma anche di significati e gratificazioni) lo sconvolgimento che inevitabilmente scaturisce nelle abitudini di vita deve essere risarcito.

Nel caso di specie, le gravi lesione subite al momento della nascita dal bambino hanno determinato una vita vegetativa dello stesso, che ha inevitabilmente determinato il più totale sconvolgimento delle abitudini e delle aspettative dei genitori stessi, con l’ulteriore conseguenza di dover costantemente e perennemente provvedere alle esigenze del figlio stesso.

Questa “riduzione delle positività derivanti dal rapporto parentale”, osserva la Corte, trova tutela nell’articolo 29 della Costituzione che riconosce i diritti della famiglia e detto danno non patrimoniale deve pertanto essere risarcito ex art. 2059 cod. civ.

Al riguardo è bene precisare che la Suprema Corte, con le decisioni in esame (n.8827/03 e n.8828/03), ha affermato che il danno da sconvolgimento della vita costituisce un’autonoma lesione, ontologicamente differente dal danno biologico, dal danno patrimoniale e da quello morale (vd. anche Trib. Torino 8 agosto 1995, C.App.Torino, 4 ottobre 2001, n. 1285).

Tuttavia, il ricorso ad una autonoma voce di danno “non deve significare incremento generalizzato delle poste di danno, ma mezzo per colmare le lacune dell’ordinamento nella tutela risarcitoria della persona” .

Pertanto, come già accennato, la liquidazione del danno non patrimoniale dovrà avvenire sulla base di una valutazione equitativa, tuttavia tenendo conto di quanto liquidato a titolo di danno morale soggettivo, al fine di evitare una duplicazione delle poste di danno e dei connessi risarcimenti.

Al riguardo non si può non rilevare una certa contradditorietà nei principi enunciati dalle sentenze in esame.

Infatti se da un lato viene affermata con chiarezza una sostanziale autonomia del danno da “sconvolgimento della vita familiare”, dall’altro, detta autonomia, viene sensibilmente ridotta in quanto, sotto l’aspetto liquidatorio, la nuova tipologia di danno viene correlata all’entità del danno morale.

La soluzione, così come prospettata, pare essere il frutto di un compromesso. Si riconosce, quindi, un’autonoma categoria di danno, dai confini obbiettivamente incerti, ma nello stesso tempo si cerca in qualche modo di ridurre gli impatti risarcitori della stessa.

Milano, 04.09.2003

[Giugno 2003] - Lavoro interinale: prima interpretazioni giurisprudenziali

La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata sul contratto di lavoro temporaneo, ed, in particolare, sulla sanzione applicabile in caso di superamento del termine di prestazioni convenuto in tale contratto (Cass. Sez. Lav. Sent. del 27/02/2003 n. 3020).

Si tratta di una sentenza di indubbio interesse, nell’ambito della quale viene per la prima volta proposta una diffusa argomentazione relativa alla struttura e alla funzione di tale contratto.

Per meglio comprendere l’iter logico – giuridico seguito dalla Cassazione, è opportuno, in primo luogo, considerare le molteplici e tra loro contrapposte esigenze alla base dell’introduzione del c.d. lavoro interinale.

Innanzi tutto, si è registrato il bisogno delle imprese di poter disporre di una forza lavoro idonea a fronteggiare esigenze temporanee, non tipizzate, lasciando la gestione normativa, retributiva e previdenziale del rapporto ad altra impresa, specializzata nel reclutamento di personale idoneo a sopperire ad esigenze temporanee. Allo stesso tempo, il legislatore si è posto l’obiettivo di semplificare ed incentivare lo sbocco occupazionale soprattutto per le fasce giovanili. Da un lato, dunque, il principio di flessibilità e l’interesse delle imprese a usufruire di nuclei lavorativi mobili, dei quali aver la sola gestione tecnico – produttiva; dall’altro, l’interesse del lavoratore ad un rapido accesso al mondo del lavoro.

Proprio per rispondere a tali esigenze, il legislatore è ricorso allo schema strutturale complesso del contratto di lavoro temporaneo, disciplinato dagli artt. 1 e 3 della legge n. 196 del 24 giugno 1997. Tale tipologia contrattuale è infatti composta da un contratto di lavoro a termine o indeterminato concluso tra l’impresa fornitrice di manodopera e i lavoratori, qualificabile come contratto per prestazione di lavoro temporaneo, da un contratto tra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice, qualificabile come contratto di fornitura di lavoro temporaneo, nonché dall’avvio, da parte dell’impresa fornitrice, di lavoratori da essa assunti presso l’impresa utilizzatrice, qualificabile come rapporto giuridico tra impresa utilizzatrice e lavoratori temporanei.

La fattispecie del lavoro interinale è costituita, pertanto, da un rapporto trilatere, composto da due contratti strutturalmente autonomi ma funzionalmente collegati e da un rapporto giuridico tra impresa utilizzatrice e prestatori di lavoro.

È, inoltre, prevista una scissione tra titolarità giuridica del rapporto di lavoro ed effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa. I lavoratori temporanei vengono, infatti, assunti dall’impresa fornitrice di lavoro, ma prestano la propria attività presso l’impresa utilizzatrice, estranea al rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra il lavoratore stesso e l’impresa fornitrice. Nell’ambito di tale distinzione, dunque, l’impresa fornitrice assume il ruolo di datore di lavoro, privo, però, di potere gestionale nei confronti del lavoratore. Esiste, quindi, una separazione fra gestione normativa (in capo all’impresa fornitrice) e gestione tecnico – produttiva (in capo all’impresa utilizzatrice) del lavoratore.

Nel caso di specie, il lavoratore temporaneo aveva prestato attività lavorativa oltre dieci giorni dalla scadenza del termine previsto dal contratto per prestazione di lavoro temporaneo, contratto concluso tra il lavoratore stesso e l’impresa fornitrice di manodopera. Tale termine non coincideva con quello, più lungo, contemplato dal contratto di fornitura di manodopera, concluso tra l’impresa fornitrice e quella utilizzatrice.

Il lavoratore, pertanto, a seguito della comunicazione dell’impresa fornitrice in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro, chiedeva in giudizio l’accertamento della trasformazione del contratto di lavoro temporaneo in rapporto a tempo indeterminato, per superamento del termine convenuto nel contratto di prestazione di lavoro temporaneo. Tale richiesta veniva formulata, alternativamente, nei confronti di entrambe le imprese.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso presentato dal lavoratore, identificando nel contratto di prestazioni di lavoro temporaneo il “contratto – base” della complessa fattispecie in esame, ha condannato l’impresa utilizzatrice a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

La regolamentazione del rapporto di lavoro, afferma infatti la Suprema Corte, nella quale l’elemento essenziale è costituito dalla sua durata, risiede esclusivamente nel contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, il quale costituisce, pertanto, la fonte normativa di riferimento dell’intera fattispecie contrattuale.

Tale contratto, sempre secondo la Cassazione, produce effetto anche nei confronti del soggetto utilizzatore della prestazione lavorativa, benché esso sia estraneo alla stipulazione dello stesso. Pertanto, l’inconsapevolezza o l’ignoranza del contenuto del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo (contratto, lo si ripete, stipulato tra l’impresa fornitrice e i lavoratori) da parte dell’impresa utilizzatrice “rimane irrilevante, rientrando la fattispecie legislativa in esame nei casi di efficacia contrattuale che necessariamente si estende a tutti i soggetti che hanno partecipato al procedimento negoziale; che pur articolandosi in distinti negozi, ciascuno caratterizzato da una sua autonoma funzione, inerisce agli stessi – indivisibilmente – per la integrazione che  /…/ tale procedimento realizza tra i loro interessi”

La sanzione prevista dall’art. 10 comma 3 della legge 196/97, che comporta la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sanzione applicabile in caso di superamento di oltre dieci giorni del termine di durata della prestazione lavorativa) è prevista esclusivamente nei confronti dell’impresa utilizzatrice.

Nell’ambito della fattispecie in esame, sostiene infatti la Corte, il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo costituisce la fonte esclusiva della disciplina normativa del rapporto di lavoro, “/…/ ed al suo contenuto va fatto riferimento per accertare l’assoggettamento dell’impresa utilizzatrice alla sanzione prevista dal comma 3 dell’art. 10 L. 196/97, con la conseguenza che in caso di contrasto tra il termine finale contenuto nel contratto di prestazione di lavoro e quello contenuto nel contratto di fornitura, ai fini predetti, ha rilievo unicamente il termine contenuto nel primo contratto /…/”.

La sentenza n. 3020/2003 è di notevole importanza proprio alla luce delle argomentazioni svolte dal Collegio in ordine al complesso schema strutturale del contratto di lavoro temporaneo. Tuttavia, tale ricostruzione della complessa fattispecie non sembra di per sé sufficientemente idonea a sostenere la conclusione cui è giunta la Corte.

La Cassazione, a motivazione delle proprie argomentazioni, arriva ad individuare in capo all’utilizzatore non  solo generici “obblighi di correttezza e buona fede che non lasciano spazio ad alcuna inconsapevolezza”, ma addirittura lo specifico obbligo di conoscere quanto pattuito tra il lavoratore e l’impresa fornitrice nel contratto per prestazione di lavoro, contratto rispetto al quale egli è terzo. Nella sentenza si legge infatti che è “/…/ obbligo primario dell’utilizzatore, nell’accingersi a gestire le energie lavorative procacciategli dall’impresa fornitrice, controllare l’esatto contenuto del contratto di prestazione di lavoro temporaneo, che costituisce il titolo che gli consente di gestire il lavoratore.”

Al riguardo paiono opportune due brevi considerazioni. In primo luogo, manca nella legge che disciplina la fattispecie contrattuale in esame una norma che preveda un obbligo avente tale oggetto in capo all’impresa utilizzatrice. Nel silenzio della legge, la conclusione della Corte, che giunge ad individuare uno specifico obbligo alla cui inosservanza fa seguito una specifica sanzione, si rivela quantomeno audace. In un contesto simile, infatti, il semplice riferimento alle clausole generali di correttezza e buona fede non pare sufficiente, dal momento che l’obbligo di informazione gravante sul soggetto utilizzatore, così come delineato dalla Cassazione, è prossimo ad un vero e proprio onere.

Dall’affermazione di tale opinabile principio derivano conseguenze non certo logiche ed eque. Più specificamente, l’impresa utilizzatrice, rimasta del tutto estranea al rapporto tra l’impresa fornitrice e il lavoratore, e quindi inconsapevole del contenuto del relativo contratto, si troverebbe esposta all’applicazione della sanzione che prevede la trasformazione del rapporto da temporaneo a tempo indeterminato, senza alcuna possibilità di agire giudizialmente nei confronti dell’impresa fornitrice per il ristoro dei danni conseguenti a tale trasformazione. Il che pare veramente eccessivo.

In secondo luogo, l’interpretazione prospettata dalla Corte pare in contrasto con le esigenze di flessibilità che hanno spinto il legislatore ad introdurre l’ipotesi contrattuale in oggetto. Si rileva, infatti, che un simile obbligo in capo all’impresa utilizzatrice avrebbe l’effetto di rallentare il procedimento di fornitura, e quindi di avviamento al lavoro, degli stessi lavoratori. In questo modo si rischierebbe di imbrigliare proprio il meccanismo fondamentale dell’intera fattispecie, ossia quello che garantisce alle imprese la disponibilità di nuclei di lavoro mobili, e ai lavoratori un accesso più rapido al mondo del lavoro.

Trattandosi, tuttavia, di una delle prime sentenze di legittimità sul contratto di lavoro interinale, le conclusioni cui è giunta la Cassazione non costituiscono ancora un vero e proprio orientamento giurisprudenziale, idoneo, quindi, ad indirizzare l’interpretazione della normativa in vigore. Per un esame più approfondito della questione giuridica in oggetto è necessario, oltre che opportuno, attendere nuove pronunce in merito.

STUDIO LEGALE GGM

[Maggio 2003] - Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro - parte II

L’ISTITUTO DELLA CERTIFICAZIONE E LA RAZIONALIZZAZIONE

DELLE FUNZIONI ISPETTIVE

Nella precedente circolare n. 50, pubblicata sul sito “onlinelex”  in data 8 aprile, sono state sinteticamente illustrate le tipologie contrattuali già esistenti e solo modificate dalla legge delega, nonché quelle introdotte ex novo nel nostro ordinamento dalla riforma. In questa sede, a conclusione della sintetica illustrazione della legge 14 febbraio 2003, n. 30 di cui ci siamo brevemente occupati, verranno proposti alcuni brevi spunti relativi ai temi indicati in epigrafe.

