[Luglio 2004] - Azioni di responsabilità contro gli amministratori di S.p.A. (artt. 2393, 2393 bis, 2394, 2395 c.c.)

La riforma del diritto societario ha introdotto una serie di novità in tema di azioni di responsabilità contro gli amministratori delle s.p.a., novità finalizzate a tutelare maggiormente le minoranze dei soci.

Innanzitutto occorre precisare che le azioni di responsabilità si distinguono in due tipi: sociale e individuale.

Nell’ambito delle azioni sociali di responsabilità il legislatore ha previsto che la legittimazione a promuovere tali tipi di azioni spetta sia alla società stessa (art.2393 c.c.) sia alle minoranze qualificate di soci (art.2393 bis c.c.).

Nel primo caso l’azione è promossa dalla società, anche se in liquidazione, in seguito alla deliberazione dell’assemblea, deliberazione che può essere presa in occasione della discussione del bilancio anche se non prevista tra le materie da trattare all’ordine del giorno purchè “si tratti di fatti di competenza dell’esercizio cui si riferisce il bilancio”.

Da tale deliberazione assembleare non consegue automaticamente la revoca dall’ufficio per l’amministratore interessato dall’azione di responsabilità, ma occorre che la deliberazione sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In questo caso l’assemblea deve altresì provvedere alla sostituzione degli amministratori.

Per l’esercizio dell’azione di responsabilità il legislatore ha comunque previsto un termine, ritenuto dai primi interpreti di decadenza, di cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica.

Inoltre una volta promossa tale azione, la società può rinunciare o può transigere purchè la rinunzia e la transazione siano approvate con espressa deliberazione assembleare e non vi sia il voto contrario di una minoranza di soci che:

-          rappresenti almeno un quinto del capitale sociale,

-          rappresenti almeno un ventesimo del capitale di rischio per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio,

-          rappresenti la diversa misura prevista nello statuto.

Questo tipo di azione di responsabilità, però, è stata sempre scarsamente applicata in quanto, a causa dei condizionamenti interni che gli amministratori potevano esercitare sui soci, difficilmente si raggiungevano le maggioranze necessarie per deliberare la proposizione di azioni risarcitorie con la conseguenza che almeno sul piano civilistico gli amministratori fino all’entrata in vigore della nuova normativa hanno goduto di una sorta di sostanziale irresponsabilità.

Per ovviare a questi problemi, il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere un ulteriore tipo di azione sociale di responsabilità esercitabile dalle minoranze dei soci, azione peraltro già sperimentata per le società quotate e prevista dall’art.129 del TUF.

Tale azione sociale può essere esercitata dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale (o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo) o, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, dai soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale (o la minore misura prevista nello statuto).

Occorre precisare che se pur la legittimazione attiva spetta ai soci, ciò non muta la natura sociale di tale azione ma comporta soltanto che i soci, in qualità di sostituti processuali, agiscano surrogandosi alla società e facendo quindi valere un diritto proprio di quest’ultima.

Ciò trova altresì conferma tanto nel tenore letterale dell’art.2393 bis quanto nelle prime interpretazioni di questo articolo.

Infatti l’art. 2393 bis prevede che la società venga chiamata in giudizio e pertanto i soci dovranno notificare l’atto di citazione al presidente del collegio sindacale.

Inoltre al comma V dello stesso articolo è previsto che in caso di accoglimento della domanda ai soci-attori spetta solo il rimborso da parte della società delle spese di giudizio nonché delle spese sopportate dagli stessi nell’accertamento dei fatti che il giudice non abbia posto a carico degli amministratori soccombenti o che non sia stato possibile recuperare a seguito della loro escussione. Da ciò i primi interpreti hanno dedotto che gli amministratori soccombenti in giudizio dovranno corrispondere le somme liquidate dal giudice a titolo di risarcimento dei danni direttamente alla società e non ai soci che hanno promosso l’azione.