L’articolo 5 della legge delega introduce il nuovo istituto della certificazione dei contratti di lavoro con l’esplicito obiettivo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro.

La relativa procedura avrà una doppia finalità: da un lato, fornire assistenza alle parti in ordine alla predisposizione delle clausole presenti nell’accordo contrattuale, facilitando le stesse nel concordare il programma negoziale; dall’altro, fissare la qualificazione giuridica del contratto concluso dalle parti, operando, dunque, una serie di scelte regolative che condizioneranno la successiva tutela giurisdizionale del rapporto stesso.

L’utilizzo nell’ambito dei rapporti di lavoro di diverse tipologie contrattuali, infatti, comprese quelle di nuova istituzione o di nuova regolamentazione contenute nella legge delega e sinteticamente illustrate nella precedente circolare, ha spinto il legislatore a prevedere l’introduzione di uno strumento di  controllo. La certificazione del contratto sarà maggiormente utile nella qualificazione di quelle figure contrattuali atipiche, ovvero quelle appartenenti alla vasta area che si trova al confine tra lavoro subordinato standard e lavoro autonomo/parasubordinato.

Il legislatore delegante ha, inoltre, esplicitamente previsto che la disciplina definitiva del nuovo istituto della certificazione, ovvero quella che verrà indicata nei decreti attuativi, avrà, inizialmente, carattere meramente sperimentale. Il Governo dovrà, quindi, prevedere le modalità di verifica da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’attuazione delle emanande disposizioni, verifica che dovrà essere effettuata a ventiquattro mesi dalla data della loro entrata in vigore (art. 5, comma 1, lett. a).

Dalla norma in esame si evincono tre principi direttivi del nuovo istituto, concernenti, in primo luogo, il carattere volontario della procedura di certificazione; in secondo luogo, gli organi preposti alla relativa attività certificatoria; infine, il contenuto e l’efficacia giuridica dell’avvenuta certificazione.

Per quanto concerne il primo criterio direttivo, il legislatore si è limitato a enunciare il “carattere volontario della procedura” (art. 5, comma 1, lett. a). Al riguardo, è stato fin da subito sottolineato il rischio che non sia sufficiente la mera previsione formale della volontarietà  della procedura perché venga effettivamente garantita la libertà decisionale del lavoratore.

Di qui, l’auspicio che gli organi competenti, al fine di un reale rispetto del presupposto della volontarietà, non si limitino a richiedere la sussistenza di una comune istanza di avvio della procedura di certificazione (ovvero, del datore e del prestatore di lavoro), ma verifichino la presenza di una effettiva libertà di scelta dei soggetti coinvolti. In questo senso, sarà importante che la parte debole del rapporto possa accedere a (e, quindi, disporre di) tutte le informazioni utili ai fini dell’adozione della propria decisione.

Per quanto riguarda il secondo criterio direttivo, gli organi preposti alla certificazione del contratto di lavoro potranno essere individuati in “enti bilaterali costituiti su iniziativa delle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”, ovvero in “strutture pubbliche aventi competenze in materia”, o, ancora, in “università” (art. 5, comma 1, lett. b).

Per quanto riguarda le strutture pubbliche competenti in materia, queste saranno molto probabilmente identificate con le Direzioni provinciali del lavoro (così come indicato nella “Relazione di accompagnamento della proposta del Governo per una delega in materia di mercato del lavoro”). Su tale identificazione sono state avanzate molte riserve, dal momento che, in questo modo, la funzione certificatoria verrebbe attribuita a soggetti già sovraccarichi di lavoro. Questa evenienza rischierebbe, quindi, di vanificare le intenzioni del legislatore.

Da più parti si è opportunamente sottolineata l’esigenza di contemplare l’istituzione di un unico soggetto certificatorio, idoneo ad assolvere tutte le funzioni enunciate nella norma in esame. Tale scelta fornirebbe maggiori garanzie di adeguatezza rispetto ai compiti previsti dall’articolo 5, i quali presuppongono sia una rigorosa padronanza della tecnica giuridica, sia l’attitudine a percepire i reali interessi sottesi al singolo caso concreto.

Per quanto riguarda il terzo criterio direttivo, il legislatore prevede esplicitamente “l’attribuzione di piena forza legale al contratto certificato /…/ con esclusione della possibilità di ricorso in giudizio se non in caso di erronea qualificazione del programma negoziale da parte dell’organo preposto alla certificazione e di difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato dalle parti e il programma negoziale concordato dalle parti in sede di certificazione” (art. 5, comma 1, lett. e).

La certificazione attiene, dunque, alle conseguenze giuridiche dell’accordo contrattuale, imprimendo a quest’ultimo piena forza legale, ovvero una sorta di “certezza pubblica”, fino ad un eventuale e diverso accertamento giudiziale. Invero, la norma sopra riportata non impedisce la tutela giurisdizionale dei diritti dei lavoratori o dei terzi, ma, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe predisporre uno strumento teso ad evitare l’instaurazione di rapporti di lavoro simulati, ovvero formalmente autonomi ma sostanzialmente subordinati.

Infine, il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’articolo 410 c.p.c., nel caso in cui si intenda impugnare l’erronea qualificazione del contratto o la difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato dalle parti e quello concordato dalle parti in sede di certificazione, dovrà svolgersi dinanzi all’organo che ha effettuato la certificazione. In caso di ricorso in giudizio, l’autorità giudiziaria competente avrà l’obbligo di accertare anche le dichiarazioni e il comportamento tenuto dalle parti davanti all’organo preposto alla certificazione (art. 5, comma 1, lett. f).

Per quanto riguarda, infine, la natura giuridica della certificazione, questa va analizzata singolarmente in relazione alle diverse funzioni attribuite all’istituto in esame.

La funzione di assistenza fornita alle parti nell’elaborazione del loro programma negoziale è configurabile quale vera e propria consulenza giuridica. A tal proposito, la giurisprudenza della Suprema Corte si è più volte espressa affermando che l’esercizio della consulenza legale prestata al di fuori di ogni attività giudiziale non presuppone l’iscrizione all’albo degli avvocati (Cass. 07/07/1987 n. 5906 e, successivamente, Cass. 08/08/1997 n. 7359).

Nell’ambito, invece, dell’attività di qualificazione giuridica del contratto di lavoro, l’atto di certificazione non accerta uno stato di fatto, ma qualifica un rapporto, determinando, così, le conseguenze giuridiche del comportamento contrattuale delle parti. Esso riguarda, dunque, la certezza non di fatti, ma di rapporti giuridici.

L’atto certificatorio assumerebbe, di conseguenza, una natura paragonabile a quella del provvedimento amministrativo, il quale assolve la funzione di “certezza pubblica”, ed è non solo materialmente redatto, ma anche giuridicamente imputabile all’organo che lo emana.  Di qui, l’auspicio che i principi contenuti nella legge 241/1990 in materia di procedimenti amministrativi (in particolar modo quelli di trasparenza, di obbligo di motivazione e di indicazione dell’autorità cui è possibile ricorrere) fungano da riferimento per il Governo nell’adozione dei decreti attuativi dell’articolo 5.

Per concludere, in base all’articolo 6 della legge 30/2003, “le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”.

L’articolo 8, “allo scopo di definire un sistema organico e coerente di tutela del lavoro”, detta le linee direttive del processo di razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di lavoro e previdenza sociale cui dovrà attenersi il Governo nell’emanazione dei decreti attuativi. La legge delega prevede, oltre al riassetto della disciplina in materia di ispezioni, anche la definizione di un quadro legislativo finalizzato alla prevenzione delle controversie individuali di lavoro in sede conciliativa, ed “ispirato a criteri di equità ed efficienza” (art. 8, comma 1).

Il secondo comma dell’articolo in esame detta i criteri direttivi di tale opera di razionalizzazione. Tra i principi enunciati emerge, in primo luogo, l’obiettivo di privilegiare l’attività preventiva rispetto a quella repressiva, in un ottica di promozione dell’osservanza degli obblighi dettati in materia.

La lettera a del secondo comma dell’articolo 8 prevede, infatti, che il sistema delle ispezioni sia improntato “alla prevenzione e promozione dell’osservanza della disciplina degli obblighi previdenziali, /…/, del trattamento economico e normativo minimo e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, anche valorizzando l’attività di consulenza degli ispettori nei confronti dei destinatari della citata disciplina”. L’accento viene, dunque, posto sull’attività di prevenzione, privilegiando, nell’ambito della funzione ispettiva, quella di consulenza rispetto a quella repressiva.

Viene, inoltre, prevista la “definizione di un raccordo efficace fra la funzione di ispezione del lavoro e quella di conciliazione delle controversie individuali” (art. 8, comma 2, lettera b), ma sul punto il legislatore non indica alcuna linea guida.

Sempre finalizzato alla prevenzione è la seconda tipologia di intervento proposta dal legislatore, che alla lettera c del secondo comma prescrive la “ridefinizione dell’istituto della prescrizione e diffida propri della direzione provinciale del lavoro”.

Per meglio intendere tale enunciazione, è opportuno osservare che entrambi gli istituti (prescrizione e diffida) si riferiscono allo stesso provvedimento. In base all’articolo 9 del Dpr 520/1955, infatti, in caso di inosservanza di leggi la cui applicazione sia affidata all’Ispettorato del lavoro (oggi Direzione Provinciale del Lavoro), questo ha la facoltà di “diffidare” con apposita “prescrizione” il datore di lavoro, fissando un termine per la regolarizzazione della situazione. La diffida costituisce, dunque, il contenuto del provvedimento, mentre la prescrizione ne è la forma giuridica, rappresentando lo strumento tramite il quale l’ispettore comunica al destinatario la diffida.

L’attività ispettiva che potrebbe, dunque, rientrare nella nuova forma di flessibilizzazione varata con la legge in esame dovrebbe riguardare, per quanto concerne la materia previdenziale: tutti gli illeciti dolosi e colposi di natura formale (ovvero, non consistenti nel mancato pagamento dei contributi, pur se finalizzati a tali illeciti). Per quanto concerne la disciplina del rapporto di lavoro: le varie forme di collocamento, orari di lavoro e riposi settimanali, contratti collettivi, tutela delle lavoratrici madri e dei minori, contratti a tempo parziale, appalti, lavoro interinale e contratti formativi. In questo modo, estendendo il più possibile il ricorso alla procedura diffidatoria, viene conseguentemente ridotta la necessità di interventi repressivi da parte degli ispettori.

La disciplina dettata dalla legge delega prevede, inoltre, la “semplificazione dei procedimenti sanzionatori amministrativi e possibilità di ricorrere alla direzione regionale del lavoro” avverso gli eventuali provvedimenti sanzionatori adottati (art. 8, comma 2, lett. d), nonché la “semplificazione della procedura per la soddisfazione dei crediti di lavoro correlata alla promozione di soluzioni conciliative in sede pubblica” (art. 8, comma 2, lett. e).

La lettera f del secondo comma, al fine di una riorganizzazione dell’attività ispettiva del ministero competente, prescrive l’istituzione di una direzione generale con compiti di coordinamento delle strutture periferiche del Ministero. In questo modo dovrebbe essere garantito un esercizio unitario della funzione ispettiva.

La lettera g delega, invece, la razionalizzazione degli interventi ispettivi di tutti gli organi di vigilanza, con attribuzione della direzione e del coordinamento operativo alle direzioni regionali e provinciali del lavoro sulla base delle direttive adottate dalla direzione generale di cui alla lettera f.

In base alle competenze legislative esclusive e concorrenti dettate a livello costituzionale e ribadite nella presente legge, dunque, l’attività ispettiva resterà, sia sotto il profilo organizzativo sia sotto quello funzionale, prerogativa dello Stato, il quale continuerà, dunque, ad esercitarla, dirigendo e coordinando i competenti organi locali.

Entro un anno dall’entrata in vigore degli emanadi decreti attuativi, inoltre, il Governo potrà emanare “eventuali disposizioni modificative e correttive /…/ attenendosi ai principi e ai criteri direttivi indicati al comma 2” (art. 7, comma 4 per l’istituto della certificazione; art. 8, comma 5 per la razionalizzazione delle funzioni ispettive).

Infine, l’articolo 7 dispone riguardo alle modalità e alla tempistica di esercizio della delega legislativa da parte del Governo per gli articoli da 1 a 5. Anche per l’attuazione dell’istituto della certificazione, dunque, gli schemi dei decreti legislativi saranno deliberati dal Consiglio dei ministri, sentite le associazioni sindacali più rappresentative dei datori e dei prestatori di lavoro. Gli schemi così deliberati saranno trasmessi alle Camere per l’espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti entro la scadenza del termine previsto per l’esercizio della relativa delega (che nel caso dell’art. 5 è stato fissato in un anno dalla data di entrata in vigore della legge delega). Qualora il termine decorra inutilmente, i decreti legislativi potranno essere comunque adottati.

Per quanto riguarda la razionalizzazione delle funzioni ispettive, invece, l’articolo 8 prevede che gli schemi dei decreti legislativi vengano direttamente trasmessi alle Camere per l’espressione del parere delle Commissioni parlamentari permanenti entro la scadenza del termine previsto per l’esercizio della delega (che anche nel caso dell’articolo 8 è stato fissato in un anno dalla data di entrata in vigore della legge delega). Le suddette Commissioni esprimeranno il parere entro trenta giorni dalla data di trasmissione. Qualora il termine decorra inutilmente, i decreti legislativi potranno essere comunque adottati (art. 8, commi 3 e 4).

Sia nel caso dell’articolo 5 (ex art. 7, comma 5), sia nel caso dell’articolo 8 (art. 8, comma 6) il legislatore ha previsto che dall’attuazione delle deleghe suddette non devono derivare oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato. Tale prescrizione getta un’ombra sulla effettiva realizzazione di tutte le riforme contenute nella legge delega di cui ci siamo in questa sede occupati (circolare n. 49, n. 50 e n. 51).

Nell’attuale fase di “delega legislativa”, comunque, risulta di fatto difficile formulare giudizi sulla concreta efficacia delle novità contenute nella legge 30/2003. Per una reale comprensione delle innovazioni proposte da tale riforma è, dunque, opportuno attendere di conoscere le scelte che verranno operate dal legislatore delegato ed i relativi decreti attuativi.

STUDIO LEGALE GGM

[Aprile 2003] - Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro

CONTRATTI A CAUSA MISTA, TIROCINI, CONTRATTI DI COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA, COLLABORAZIONE OCCASIONALE E NUOVE TIPOLOGIE CONTRATTUALI.

Nella precedente circolare n. 49, pubblicata sul sito “on line lex” il 28 marzo scorso, è stato sinteticamente illustrato il primo articolo della delega. In questa sede verranno proposti alcuni brevi spunti relativi ai soli temi sopra indicati, mentre le ulteriori novità contenute nel provvedimento in esame saranno trattate in una successiva circolare.

L’articolo 2 delinea novità rilevanti in materia di formazione, andando a modificare l’attuale disciplina dei contratti a causa mista (apprendistato e contratto di formazione e lavoro) e dei tirocini. La norma si muove, inoltre, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro e degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occupazione.

Sin dalla comparsa dei contratti di formazione e lavoro (legge n. 863/1984) si era prodotta una sovrapposizione tra questo strumento e quello dell’apprendistato per alcune fasce d’età. Tale sovrapposizione era cresciuta con l’emanazione della legge n. 196/1997, con la quale si ampliavano le possibilità di utilizzo dell’apprendistato.

Da ciò è derivata per il legislatore l’esigenza di assegnare diversi ambiti e finalità ai due istituti. In base ai criteri direttivi dettati dall’articolo 2 della legge delega l’apprendistato sarà lo strumento principale di raccordo tra scuola e lavoro, sia all’interno del processo di formazione scolastica, sia come primo ed immediato inserimento nell’attività lavorativa a conclusione e perfezionamento del suddetto processo.

Per quanto riguarda il raccordo con l’attività scolastica, la delega ribadisce alcuni obiettivi già contenuti nel Dpr. N. 257/2000, tra i quali quello di realizzare la formazione obbligatoria fino al diciottesimo anno di età anche attraverso lo strumento dell’apprendistato. Le conoscenze e competenze  in tal modo conseguite costituiscono crediti per l’accesso ai diversi anni dei corsi di istruzione secondaria superiore. L’attività di apprendistato rappresenta, dunque, una fase del processo di formazione, alternativo ed equipollente alla formazione svolta in aula.

I soggetti destinatari di tale istituto sono i giovani di età compresa tra i 16 ed i 24 anni, con estensione a 26 per le aree cosiddette svantaggiate (legge n. 196/1997, sopra citata). La durata dell’apprendistato è variabile (da non meno diciotto mesi a non più di quattro anni) e viene stabilita per le diverse categorie professionali dai contratti collettivi di lavoro.

Il contratto di formazione e lavoro sarà, invece, lo strumento prevalente attraverso il quale, conclusosi il processo scolastico, avverrà l’inserimento definitivo nel mondo del lavoro o il reinserimento dei lavoratori più adulti. Tale inserimento è dalla norma definito “mirato”, ovvero finalizzato all’adeguamento della professionalità posseduta dal lavoratore alle concrete esigenze dell’impresa che lo assume, e ciò attraverso interventi formativi predisposti dal datore di lavoro stesso.

I soggetti destinatari di tale istituto sono i giovani di età compresa tra i 15 ed i 32 anni, mentre i limiti di durata variano a seconda delle finalità specifiche che il rapporto vuole conseguire (professionalità elevate, intermedie, inserimento professionale), mai potendo comunque superare i ventiquattro mesi (legge n. 863/1984, sopra citata).

Gli obiettivi enunciati dalla legge delega relativi alle figure contrattuali a contenuto formativo (apprendistato  e contratto di formazione e lavoro) riguardano, oltre alla valorizzazione dell’attività formativa svolta in azienda, come abbiamo appena avuto modo di vedere, anche il riconoscimento di competenze autorizzatorie in capo agli Enti Bilaterali. Tali enti potranno, quindi, presentare progetti di formazione, nonché valutare (e validare) progetti presentati da altri soggetti (come, ad esempio, le imprese).

Ulteriore novità è costituita dalla semplificazione e snellimento delle procedure di riconoscimento e di attribuzione degli incentivi connessi ai contratti a contenuto formativo. Rispetto a tale novità, comunque, per meglio comprenderne la concreta applicazione, si dovrà attendere l’emanazione dei decreti attuativi.

Per quanto concerne l’istituto del tirocinio, già disciplinato dall’articolo 18 della già citata legge n. 196/1997, la legge delega non indica obiettivi precisi, se non l’impegno a favorire, e quindi a regolamentare, la presenza in azienda di giovani ancora coinvolti nel loro processo di formazione scolastica, o che ne sono appena usciti, e che sono interessati a conoscere la realtà lavorativa. La finalità del legislatore appare, al riguardo, solo quella di creare un collegamento con il Disegno di Legge Moratti (delega in materia di norme generali sull’istruzione), il quale prevede la possibilità di svolgere la formazione, dai 15 ai 18 anni, attraverso l’alternarsi di periodi di studio e cicli di lavoro.

L’articolo 3 della legge delega detta i criteri direttivi per promuovere il ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale. Alla luce, infatti, degli obiettivi in termini di incremento dei tassi occupazionali imposti dalle autorità comunitarie nell’ambito della cd. Strategia Europea per l’occupazione, la delega è orientata verso la concessione di un maggiore spazio all’autonomia negoziale, sia individuale che collettiva.

In tale ottica, il part – time è stato dal legislatore ritenuto una tipologia contrattuale particolarmente idonea a favorire l’incremento occupazionale, e, soprattutto, il tasso di partecipazione delle donne, dei giovani in cerca di prima occupazione, e dei lavoratori con età superiore ai 55 anni al mercato del lavoro (art. 3, comma 1).

I criteri direttivi dettati a tale fine prevedono l’agevolazione del ricorso a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di part – time sia orizzontale (nei casi e nei modi previsti dai contratti collettivi, o, in mancanza di questi, sulla base del consenso del lavoratore interessato), sia verticale o misto (a fronte di una maggiorazione retributiva da riconoscere al lavoratore) (art. 3, comma 2, lett. a, b).

Il rilancio di questa tipologia contrattuale passa, inoltre, attraverso “la previsione di norme, anche di natura previdenziale, che agevolino l’utilizzo dei contratti a tempo parziale da parte dei lavoratori anziani al fine di contribuire alla crescita dell’occupazione giovanile” (art. 3, comma 2, lett. d). Si tratta di una possibile e futura diminuzione degli oneri contributivi e previdenziali relativi alle ipotesi di part – time.

L’articolo 4, infine, oltre ad introdurre significative modifiche nella disciplina di  tipologie contrattuali già esistenti, interviene per dettarne e regolamentarne di nuove.

Per quanto riguarda il settore dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la legge delega, contrariamente alla sua ispirazione originaria orientata  verso l’introduzione di maggiore flessibilità, disciplina l’ingresso di una serie di obblighi e procedure nuovi.

I nuovi elementi dettati dal legislatore in proposito consistono, in primo luogo, nel requisito formale dell’atto scritto tra le parti, il quale deve necessariamente contenere la durata determinata, o comunque determinabile, del rapporto di collaborazione (perché legata, ad esempio, alla conclusione di un progetto); l’oggetto del contratto, anch’esso legato a uno o più progetti; l’indicazione del corrispettivo, che deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro (art. 4, comma 1, lett. c, n. 1).

In questo modo la fattispecie in esame viene normativamente ricondotta a uno o più progetti o programmi di lavoro, o fasi di esso. Tali elementi assumono, così, funzione caratterizzante ed individualizzante rispetto alle collaborazioni coordinate e continuative, distinguendole da altre ipotesi contrattuali (art. 4, comma 1, lett. c, n. 3).

In secondo luogo, si è prevista la costruzione di una griglia di protezione sociale, anche attraverso intese collettive, comprendente “tutele fondamentali a presidio della dignità e della sicurezza dei collaboratori, con particolare riferimento a maternità, malattia, infortunio, nonché alla sicurezza nei luoghi di lavoro” (art. 4, comma 1, lett. c, n. 4). E’ stata, inoltre, prevista la predisposizione di un adeguato sistema sanzionatorio nei casi di inosservanza delle disposizioni di legge (art. 4, comma 1, lett. c, n. 5).

Da tutti gli elementi normativi sopra indicati, introdotti dalla legge delega in materia di collaborazioni coordinate e continuative, emerge l’intenzione del legislatore di aggiungere nuovi tasselli alla disciplina attualmente vigente, in direzione di una minore flessibilità a fronte di maggiori tutele.

Il legislatore, inoltre, al fine di delineare in modo più netto i contorni di tale fattispecie contrattuale, ha fornito una definizione di lavoro occasionale, proprio per distinguerlo ulteriormente dalle collaborazioni coordinate e continuative. In base alle indicazioni fornite dalla legge delega, dovranno, quindi, considerarsi collaborazioni occasionali quelle in cui la durata del rapporto con lo stesso committente non si protrae per più di trenta giorni all’anno, “salvo che il compenso complessivo per la prestazione sia superiore a 5.000 euro” (art. 4, comma 1, lett. c, n. 2).

I criteri discriminanti tra le due ipotesi contrattuali sono stati individuati, dunque, nella estensione temporale (che non deve superare la soglia di trenta giorni l’anno con lo stesso committente) e nella misura del corrispettivo per la prestazione (che non deve sforare il limite di 5.000 euro all’anno).

L’enunciazione di tale principio, avente già forza e valore normativi, impone particolare attenzione nella fase di formalizzazione sia dei rapporti contrattuali, sia degli adempimenti fiscali (predisposizione delle fatture), onde evitare possibili contestazioni in ordine alla reale natura del rapporto da parte degli uffici competenti.

Per quanto riguarda le nuove figure lavorative previste dal provvedimento in esame, la prima tipologia introdotta dall’articolo 4 della legge delega è il cd. lavoro a chiamata, modello di rapporto di lavoro spesso utilizzato nel terziario e caratterizzato da prestazioni discontinue o a intermittenza.

Al riguardo, viene previsto il riconoscimento di una “congrua indennità ” a favore del lavoratore che garantisca al datore di lavoro la propria disponibilità ad effettuare prestazioni di tale genere, “così come individuate dai contratti collettivi /…/ o, in via provvisoriamente sostitutiva, per decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali” (art. 4, comma 1, lett. a).

La legge delega, infine, invita il legislatore delegato ad individuare forme di sperimentazione di tale tipologia di rapporto al fine di agevolare l’inserimento lavorativo di particolari categorie, quali i disoccupati di età inferiore ai 25 anni di età e i lavoratori con più di 45 anni iscritti nelle liste di mobilità e collocamento.