Infine l’art. 2393 bis prevede per i soci il diritto di rinunciare all’azione o a transigere con la conseguenza che ogni corrispettivo per la rinuncia o per la transazione sarà a vantaggio della società.

L’analisi delle azioni di responsabilità non può, infine, prescindere da un accenno alle azioni di natura individuale spettanti ai creditori sociali (art.2394 c.c.) e ai singoli soci e terzi (art.2395).

Per quanto riguarda la disciplina di queste azioni è rimasta sostanzialmente invariata, ma soprattutto per l’azione dei creditori solo di recente si è affermata la tesi che si tratta di un’azione diretta e non surrogatoria.

A sostegno di tale tesi si è osservato che l’azione dei creditori può essere esperita anche nei casi in cui non è più esercitabile quella sociale. Più specificamente i creditori sociali possono agire nei confronti degli amministratori anche nel caso in cui sia decorso il termine di prescrizione dell’azione sociale avendo le due azioni termini prescrizionali diversi, oppure nel caso di rinuncia all’azione sociale o di transazione. In quest’ultimo caso, però, i creditori, come previsto dal comma 3 dell’art.2395, possono impugnare la transazione solo con l’azione revocatoria.

Per quanto riguarda l’azione spettante ai singoli soci e ai terzi è un’azione soggetta al termine di decadenza quinquennale e volta ad accertare la responsabilità extracontrattuale degli amministratori, i quali con atti dolosi o colposi, inerenti il proprio ufficio e non, abbiano leso direttamente il patrimonio personale dei soci e dei terzi.

L’esperimento di tale azione non impedisce comunque ai soci e ai terzi lesi di poter agire anche nei confronti della società per far accertare ai sensi dell’art.2049 c.c. una responsabilità di quest’ultima per colpa in eligendo e in vigilando.

Dalla possibilità data ai singoli soci e ai terzi di esperire entrambe le azioni appena sopra citate (art.2395 e art.2049 c.c.) si può concludere che ancora una volta il legislatore ha manifestato la volontà di superare il vecchio problema dell’immunità degli amministratori, i quali restavano impuniti invocando a loro difesa il rapporto organico intercorrente con la società di appartenenza.

Restiamo a disposizione per qualsivoglia chiarimento.

Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners

LombardConsulting

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Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners e dello studio LombardConsulting. La circolare è destinata unicamente ai clienti degli studi e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Giugno 2004] - Validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, interessi degli amministratori, responsabilità degli amministratori verso la società (artt. 2388, 2391, 2392 c.c.)

Nell’ambito delle nuove norme in materia di amministratori delle S.p.A. occorre prestare una particolare attenzione a tre  argomenti oggetto di sostanziali cambiamenti: la validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione (art.2388 c.c.), gli interessi degli amministratori (art. 2391 c.c.), la responsabilità degli amministratori verso la società (art. 2392 c.c.).

1. Validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione (art. 2388 c.c.)

Il nuovo art. 2388 c.c., ponendo  fine ad un lungo dibattito dottrinale, ha introdotto la possibilità “di impugnare le deliberazioni del consiglio di amministrazione non prese in conformità della legge o dello statuto entro 90 giorni dalla data della deliberazione” riservando tale azione solo:

- al collegio sindacale (IV comma);

- agli amministratori assenti o dissenzienti (IV comma);

- ai soci nel caso in cui le deliberazioni siano lesive dei loro diritti (IV comma).

Tale norma rappresenta una novità assoluta in quanto la passata legislazione disciplinava solo il caso di impugnazioni di delibere consiliari prese in conflitto di interesse, mentre ora il legislatore per tale materia ha ripreso, quasi del tutto, la disciplina delle impugnazioni delle deliberazioni assembleari, come si può desumere anche dall’esplicito rischiamo degli artt.2377, 2378 contenuto nell’art.2388.

Le uniche eccezioni rispetto alla disciplina delle deliberazioni assembleari sono rappresentate dalla mancanza di un’esplicita disciplina per l’impugnazione di deliberazioni