Altro modello contenuto nella legge 30/2003 è quello del lavoro a prestazioni ripartite (cd. job sharing). Tale istituto non è del tutto nuovo nel nostro ordinamento, essendo già stato regolamentato attraverso la circolare del Ministero del lavoro n. 43/1988. La sua scarsa diffusione ha indotto il legislatore delegante a prevederne una disciplina organica attraverso norme di legge ordinaria.

Al riguardo, quindi, è stata confermata dalla legge delega “l’ammissibilità di prestazioni ripartite tra due o più lavoratori, obbligati in solido nei confronti di un datore di lavoro, per l’esecuzione di un’unica prestazione lavorativa” (art. 4, comma 1, lett. e).

Per concludere, in base all’articolo 6 della legge 30/2003, “le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”.

Inoltre, l’articolo 7 dispone riguardo alle modalità e alla tempistica di esercizio della delega legislativa da parte del Governo. Gli schemi dei decreti legislativi saranno deliberati dal Consiglio dei ministri, sentite le associazioni sindacali più rappresentative dei datori e dei prestatori di lavoro. Gli schemi così deliberati saranno quindi trasmessi alle Camere per l’espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti entro la scadenza del termine previsto per l’esercizio della relativa delega. Nel caso dell’art. 2 è stato previsto il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge delega, mentre per gli articoli 3 e 4 il termine è di un anno. Il quinto comma di tale articolo, infine, dispone che “Dall’attuazione delle disposizioni degli articoli da 1 a 5 non devono derivare oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato”. Il che non depone bene per una rapida e concreta emanazione dei decreti delegati.

Per una reale comprensione delle riforme proposte dalla legge 30/2003 si dovrà, dunque, attendere di conoscere le scelte del legislatore delegato e i relativi decreti attuativi.

STUDIO LEGALE GGM

[Febbraio 2003] - Concorrenza sleale e patto di non concorrenza

La Sezione I della Corte di Cassazione è di recente tornata ad esprimersi sul delicato tema della concorrenza sleale e dell’uso di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale con la sentenza n. 14479 del 11 ottobre 2002.

Per meglio comprendere la portata ed il significato di tale decisione è opportuno, in primo luogo, muovere da un esame, seppur sintetico, delle modalità in cui libertà ed obblighi operano nei diversi ambiti economici. Concorrenza sleale e patti di non concorrenza verranno, dunque,  qui di seguito considerati quali fattori operanti nell’assetto del libero mercato (rapporti tra le imprese) e del lavoro subordinato.

Nel campo delle imprese, la libera concorrenza non è soltanto consentita, bensì auspicata e promossa, ed è dall’ordinamento difesa e tutelata. Tale tutela è confermata dai divieti sanciti dalla legge in tema di intese tra imprenditori finalizzate a restringere o a falsare la reale concorrenza, ovvero in tema di abuso di posizione dominante, o, ancora, in tema di ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento (articoli 2 e 3 della legge 287/90, “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) .

Quelle che la legge consente e tutela sono, tuttavia, solo le forme di concorrenza conformi ai principi di correttezza professionale. L’art. 2598 del Codice civile vieta, infatti, il compimento di atti di concorrenza cosiddetta sleale, quali l’utilizzo del nome o di altri segni distintivi propri dell’impresa altrui, ovvero la diffusione di notizie e apprezzamenti denigratori sui prodotti o sull’attività di un concorrente, o, ancora, l’appropriazione dei pregi di prodotti o di imprese concorrenti. Chiude la norma, infine, una previsione generale che sancisce l’illegittimità di ogni ulteriore e diversa modalità non conforme ai principi di correttezza professionale ed idonea a danneggiare l’altrui azienda.

Tra gli imprenditori è poi possibile pattuire vincoli più penetranti alla libera reciproca concorrenza prevista e tutelata dall’ordinamento. Seppur entro i limiti sanciti dalla normativa antitrust e dall’art. 2596 del Codice civile, alle previsioni di legge brevemente illustrate si aggiunge, in tal caso, la possibilità di prevedere un patto di non concorrenza. Tale patto non può tuttavia eccedere la durata di cinque anni (un accordo che prevedesse una durata superiore avrebbe comunque efficacia vincolante solo per il quinquennio consentito dalla legge). Il patto deve inoltre contenere limitazioni in ordine all’ambito territoriale di validità dello stesso, ovvero alla tipologia e ai contenuti dell’attività inibita (tali limiti sono previsti come alternativi tra loro). Non è richiesta la forma scritta ai fini della validità del patto tra le imprese (tale forma è, infatti, richiesta solo ad probationem), né è previsto un corrispettivo in favore dell’imprenditore obbligato.

Nell’ambito del lavoro subordinato, al contrario, vige un regime di divieto di concorrenza contenuto in tutti i contratti. L’obbligo in capo al lavoratore dipendente di non compiere atti di concorrenza ai danni del proprio datore di lavoro in costanza di rapporto discende direttamente dalla legge. L’art. 2105 del Codice civile vieta, infatti, al dipendente di “trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore”, di “divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Le attività vietate al lavoratore subordinato vanno ben oltre quelle qualificate come illecite dall’art. 2598 del Codice civile, brevemente esaminato a proposito delle imprese, fino a comprendere qualsiasi tipo di attività concorrenziale.

La ragione di un tale assetto sta nel fatto che il prestatore di lavoro, essendo inserito nell’organizzazione aziendale, sarebbe in grado di rendere la propria attività competitiva particolarmente insidiosa, proprio a causa della diretta conoscenza che egli ha del contesto e delle vicende dell’impresa.

Il divieto assoluto di concorrenza previsto dalla legge è, proprio per l’argomento sopra esposto, strettamente connesso alla sussistenza del rapporto di lavoro. Con il cessare di questo, quindi, il dipendente riacquista la libertà di svolgere qualunque attività, anche in concorrenza con quella svolta dal suo precedente datore di lavoro, salva la previsione di un patto di non concorrenza post-contrattuale.

L’art. 2125 del Codice civile disciplina infatti l’ipotesi in cui il datore di lavoro voglia tutelarsi anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, prevedendo la possibilità di stipulare con il lavoratore un apposito patto di non concorrenza, in forza del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di denaro al lavoratore e questi, a sua volta, si obbliga a non svolgere attività concorrenziale con quella del proprio datore una volta cessato il rapporto.

Il patto di non concorrenza può essere perfezionato sia all’atto della stipula del  contratto di lavoro, sia nel corso del rapporto, sia, infine, al momento della sua cessazione. Il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità, risultare da atto scritto (tale forma è qui prevista ad substantiam) e prevedere un corrispettivo in favore del lavoratore (nell’ipotesi in cui il corrispettivo sia irrisorio o troppo modesto rispetto al sacrificio imposto al lavoratore il patto sarà comunque nullo). Devono, inoltre, sempre a pena di nullità, essere indicati limiti di oggetto, di tempo e di luogo, previsti non come alternativi tra loro. La durata massima del patto di non concorrenza è stabilita dalla legge in cinque anni per i dirigenti ed in tre per gli altri prestatori di lavoro (quadri, impiegati e operai). Nel caso in cui venga pattuita una durata maggiore, o non sia stabilita affatto, questa si intende fissata nella misura prevista dalla legge.

In sintesi, dunque:

imprese  –       libera concorrenza è sempre promossa e tutelata, purché sia conforme

ai principi di correttezza professionale.

Quindi c’è piena libertà salvo che si configurino ipotesi di concorrenza sleale, vietata dall’art.2598 c.c e salvo eventuale patto di non concorrenza (patto negoziale di  limitazione della concorrenza, disciplinato dall’art. 2596 c. c.);

lavoro subordinato   durante rapporto = vincoli (obblighi di fedeltà ex art. 2105 c.c.);

dopo scioglimento = libertà, salvo eventuale patto di non      concorrenza disciplinato dall’art. 2125  c.c.

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. I, n. 14479 del 11/10/2002, dalla quale siamo  partiti per questo breve excursus sulle libertà e sui divieti in tema di concorrenza,

ha affrontato la questione della configurabilità di un’ipotesi di concorrenza parassitaria (2598 n.3, c.c.) in capo al datore di lavoro che si avvalga di un ex dipendente di altra impresa concorrente.  Il caso in esame riguarda, dunque, l’utilizzazione da parte del prestatore di lavoro della professionalità acquisita alle dipendenze del precedente datore di lavoro e la eventualità che ciò configuri un’ipotesi di concorrenza parassitaria del nuovo datore di lavoro concorrente. La Suprema Corte fa comunque salva la possibilità, da parte del dipendente, di spendere quel valore aziendale unicamente costituito dalle proprie capacità professionali, e non distinguibili dalla sua persona.

Il punto è quindi quello di individuare l’ambito di liceità all’interno del quale può legittimamente operarsi in regime di libera concorrenza (ambito in cui varranno le regole della correttezza professionale e del buon costume commerciale), la cui linea di confine può essere individuata nel divieto, che deriva direttamente dalla legge (art. 2598 n. 3 c.c.), di compiere atti volti a sviare a proprio vantaggio i valori aziendali di altre imprese operanti nello stesso settore (c. d. concorrenza parassitaria).

Al riguardo, la Suprema Corte ha ritenuto, con la sentenza ancora oggi non pubblicata, che “non può considerarsi illecita l’utilizzazione del valore aziendale esclusivamente costituito dalle capacità professionali dello stesso ex dipendente, non distinguibili dalla sua persona, poiché si perverrebbe altrimenti al risultato, duplicemente inammissibile, di vanificare i valori della libertà individuale inerenti alla personalità del lavoratore, costringendolo ad una situazione di dipendenza che andrebbe oltre i limiti contrattuali, e di privilegiare nell’impresa, precedente datrice di lavoro, una rendita parassitaria derivante, una volta per tutte, della scelta felicemente a suo tempo fatta con l’assunzione di quel dipendente”.

In questo modo la Cassazione, seppur ricorrendo a concetti di non facile ed immediata individuazione, quale quello delle “capacità professionali non distinguibili dalla persona”, sembra aver confermato precedenti orientamenti giurisprudenziali in tema. Parrebbe così recepito l’orientamento decisamente cauto ed equilibrato, in base al quale “/…/ la tutela dell’imprenditore /…/ non può giungere ad impedire o limitare la facoltà di sfruttamento da parte dell’ex dipendente o collaboratore delle conoscenze acquisite nella propria pregressa esperienza lavorativa, o la libertà di avvalersi della propria capacità tecnica, pur se acquisita nell’esplicazione di mansioni alle quali esso era addetto nell’impresa” (Trib. Verona, 23/07/1998); e, per quanto riguarda la posizione del prestatore di lavoro, “non compie un atto di concorrenza sleale l’ex dipendente che, compatibilmente con la tutela dei segreti aziendali, utilizzi a proprio profitto il bagaglio di esperienze e cognizioni acquisite presso altri, comprese quelle attinenti il mercato e il rapporto con la clientela” (Trib. Cagliari, 21/11/1994).

STUDIO LEGALE GGM

[Gennaio 2003] - Crediti di lavoro nei rapporti di lavoro privati

Sull’argomento della cumulabilità tra rivalutazione e interessi per i crediti di lavoro dei dipendenti di datori di lavoro privati, già da noi trattato nella circolare n.25 del maggio 2001, la Sezione Lavoro della Cassazione di recente è tornata ad esprimersi con la sentenza n.14143 del 2 ottobre 2002.
La Suprema Corte, infatti, sulla scia dell’ormai nota pronuncia della Corte Costituzionale n.459 del 2000 con cui quest’ultima ha stabilito che il divieto di cumulo tra rivalutazione del capitale ed interessi scaduti, sancito dall’art.22, comma 36° della Legge n.724/1994, si applica solo ai crediti previdenziali, assistenziali e a quelli dei dipendenti pubblici (anche se di enti privatizzati), ha confermato che il criterio di liquidazione che il Giudice del Lavoro deve utilizzare “quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro” (art.429 c.p.c.) è quello che prevede il calcolo degli interessi sul capitale di volta in volta rivalutato secondo “l’indice dei prezzi calcolato dall’ISTAT per la scala mobile per i lavoratori dell’industria” (art.150 disp. att. c.p.c.), a partire dalla data di scadenza dei singoli crediti fino al momento del loro soddisfacimento.
Per la liquidazione di tali crediti, quindi, i Giudici dovranno utilizzare le seguenti modalità: a partire dalla data di scadenza del credito di lavoro non corrisposto, il capitale originariamente dovuto dovrà essere rivalutato gradualmente sulla base dei coefficienti ISTAT e su tale importo dovranno essere calcolati gli interessi nella misura prevista annualmente ex lege e così di volta in volta fino al momento dell’effettivo soddisfacimento del lavoratore.

In questo modo la Cassazione sembra aver definitivamente chiarito i dubbi in merito al criterio da adottare nei casi di inadempimento dei datori di lavoro privati, riducendo la possibilità di interpretare diversamente il disposto del terzo comma dell’art.429 c.p.c.
La Cassazione esclude quindi tra i criteri di computo sia quello che prevedeva la liquidazione degli interessi sull’intero capitale rivalutato analogamente a quanto praticato per il danno aquiliano sia quello che prevedeva il calcolo degli interessi sul solo importo originario del credito scaduto senza tener conto in alcun modo della rivalutazione.

La soluzione scelta dalla Cassazione è infatti la più equilibrata in quanto da un lato la rivalutazione ex art.429 c.p.c., mediante il meccanismo della indicizzazione del credito, tende ad annullare la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardivamente (danno emergente), mentre gli interessi liquidati in misura forfettaria sono diretti a risarcire il creditore dal mancato vantaggio della liquidità (lucro cessante).
Si tratta anche di una soluzione che non comporta un eccesso di tutela del lavoratore in quanto la ratio ispiratrice dell’art.429 c.p.c. non è quella di imporre al debitore un aggravio aggiuntivo rispetto a quello risarcitorio, bensì è quella di dissuadere il datore di lavoro dalla mora debendi e dalla speranza  di investire la somma dovuta e non ancora pagata al lavoratore in altre attività commerciali e finanziarie più lucrose.

Lo studio è a disposizione per ogni eventuale ed ulteriore chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM

[Dicembre 2002] - Il consenso informato all’atto medico: considerazioni generali

Relazione tenuta al Convegno “ Il rischio clinico e l’informazione al paziente”, svoltosi a Milano, il 29 novembre 2002, Centro Congressi Stelline.

Nell’ambito medico, una delle problematiche più delicate è quella concernente i limiti dell’attività medico-chirurgica e l’individuazione delle fonti normative idonee a consentire che un soggetto, sia pure qualificato come il medico, possa intervenire nell’ambito dell’integrità fisica o, più genericamente della salute, di un altro soggetto.

RIFERIMENTI NORMATIVI

L’art. 32 della Costituzione prevede che la Repubblica tuteli la salute come fondamentale diritto dell’individuo: il principio generale che ne scaturisce è quella dell’intangibilità, da parte della collettività, della salute come bene individuale.

Al di fuori dei casi previsti dalla legge, nessuno può effettuare un trattamento sanitario senza che il paziente abbia prestato il proprio consenso.

In via esemplificativa è sufficiente ricordare il caso di una vaccinazione obbligatoria cui, per questioni di salute pubblica, il cittadino non possa sottrarsi [1] .

Il consenso è quindi quel requisito il quale deve precedere l’attuazione di un qualsiasi programma terapeutico ed al tempo stesso un limite oltre il quale nessun intervento chirurgico, né trattamento sanitario in genere, possano essere considerati legittimi, neppure se attuati nello specifico ed esclusivo interesse del paziente.

Sempre l’articolo 32 della Costituzione prevede che nessuno possa essere sottoposto ad un trattamento medico-chirurgico contro la propria volontà, salvo diverse disposizioni di legge. Il principio è quello del rispetto della persona umana, attraverso il quale l’individuo viene pertanto lasciato libero di autodeterminarsi.

In questa dicotomia tra diritto dell’individuo e diritto della collettività si è sviluppato in Italia il tema del consenso informato, e cioè “della possibilità per il paziente di decidere in modo libero e consapevole sulla propria persona” [2] .

Il principio dell’autodeterminazione del paziente è anche espressione di un principio più generale, enunciato all’art. 13 Cost. nel quale viene sancito che la libertà personale sia inviolabile, con particolare riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica.

L’aspetto che qui occorre mettere in luce è quello della libertà relativamente alle proprie scelte e quindi anche liberà di non subire atti e provvedimenti imposti non giustificati.

L’autonomia con cui il paziente esercita il proprio diritto alla salute permette inoltre di superare i confini descritti dall’art.5 c.c. secondo cui non potranno mai essere permessi atti di disposizione del proprio corpo che possano in qualche modo cagionare una diminuzione permanente della sua integrità.

Da ciò consegue che, nel caso di idonea informazione circa la necessità di un trattamento terapeutico finalizzato alla tutela del bene vita, il consenso da parte del paziente ben potrà legittimare atti di disposizione del proprio corpo idonei a determinare una diminuzione permanente della sua integrità.

Il consenso informato è stato “normativizzato” nel nuovo codice deontologico adottato nel 1995, poi modificato nel 1998.

L’esigenza di “codificazione” del consenso informato veniva avvertita dalla stessa categoria medica, la quale conscia dell’importanza della relazione medico-paziente, confermava che “il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura ed emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia, nella cosapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche, anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche”(in tal senso art.30 Codice Deontologico).

Ma ad una informazione “idonea” deve comunque seguire un consenso, il cui ottenimento da parte del paziente non può prescindere da una corretta e completa attività informativa (il tal senso art.32 Codice Deontologico).

L’articolo 32 del Codice Deontologico. prevede inoltre, in presenza di esplicito rifiuto da parte del paziente capace di intendere e volere, che il medico debba desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ad eccezione di casi specifici di cui si tratterà in seguito.

EVOLUZIONI GIURISPRUDENZIALI

Nel contesto italiano, soprattutto nell’ultimo decennio, il tema del consenso informato ha avuto un rilevante sviluppo.

Prima della fine degli anni sessanta la problematica del consenso all’atto medico era stata approfondita solo da una minoranza della dottrina [3] .

Il principio del consenso all’atto medico infatti, è stato per parecchi anni un concetto più teorico che pratico e, benché vi fosse una marcata attenzione volta alla regolamentazione etico-giuridica dell’attività medica, le chiavi di lettura della stessa si limitavano a regole e riferimenti morali.

Nel 1967 però, la Corte di Cassazione con la sentenza n.1950 del 25 luglio introduce per la prima volta il concetto della necessità non solo di un consenso ma di un CONSENSO VALIDO (“…il medico nell’esercizio della professione sanitaria non può, senza un valido consenso del paziente, sottoporre costui ad alcun trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e l’incolumità fisica…”).
Ed ancora nel 1975, con la sentenza n. 2439 del 18 giugno la Corte di Cassazione afferma la necessità, per il medico, di rendere edotto il paziente affinché questi possa dare un consenso valido e quindi consapevole (“il medico il quale intenda eseguire sul corpo del paziente l’intervento rischioso tale da porre in serio pericolo la vita e l’incolumità fisica, ha il dovere professionale di renderlo di ciò edotto affinché questi possa validamente, cioè consapevolmente, prestare assenso al trattamento propostogli…”).

Caratteristica comune ad entrambe le sentenze sopraccitate risulta essere quella del riconoscimento del cosiddetto diritto all’informazione, ovvero l’essere edotti per meglio valutare e comprendere il trattamento medico: benché detto diritto risultava ancora limitato ai casi cosiddetti gravi, queste pronunce aprivano una strada alla dottrina ed ai relativi approfondimenti, sulla base del modello anglosassone ed in particolare quello statunitense [4] .

Con la sentenza n. 4394 del 1985 la Corte di Cassazione sancisce la necessità, di  una corretta informazione gravante sul medico, (in questo caso chirurgo estetico), il cui dovere d’informazione deve necessariamente avere un contenuto più ampio rispetto a quello allora concepito (“…ove, quindi, il chirurgo non abbia correttamente informato il paziente in modo chiaro e certo sull’effettivo risultato dell’intervento si prospetta…una responsabilità dell’operatore per i danni patiti dall’assistito…”).

Gli anni novanta infine, hanno definitivamente sancito il radicarsi, sia nella letteratura giuridica che nella stessa giurisprudenza, della necessità di un consenso al trattamento medico: oggi assume grande importanza il rapporto personale che si instaura, o che dovrebbe instaurarsi, tra paziente e medico ed in questa direzione, specie nell’ultimo quinquennio si è mossa la giurisprudenza, ritenendo essenziale la partecipazione critica del paziente alla decisione medica su ogni attività terapeutica possibile o comunque attuabile.

Già a far data dal 1990 la Corte d’Assise di I grado di Firenze con la sentenza n.13 stabiliva che il medico dovesse attenersi alla volontà del paziente poiché “la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto”.

Ed a conferma del sopracitato principio, il 21 aprile 1992 la Corte di Cassazione, sezione V, con la sentenza n.699, affermava che soltanto il CONSENSO, manifestazione della volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto l’antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo: il consenso informato si stava trasformando in un requisito etico centrale della relazione medico-paziente, sempre più riconosciuto e dato per acquisito anche nel contesto italiano.

Quello che rileva, ai fini di un consenso validamente prestato, è un’adesione volontaria dell’ammalato alle cure proposte, previa informazione circa i costi ed i benefici del trattamento sanitario. E’ la Corte di Cassazione stessa a compiere questi  ulteriori passi finalizzati a connotare il diritto alla salute ed alla autodeterminazione del paziente: punto di partenza delle recenti pronunce è il riconoscimento, negli artt. 13 e 32 Cost., dei fondamenti del consenso al trattamento medico.

Nella sentenza n.10014 del 25 novembre 1994 la Suprema Corte infatti afferma chiaramente che la necessità del consenso si evince in generale dall’art.13 della Costituzione, pertanto il medico che agisca senza il consenso del paziente pienamente informato lede, prima ancora del diritto alla salute, la stessa AUTODETERMINAZIONE del paziente e perciò la sua libertà personale. Viene inoltre specificata la necessità, da parte del medico, di procedere, nei confronti del paziente, ad un’adeguata, opportuna ed esaustiva informazione sugli aspetti relativi al trattamento sanitario prospettato, ivi comprese anche le ipotesi e le conseguenze negative.

Anche la successiva sentenza della Corte del 15 gennaio 1997, n.364 giunge alle medesime conclusioni, che hanno, come punto di partenza, il principio che qualunque esecuzione di terapie o di interventi, in qualche modo capaci di portare gravi lesioni all’integrità fisica del paziente, presuppongano che lo stesso venga diligentemente reso edotto di tutti i pericoli che sono insiti in quella specifica terapia od atto operatorio, anche in relazione ad eventuali tecniche operative egualmente utilizzabili.

Nella fattispecie, nel corso di un intervento chirurgico effettuato in un ospedale civico nell’anno 1979, un paziente veniva sottoposto ad anestesia mediante la pratica di una puntura lombare, dalla quale poi gli derivava una invalidità permanente totale. Se da un lato era evidente che l’intervento richiesto e per il quale il paziente aveva prestato il proprio consenso non poteva prescindere dalla preventiva pratica dell’anestesia, dall’altro non altrettanta evidenza risultava dell’avvenuta spiegazione al paziente sulla particolare metodologia che si era intenzionati ad utilizzare mediante la pratica di una cosiddetta iniezione lombare, notoriamente recante un rischio specifico.

Per questo motivo è stato ritenuto dalla Corte che l’anestesia epidurale comporti una “fine tecnica anestesiologica, mentre la ricerca dello spazio peridurale può risultare in alcuni casi particolarmente laboriosa, con possibilità, anche, di penetrazione nello spazio sottoaracnoideo” così da esporre il paziente a rischi dei quali non era a conoscenza.

Detti concetti sono infine stati ribaditi ed ampliati, dalla Suprema Corte nelle sentenze n. 3599 del 18 aprile 1997 e n. 9705 del 6 ottobre 1997, prevedendo l’obbligo d’informazione, in capo al medico, anche per i rischi specifici delle singole fasi del trattamento sanitario: il medico deve pertanto informare il paziente anche circa l’esito delle indagini (ad es. ecografia), circa i rischi potenziali ed infine, circa i rischi prevedibili di complicanze in sede postoperatoria.

NATURA DEL CONSENSO INFORMATO

L’espressione “consenso informato” , che a prima vista potrebbe apparire, come alcuni autori sottolineano, apparentemente raddoppiativa [5] (giacché il consenso non informato è un non senso giuridico) ha la finalità di porre l’accento sulla cosiddetta “asimmetria informativa” [6] che inevitabilmente caratterizza certe relazioni, tra cui quella medico-paziente.

Il problema, che si riflette immediatamente sulla qualificazione giuridica del consenso, è se l’interesse che l’obbligo di informazione mira a soddisfare sia quello volto a superare le asimmetrie informative tra medico e paziente, ovvero se non si inserisca nella “procedimentalizzazione necessaria a dar corpo ai principi che presiedono la legittimità di trattamenti ed operazioni” [7] .

Ed è proprio per cercare di arginare detta asimmetria che l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale ha permesso al consenso informato di inserirsi quale condizione di legittimità dell’atto medico.

Pertanto il consenso dovrà essere inteso non come una causa di giustificazione dell’atto medico [8] , ma come quell’atto di autorizzazione a porre in essere quel trattamento sul proprio corpo, espressione del più generale diritto all’autodeterminazione che si traduce in un coinvolgimento del paziente nelle scelte relative alla propria salute.

Infatti, come il soggetto bisognoso di cure può rifiutare il trattamento medico, così può acconsentirvi: in tale caso, il consenso informato, validamente espresso dal paziente, costituisce una fondamentale condizione di legittimità dell’atto medico, da cui non si può prescindere.

Si può perciò affermare che un consenso informato possa essere considerato valido quando sia prestato da persona adulta, capace di intendere e volere.

Ed il primo requisito per un paziente maggiorenne e capace di intendere e volere, espressione della autodeterminazione terapeutica sopraccitata, è quello di un consenso esplicito prestato personalmente.

Pertanto in tutti quei casi in cui il paziente sarà in grado di esprimere la propria volontà, il consenso, per poter legittimare il trattamento terapeutico, dovrà essere manifestato in modo espresso, con riferimento ad atti medici specifici e determinati.

Nel caso in cui il paziente versi in condizioni di incapacità momentanea (ad esempio nel corso di un intervento chirurgico) e non ricorra una condizione di emergenza che renda improcrastinabile l’atto medico, il sanitario dovrà attendere che il paziente sia di nuovo in grado di esprimere la propria volontà [9] .

Per quanto attiene alla validità del consenso ed alla adeguata e puntuale informazione occorre sottolineare che non è richiesta, salvo rare eccezioni [10] , una forma ad substantiam: è pertanto sufficiente in linea teorica che sia l’informazione che il consenso venga prestato oralmente, purché in modo non equivoco. L’esecuzione della puntuale ed adeguata informazione e la prestazione del proprio consenso in forma orale appaiono tuttavia certamente sconsigliabili in considerazione della obiettiva difficoltà di provare l’esecuzione di tali adempimenti nell’ipotesi, oggi tutt’altro che rara, di successiva contestazione da parte dei pazienti.

Si è quindi opportunamente instaurata la prassi di far sottoscrivere al paziente un documento da cui risulti l’accettazione dell’atto medico: prassi di per sé sicuramente condivisibile anche se troppo spesso effettuata al solo scopo di garantire il medico provando la liceità del suo operato piuttosto che assicurare l’effettività dell’idonea informazione del paziente al trattamento.

OGGETTO DEL CONSENSO

L’oggetto del consenso informato è il trattamento medico.

Occorre innanzitutto rilevare che negli ultimi anni la ricerca giurisprudenziale ha profondamente innovato il rapporto medico-paziente, e il contenuto del consenso informato è divenuto un requisito fondamentale che può legittimare l’atto medico quando venga prestato da un paziente informato.

In particolare la concezione del consenso come consapevolezza da parte del paziente di subire l’attività del medico, ha lasciato spazio all’orientamento che ritiene che l’adeguata informazione del paziente costituisca il presupposto necessario per un valido consenso e che, in linea di principio, il consenso informato sia richiesto per qualunque atto medico.

Il consenso inoltre, per essere validamente prestato da parte del paziente e quindi IDONEO, dovrà essere specifico, occorrerà cioè che il paziente riceva una specifica informazione su quanto gli verrà praticato e ciò dovrà pervenirgli dallo stesso sanitario cui è richiesta la prestazione professionale.

Da parte sua il sanitario ha un preciso obbligo, quello di adoperarsi nella fase informativa con BUONA FEDE. Più precisamente, muovendo dal rilievo che tra medico e paziente intercorre un contratto di opera professionale, si è osservato che sul medico grava il dovere di informare la controparte delle circostanze rilevanti dell’atto curativo, “quale tipica espressione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella trattativa pre-contrattuale” così infatti dispone l’art 1337 c.c.

La Corte di Cassazione [11] ha poi chiarito cosa debba intendersi, nel caso specifico, per buona fede, asserendo che, negli interventi chirurgici, il dovere d’informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà che potranno essere incontrate nel corso della esecuzione dello stesso, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi; tutto ciò al fine preciso di porre il paziente nelle migliori condizioni per una libera decisione circa l’opportunità di sottoporsi all’operazione prospettatagli.

Tale obbligo informativo sarà altresì esteso anche ai rischi prevedibili, ma non anche ai possibili esiti anormali, al limite del fortuito e sarà poi il medico interessato che dovrà contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima possibilità, rinunci a sottoporsi anche ad interventi tra i più banali.

L’informazione per essere completa ed esaustiva dovrà evidenziare tutti quei rischi specifici che si presentano ogni volta si possa scegliere tra comportamenti alternativi, e dovrà altresì essere dal sanitario fornita in modo tale che il paziente sia posto in grado di effettuare la propria scelta con una cosciente valutazione dei rischi e dei corrispondenti vantaggi.

Occorrerà però secondo parte della dottrina contemperare i precedenti doveri in relazione al parametro (relativo) del bisogno di conoscenza espresso dal paziente in concreto, in vista della sua libera decisione di sottoporsi al trattamento medico [12] .

La dottrina è in tal proposito concorde nel ritenere che il medico sarà tenuto a fornire quel complesso di informazioni adeguate al livello culturale del paziente, necessarie affinché questi possa comprendere la situazione clinica e decidere consapevolmente, tenendo conto delle probabilità di successo della terapia, dei suoi coefficienti di rischio, delle terapie alternative, dell’invasività dell’intervento prospettato, del livello presumibile di sofferenza. Il livello d’informazione sarà quindi diverso a seconda che il paziente sia anch’esso un medico, un soggetto con scarse conoscenze mediche, ovvero un soggetto fortemente emotivo.

Ma se quanto appena sopra prospettato ha un fondamento logico-giuridico, innegabili appaiono, nella prassi, le obiettive difficoltà di un completo adeguamento da parte dei sanitari agli indicati principi e ciò in considerazione dell’innegabile necessità di standardizzare il più possibile i processi d’informazione e di raccolta del consenso.

Per contro certamente condivisibile è da ritenersi l’orientamento che ritiene che la completezza dell’informazione debba crescere in proporzione all’importanza dei beni coinvolti e dei coefficienti di rischio dell’atto medico [13] .

Un ulteriore elemento che deve contraddistinguere l’informazione prestata dal medico al paziente è quello della verità in relazione alla diagnosi ed alla prognosi che dovranno essere a quest’ultimo prospettate con realismo, ma non tale da sconvolgere e/o scoraggiare il paziente.

Da un lato vi sono principi legali e deontologici da rispettare quali l’obbligo di dire la verità e di fornire informazioni veritiere dall’altro quello di prevedere ed evitare sconvolgimenti emotivi che possano alterare oltre misura l’equilibrio psicologico del paziente.

Il medico infatti dovrà essere tenuto al rispetto di determinate modalità, idonee ad assicurare una decisione del paziente serena, poiché è assolutamente pacifico che un’informazione ed un consenso prestati in un frangente in cui il paziente versi in una condizione di notevole sofferenza avrebbero un significato obiettivamente relativo.

CASI PARTICOLARI RELATIVI ALLA VALIDITA’ DEL CONSENSO

Si è in precedenza affermato che un consenso informato possa essere considerato valido quando sia prestato da persona adulta, capace di intendere e volere.

Può accadere però che il soggetto giuridicamente capace di agire versi in condizioni psico-fisiche disagevoli, ad esempio a causa della malattia da cui è afflitto o a causa dei farmaci a lui somministrati, nel qual caso la validità del consenso sarà direttamente proporzionale alla capacità reale del paziente.

La soluzione prospettata dalla dottrina propende per una cosiddetta “valutazione in concreto”. Pertanto finché le capacità residue del paziente consentiranno l’effettuazione di una scelta terapeutica libera e consapevole, l’operato del medico sarà subordinato alle determinazioni del paziente, previo assolvimento da parte del medico dei doveri informativi necessari.

Ove invece il soggetto non sia in grado di effettuare una scelta terapeutica consapevole, e risulti indifferibile il trattamento medico, l’attività del sanitario prescinderà dal consenso informato, trovando legittimazione nei principi costituzionali di cosiddetta ispirazione solidaristica (tra cui l’art.2 costituzione).

1.                 Il primo caso particolare concerne l’ipotesi di un paziente che versi in condizioni di sofferenza tali da far attenuare o addirittura scemare la capacità di autodeterminazione terapeutica: in tale caso, tenendo conto della notevole sofferenza del malato, sarà sufficiente che il paziente acconsenta all’intervento terapeutico, requisito che può, nel caso di specie, ricavarsi già dal fatto di essersi recato SPONTANEAMENTE dal medico o dall’avere richiesto il suo intervento.

Spetterà quindi al sanitario, in mancanza di scelta terapeutica da parte del paziente, il compito di prendere la decisione circa la terapia da effettuare, mantenendo come fine precipuo quello della conservazione del bene vita a discapito di scelte meno dolorose ma più rischiose.

E’ proprio questo l’ambito applicativo in cui l’attività medica trova il suo fondamento, quello cioè della tutela della salute e, più in generale della vita umana.

Pertanto quando il medico debba agire per salvare il paziente che non possa prestare alcun valido consenso, dal pericolo attuale di un grave danno alla persona (art.54 c.p.) sarà esentato dall’obbligo informativo e dal connesso e successivo consenso.

Diversamente, nel caso in cui la sofferenza non sia tale da far diminuire in capo al paziente le facoltà di discernimento, il medico dovrà prestare l’attività d’informazione ed ottenere il consenso.

2.                 Vi è poi l’ipotesi della persona incapace interdetta, che trova la propria regolamentazione all’art. 424 del codice civile, ove è previsto che al soggetto interdetto per abituale infermità mentale provvede il tutore.

I confini assolutamente rigidi entro i quali viene connotata la delicata tematica relativa al malato mentale vanno altresì attenuati con quanto opportunamente previsto dal codice di deontologia medica dove, parallelamente alla disposizione del codice civile, si evidenzia al comma 3 dell’art. 34 che in capo al medico permane un obbligo di informazione nel confronti del paziente, sia esso infermo di mente.

In questo modo vengono maggiormente tutelati i diritti dell’incapace-persona, della cui volontà il medico dovrà tenere conto compatibilmente con la capacità di comprensione dello stesso.

3.                 Diametralmente opposta appare la fattispecie della persona incapace non interdetta, poiché la normativa non tiene conto della effettiva situazione di incapacità in cui versa il paziente.

La legge n.833 del 1978 infatti, porta ad equiparare, in tema di consenso all’atto medico, il malato mentale alla stessa stregua di un qualsiasi altro paziente.

In tale ipotesi il consenso informato del paziente quale atto di autorizzazione a porre in essere un determinato trattamento sul proprio corpo, espressione del più generale diritto all’autodeterminazione, risulterebbe inevitabilmente compromesso: verrebbe così a mancare il presupposto fondamentale, quello della capacità mentale.

Cercando di arginare la carenza normativa del caso di specie, la dottrina propende per la necessità del consenso informato nella misura in cui il paziente sia in grado di autodeterminarsi.

4.                 La fattispecie relativa alla capacità ed alla conseguente validità del consenso che ha maggiormente catalizzato la dottrina è quella concernente la legittimità dell’atto medico quando ha come destinatario un minore.

Il dati normativi da cui bisogna partire sono gli artt. 2 e 316 del codice civile dove stante l’incapacità del soggetto minore, il consenso informato dovrà essere espresso dal legale rappresentante, cui dovrà essere indirizzata l’attività medica informativa necessaria.

Il problema relativo al caso di specie si presenta in sede di determinazione dei limiti entro i quali il consenso del legale rappresentante può esprimersi, dato che risulterebbe alquanto problematico stabilire (ad esempio in caso di intervento che incida in maniera irreversibile su un diritto personalissimo, quale la sterilizzazione), se sia sufficiente il consenso dei genitori.

Alcuni autori evidenziano come l’istituto della rappresentanza legale del minore non trasferisca in capo al rappresentante l’incondizionato potere di disporre della salute del minore dato che la disponibilità della propria salute è un diritto personalissimo sul quale “gravano vincoli pubblicistici di indisponibilità, che valgono anche per il suo rappresentante legale” [14] .

Per questa ragione si registrano crescenti orientamenti volti ad una riqualificazione della condizione dei minori, tesa a valorizzarne l’autonomia e la consapevolezza: la condizione di incapace propria del minore non impedisce allo stesso di valorizzarne la naturale attitudine a gestire i propri rapporti personali.

Conformemente ai predetti orientamenti dottrinali, si è espressa la Convenzione Europea di Bioetica che all’art.6 recita testualmente “l’opinione del minore d’età dovrà essere tenuta in considerazione come un fattore sempre più determinante in proporzione alla età dello stesso ed al suo grado di maturità”.

E nella medesima direzione di pone il codice deontologico quando prevede che, anche nei confronti del minore, il medico informi il paziente e tenga conto della sua volontà sia pure nei limiti delle reali capacità del minore e sempre nel rispetto dei diritti del suo legale rappresentante.

Al legale rappresentante spetterà pertanto il compito di valutare il migliore interesse terapeutico nei confronti del minore, purché non incida pregiudizievolmente sul bene salute.

Nel qual caso, unitamente all’ipotesi in cui l’atto medico risulti necessario ed indifferibile per evitare un grave danno alla salute del minore, l’eventuale volontà contraria del legale rappresentante così come quella del minore saranno irrilevanti, prevalendo nel caso si specie il principio solidaristico che anima l’atto medico, ed il sanitario potrà intervenire al fine di evitare un grave rischio per la salute del paziente.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI ATTUALI

Negli ultimi anni la materia dei trattamenti sanitari e il relativo consenso informato all’atto medico è stato uno dei settori dove, in crescente misura, si sono concentrate le attenzioni e le riflessioni degli studiosi.

L’interesse, intorno al tema, è sicuramente frutto dell’intensa elaborazione giurisprudenziale, sia di merito che di legittimità, che viene ormai frequentemente investita di domande risarcitorie nei confronti degli operatori sanitari.

I fattori che hanno storicamente inciso sul tema sono di natura sociale e culturale. Infatti, il progresso medico e scientifico ha l’effetto di aumentare le aspettative da parte dei cittadini/pazienti che guardano all’atto medico con una sempre minore propensione ad accettare i margini di incertezza ad essa connessi.

Le decisioni del Supremo Collegio, confermano la tendenza piú rigida che la giurisprudenza, ormai da qualche anno, sembra aver assunto nel valutare la condotta professionale del medico, in particolare, nella sentenza n.364 del 15/01/1997 la Suprema Corte di Cassazione, condanna una struttura ospedaliera per violazione da parte di un medico, suo dipendente, del dovere di informare il paziente sui rischi inerenti ad un intervento.

L’interesse e, forse anche, la novità della decisione risiedono in ciò, che la Corte stabilisce, nei trattamenti chirurgici particolarmente articolati e complessi, che vengono condotti in équipe, l’obbligo di informazione, necessario per la validità del consenso del paziente, deve essere rispettato anche in relazione al singolo intervento e deve comprendere, laddove questo presenti un’autonomia gestionale e si possa scegliere tra una rosa di soluzioni alternative, l’indicazione degli specifici rischi delle singole soluzioni.

Nel caso di specie, la Suprema Corte afferma che “se potevasi presumere la necessità di essere sottoposti ad anestesia, non altrettanto potrebbe dirsi per la specifica metodologia adottata, mediante iniezione lombare, che comportava un rischio specifico” del quale il paziente doveva essere espressamente edotto.

La scelta di una tra le tecniche metodologiche possibili,  nella fattispecie in esame anestetiche, comportando diversi fattori di rischio, avrebbe dovuto ottenere un valido e consapevole consenso del paziente.

Quello che preme sottolineare è l’estensione dell’obbligo d’informazione, ora ampliato anche ai rischi specifici rispetto alle scelte terapeutiche alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi.

Del resto, sottolinea il Supremo Collegio “è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in équipe, ormai normale negli interventi chirurgici, presentino, nelle varie fasi, rischi specifici e distinti. Allorché tali fasi assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo, esse stesse, a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo d’informazione si estende anche alle singole fasi ed ai rispettivi rischi”.

Sempre in tema di obblighi informativi in capo al sanitario, una recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione Sez.III, 16/05/2000, n.6318, stabilisce che, al medico dipendente di una struttura ospedaliera, relativamente ai danni subiti da un neonato, partorito da donna della quale costui era medico di fiducia, per difetto di assistenza nelle varie fasi del parto, per quanto non possano essere a lui addebitate le carenze della struttura stessa, nè la condotta colposa di altri dipendenti dell’ospedale, a lui incombe, tuttavia, l’obbligo, derivante dal rapporto privatistico che lo lega alla paziente, di informarla della eventuale, anche solo contingente, inadeguatezza della struttura, tanto più se la scelta della stessa sia effettuata proprio in ragione dell’inserimento di quel medico in quella struttura, nonchè di prestare alla paziente ogni attenzione e cura che non siano assolutamente incompatibili con lo svolgimento delle proprie mansioni di pubblico dipendente. (Nella specie, la S.C. ha cassato, sul punto, la decisione della Corte di merito che, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, aveva escluso la responsabilità del medico di fiducia della partoriente nella causazione del danno neonatale sul rilievo che, avendo egli preso servizio poco prima dell’inizio del parto, non sarebbero stati a lui addebitabili nè i precedenti interventi di altri sanitari, del tutto inadeguati alla particolarità del parto a rischio, nè le carenze organizzative della struttura, e, in particolare la contingente indisponibilità del cardiotocografo da parte della stessa, senza indagare se detto medico di fiducia avrebbe dovuto, in ipotesi, sconsigliare il ricovero presso quell’ospedale in relazione a detta carenza, recarsi in ospedale anche fuori del proprio orario di servizio, chiedere di essere informato dell’inizio e del decorso del travaglio, od usare altre cautele).

L’importanza di tale pronuncia risiede nel fatto che la responsabilità e i doveri del medico non riguardano solo l’attività propria e dell’eventuale “equipe” che a lui risponda, ma si estende allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività, e si traduce in un ulteriore dovere di informazione del paziente.

Il consenso informato personale del paziente in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivi, non riguardano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell’arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra.

L’omessa informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale il medico risponderà in concorso con l’ospedale sul piano della responsabilità civile, quindi del risarcimento del danno, ed eventualmente anche sul piano professionale, deontologico – disciplinare.

Afferma inoltre la Suprema Corte che, benché manchi nella legislazione italiana uno standard di riferimento degli strumenti di cui una struttura sanitaria pubblica deve necessariamente disporre, ciò non esimerebbe il medico responsabile della cura dei pazienti dal dovere di informarli della possibile inadeguatezza della struttura per l’indisponibilità, anche solo momentanea, di strumenti essenziali per una corretta terapia o per un’adeguata prevenzione di possibili complicazioni, tanto più se queste siano prevedibili in relazione alla particolare vulnerabilità del prodotto del concepimento, specialmente se esso venga alla luce in condizioni di prematurità o immaturità.

Una ulteriore sentenza della Corte di Cassazione n.9705 del 6/10/1997 affronta una delle tematiche che negli ultimi anni è stata oggetto di parecchie pronunce giurisprudenziali ed altrettante rivisitazioni dottrinali, ossia quella relativa al consenso informato nella chirurgia estetica.

Come in precedenza accennato, già nel 1985, con la sentenza n.4394 la Suprema Corte sottolineava che il dovere informativo in capo al sanitario era particolarmente incombente nella chirurgia estetica, in cui dovevasi ricomprendere anche la possibilità da parte del paziente di conseguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico, che si sarebbe ripercosso favorevolmente nella vita professionale ed in quella di relazione.

Le difficoltà connesse all’adattamento rigido della distinzione tradizionale tra obbligazioni “di mezzi” e obbligazioni di “risultato”, si avvertono forse con maggiore intensità quando si pone attenzione alla particolare cura che la giurisprudenza ha riservato a particolari ipotesi di responsabilità professionali sanitarie.

Nella fattispecie relativa alla chirurgia estetica, essendo l’intervento orientato a perseguire un risultato estetico migliorativo, viene posto l’accento sul fatto che la mancata informazione sulla qualità dei risultati prevedibili integri una responsabilità del medico tutte le volte in cui l’esito dell’intervento non corrisponda a quello atteso o promesso, configurando in capo al sanitario una obbligazione “di risultato”.

Nel caso di specie, la Suprema Corte afferma che dalla peculiare natura del trattamento sanitario volontario scaturisce, al fine di una valida manifestazione di consenso da parte del paziente, la necessità che il professionista lo informi dei benefici, delle modalità di intervento, dell’eventuale possibilità di scelta tra diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili in sede post operatoria, necessità, quest’ultima, da ritenersi particolarmente pregnante nel campo della chirurgia estetica (ove è richiesta la sussistenza di concrete possibilità, per il paziente, di conseguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico che si ripercuota favorevolmente sulla sua vita professionale o di relazione), con la conseguenza che la omissione di tale dovere di informazione genera, in capo al medico, nel caso di verificazione dell’evento dannoso, una duplice forma di responsabilità, tanto contrattuale quanto aquiliana. Anche gli stessi e gravi esiti cicatriziali residuati all’intervento di chirurgia estetica eseguito in violazione del dovere di informazione da parte del sanitario possono integrare gli estremi della “alterazione anatomo-patologica dell’organismo” e, conseguentemente, l’elemento oggettivo del reato di lesioni colpose (al cui accertamento il giudice civile sia chiamato “incidenter tantum”, onde statuire sulla risarcibilità del danno morale), allorquando tali esiti non siano riferibili ad interventi in cui le possibilità di simili conseguenze dannose erano già state preventivamente ed esaurientemente rappresentate al paziente dall’operatore.

Alcuni autorevoli autori [15] alla luce degli orientamenti giurisprudenziali hanno criticato la differenziazione tra sanitari in genere ed i chirurghi estetici poiché non sarebbe corretto sostenere che, a fronte di una diligente prestazione del chirurgo, debbano conseguentemente conseguirsi risultati estetici soddisfacenti, ben potendosi produrre risultati di segno opposto, o comunque non soddisfacenti, legati a fattori fisiologici o patologici peculiari al paziente, non sempre prevedibili.

Pertanto risulterebbe eccessivamente penalizzante per il chirurgo estetico valutare la propria responsabilità secondo i canoni relativi alle obbligazioni “di risultato”, piuttosto che puntare l’attenzione sul diligente adempimento del dovere d’informazione del paziente, gravante sul chirurgo estetico, come sugli altri sanitari; dovere d’informazione ancor più fondamentale in questa specialità al fine di determinare le condizioni ideali per una partecipazione cosciente ed attiva del paziente nonché per la prestazione di un consenso all’intervento altrettanto pieno e cosciente.

Sembra in effetti più corretto secondo parte della dottrina, spostare l’attenzione dal piano dell’identificazione della natura dell’obbligazione, ovvero tra obbligazioni “di risultato” e quelle “di mezzi”, ad un piano diverso che privilegi la fase della definizione e di approfondita informazione del contenuto della prestazione del chirurgo estetico, data la particolare delicatezza che in questa specialità assume anche la prestazione del consenso da parte del paziente.

Si tratterebbe quindi di dar corso ad una sorta di vera e propria contrattualizzazione della prestazione, disegnandone i confini, gli obiettivi e le modalità esecutive e quindi, conseguentemente, i limiti di responsabilità.

Come già accennato, nell’ambito della chirurgia estetica, particolare attenzione deve essere data all’obbligo informativo.

Si sostiene che l’obbligo informativo nella chirurgia estetica sia da espletarsi in modo più ampio di quanto non succeda nella chirurgia riabilitativa, poiché sarebbe diverso il rapporto intercorrente tra cliente e terapeuta  da quello tra cliente e chirurgo estetico.

Nel primo caso si perseguirebbe infatti la guarigione da un’infermità, nel secondo caso l’intervento sarebbe finalizzato ad un miglioramento dell’aspetto fisico in vista di un migliore presentarsi nella vita di relazione.

Alla luce di queste considerazioni, e sulla base di quanto disposto dal Tribunale di Roma il 10 ottobre 1992 [16] , vi sarebbe una diversificazione del dovere d’informazione, “limitato in genere, per il terapeuta, ai possibili rischi ed effetti della terapia suggerita o degli interventi chirurgici proposti (…) e quello, invece, gravante sul chirurgo estetico in ordine alla conseguibilità di un miglioramento effettivo dell’aspetto fisico”.

La sopraesposta circostanza, tuttavia, è stata oggetto, da parte della dottrina di alcune critiche per il fatto che discriminare la specialità in esame sostenendo la necessità di valutare più rigorosamente la fase dell’informazione e della prestazione del consenso, significherebbe introdurre, all’interno della scienza medica, una differenziazione che non trova specifiche ragioni deontologiche per essere sostenuta.

Occorre infine accennare la sentenza n.3046 dell’ 8 aprile 1997 con cui la Corte di Cassazione effettua un’ulteriore differenziazione all’interno della categoria stessa delle prestazioni poste in essere dal chirurgo estetico, ossia quella tra interventi di chirurgia estetica “ordinari”, ed interventi di chirurgia estetica cosiddetti “ricostruttivi”. Questi ultimi sarebbero interventi riferibili a casi, come quello trattato dalla sopraccitata sentenza, nei quali sia stato il paziente stesso a procurarsi volontariamente alcune alterazioni, nel caso di specie tatuaggi osceni e ripugnanti, per poi volerne conseguire l’eliminazione. Di fronte a casi simili il contenuto dell’obbligo d’informazione sarebbe diverso rispetto a quello richiesto, al contrario, nei casi di chirurgia estetica cosiddetta ordinaria, dovendosi nel primo caso adempiere all’obbligo d’informazione del paziente in modo meno rigoroso e limitato agli esiti eventuali che potrebbero rendere vana l’operazione, e non dovendo il medico spingersi oltre nell’informazione diligente al paziente.

Se negli ultimi anni dottrina e giurisprudenza hanno delineato i principi generali relativi alla tematica del consenso informato, occorre anche rilevare che non poche problematiche restano ancora irrisolte.

Ad esempio quella relativa ad un modello generale di consenso informato, che risulta obiettivamente di difficile applicazione in ogni particolare relazione medico-paziente, troppo spesso influenzata da fattori personali quali emotività e  condizione psicologica.

Sarà perciò fondamentale l’apporto di studiosi e giuristi, nell’ottica di “riuscire a sviluppare le potenzialità positive dell’idea di autodeterminazione in campo sanitario, riducendo al minimo gli effetti indesiderati, secondo un’ispirazione che non disgiunga libertà ed uguaglianza” [17] .

AVV.MARCO EMANUELE GALANTI

[1] Tra gli altri è il caso delle malattie infettive e diffusive di cui all’art.253 T.U. leggi sanitarie 27/3/1934 n.1265 e D.M. 5/7/1975

[2] SANTOSUOSSO, Il consenso informato. Tra giustificazione per il medico e diritto del paziente, Milano, 1996.

[3] LEGA, Il dovere del medico di informare il paziente, Riv.Dir.Lav., 1960, 222.

[4] SANTOSUOSSO, op.cit. pag. 6 “Gli Stati Uniti sono considerati il luogo d’origine del consenso informato. Quest’idea trae origine non certo dal fatto che essi siano l’unico paese nel quale si sia posto il problema della regolamentazione giuridica dell’attività medica ma dal fatto che, proprio negli Stati Uniti, questa particolare forma giuridica ha preso corpo e ha assunto la forma che ora tende ad affermarsi anche in altri paesi, come in Inghilterra o qui da noi”

[5] GORGONI, La stagione del consenso e dell’informazione, Responsabilità civile e previdenza, 1999, 488

[6] MARTORANA, Considerazioni su informazione del paziente e responsabilità medica, Resp.civ e prev. 1997, 1228

[7] MARTORANA, Op.cit.

[8] RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979; NANNINI, il consenso dell’avente diritto, Milano, 1989;  BONELLI – GIANNELLI, Consenso e attività medico-chirurgica, Riv.It.Med.Leg., 1991, 9 ss.

[9] Consiglio Nazionale per la Bioetica, 1992, 20 giugno.

[10] Ad esempio il caso delle donazioni sanguinee dove, al donatore, viene richiesto consenso informato scritto. Così infatti prevede il Decreto del 15 gennaio 1991, in Gazzetta Ufficiale 24/1/1991

[11] Cass. 25  novembre 1994, n.10014.

[12] SERRA, Fisiopatologia del rapporto medico-paziente in ginecologia, Milano, 2000; GIUNTA, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, Firenze, 2000.

[13] POLVANI, Indicazioni giurisprudenziali e considerazioni critiche sul consenso all’attività medica, Foto It., 1996.

[14] GIUNTA, Op. Cit.

[15] BILANCETTI, La responsabilità civile e penale del medico, Padova, 1996; FERRANDO, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, Riv. Critica Dir.Priv., 1998.

[16] Tribunale di Roma 10 ottobre 1992, In Assicurazioni, 1993, II, 207; in Giur. It. 1993, I, 2, 234.

[17] Santosuosso, Op.Cit. pag. 222.

[Novembre 2002] - Brevi note sulla procedura di licenziamento collettivo

La fattispecie del  licenziamento collettivo è disciplinata dall’art. 24 della legge 23 luglio 1991 n.223. Secondo tale norma, il licenziamento collettivo per riduzione del personale riguarda le imprese che occupano più di 15 dipendenti e ricorre qualora, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, l’impresa intende effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia (art.24, comma 1).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza, per  unità produttiva si intende un’articolazione autonoma dell’impresa, dotata di autonomia strutturale e funzionale, avente cioè, sotto il profilo funzionale e finalistico, “idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l’attività di produzione di beni o servizi dell’impresa della quale è elemento organizzativo” (Cass. 17 marzo 1993 n.799; Cass. 21 ottobre 1992 n.11487),  connotata da “ indipendenza tecnica e amministrativa” (Cass. 9 giugno 1993 n.6413), di modo che “in essa si possa concludere una frazione dell’attività produttiva aziendale” (Cass. 20 aprile 1995 n.4432; Cass. 17 novembre 1993 n.11354; Cass. 9 giugno 1993 n.6413).

Le disposizioni relative al licenziamento collettivo si applicano inoltre a tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione (art.24, comma 1, ultima parte). Pertanto, in tal caso, il lavoratore eventualmente licenziato con una procedura individuale può impugnare il licenziamento invocando il collegamento al licenziamento collettivo intimato ad altri dipendenti della stessa impresa.

Il licenziamento collettivo sussiste “non solo se  il licenziamento sia conseguente ad una trasformazione strutturale dell’impresa che comporti soppressione di uffici, reparti, lavorazioni e, comunque, di elementi materiali dell’organizzazione, ma anche se esso dipenda da una effettiva e non temporanea contrazione dell’attività produttiva incidente sul solo elemento personale, anche in tal caso essendo collegato ad una scelta di carattere dimensionale dell’imprenditore” (Cass. 9 marzo 1995 n.2785; Cass. 17 giugno 1997 n.5419).

Più specificamente, secondo la giurisprudenza, “il licenziamento collettivo presuppone una stabile e non transeunte contrazione dell’attività produttiva, tale da rendere necessaria, con rapporto di causa ad effetto, la diminuzione del complessivo numero dei dipendenti, divenuto esuberante rispetto alle mutate esigenze aziendali; laddove una semplice riduzione dei posti di lavoro, non correlata ad alcuna riduzione dell’attività produttiva,  ma ad una più intensa utilizzazione della residua forza-lavoro, seppure tesa al fine di migliorare la produttività e la situazione economico-finanziaria dell’impresa, non è idonea a giustificare un licenziamento collettivo, ma bensì licenziamenti individuali plurimi” (Cass. 9 marzo 1995 n.2785; Cass. 29 novembre 1993 n.1115; Cass. 27 aprile 1992 n.5010).

Presupposto necessario per la sussistenza di un licenziamento collettivo è la pluralità dei licenziamenti (almeno 5 nell’arco di 120 giorni in ciascuna unità produttiva). Tuttavia, una fattispecie caratterizzata da un numero di  di licenziamenti intimati per motivi oggettivi appena al di sotto della predetta soglia e dalla compresenza di una serie di risoluzioni o dimissioni incentivate di altri rapporti di lavoro potrebbe essere ricondotta ad un caso  licenziamento collettivo (Pret. Milano, 28 giugno 1994).

Il licenziamento collettivo ex art.24 legge 223/91 deve essere intimato nel rispetto della procedura di consultazione sindacale prevista dall’art.4 della legge stessa.

Tale procedura consiste in due fasi, la prima a livello sindacale e la seconda a livello di Direzione Provinciale del Lavoro.

Prima fase (sindacale)

La prima fase della procedura inizia con l’invio da parte del datore di lavoro di una comunicazione scritta alle rappresentanze sindacali aziendali di cui all’art.19 dello Statuto dei lavoratori (o alle RSU) ed alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza delle predette rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente   rappresentative sul piano nazionale, anche per il tramite dell’associazione dei datori di lavoro a cui l’impresa aderisca o conferisca mandato (art.4, comma 1).

La comunicazione scritta deve contenere l’indicazione con chiarezza e precisione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza, inclusi i motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità (c.d. motivi ostativi). Secondo la giurisprudenza, la generica o laconica indicazione dei motivi comporta l’illegittimtà dei licenziamenti, con conseguente obbligo del datore di lavoro di reintegrare i lavoratori e di corrispondere loro le retribuzioni dalla data del  licenziamento sino alla reintegra (art.18 Statuto  dei lavoratori).

Alla comunicazione va allegata la ricevuta del versamento all’INPS di una somma pari al trattamento massimo di cassa integrazione mensile moltiplicato per il numero dei lavoratori ritenuti eccedenti. Tale versamento costituisce un’anticipazione del contributo di mobilità  posto a carico delle aziende, pari a 9 volte il trattamento mensile di mobilità spettante al lavoratore. Tale importo può essere versato in trenta rate mensili e può essere ridotto a tre volte (3 mensilità) nei casi di accordo sindacale (art.24, comma 3).

La comunicazione al sindacato e la ricevuta del versamento all’INPS vanno inviate anche alla Direzione Provinciale del lavoro.

Entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni di categoria, si procede ad un  esame congiunto tra le parti, per verificare la possibilità di una utilizzazione diversa del personale eccedente. Tale prima fase deve esaurirsi entro un termine di 45 giorni (di soli 23 giorni se i lavoratori eccedenti sono meno di 10), prorogabile su accordo delle parti.

In caso di raggiungimento di un accordo tra azienda e organizzazioni sindacali, l’azienda può intimare i licenziamenti collettivi concordati, nel rispetto dei termini di preavviso, senza dover attendere la scadenza dell’ulteriore termine per l’espletamento della seconda fase avanti alla Direzione Provinciale del lavoro, e beneficia della riduzione a 1/3 del contributo da versare all’INPS per il trattamento mensile di mobilità (3 mensilità anziché 9).

Seconda fase (avanti al Dir. Prov. del lavoro)

In mancanza di accordo, il direttore della Direzione provinciale del lavoro, ricevuta la comunicazione datoriale illustrante i motivi del mancato accordo,  convoca le parti al fine di un ulteriore esame  (seconda fase). Tale fase non può durare più di 30 giorni (15 se i dipendenti da licenziare sono meno di 10). Se in tale sede si raggiunge un accordo, pur nel silenzio della legge si ritiene che l’azienda possa ugualmente beneficiare del pagamento ridotto dell’indennità di mobilità.

Sia che si raggiunga l’accordo, che nell’ipotesi contraria, decorsi i termini sopra indicati, l’azienda può procedere ad intimare il licenziamento collettivo, nel rispetto dei termini di preavviso.

L’inosservanza della forma scritta e della procedura sopra descritta è sanzionata con l’inefficacia (nullità) del licenziamento, mentre la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare previsti dall’art.5 della legge stessa (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive e organizzative) rende annullabile il licenziamento.

In entrambi i casi, qualora il licenziamento venga dichiarato inefficace o annullato, il lavoratore ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro ex art.18 dello Statuto dei lavoratori, nonché al pagamento delle retribuzioni (comprensive dei contributi previdenziali e assistenziali) dalla data del licenziamento sino alla reintegra e, comunque, in misura non inferiore a 5 mensilità. Inoltre, la violazione dell’obbligo di comunicare preventivamente e per iscritto i motivi dell’esubero ed i motivi ostativi può configurare una fattispecie di condotta antisindacale ex art.28 dello Statuto dei lavoratori (Pret. Milano, 20 novembre 1995).

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS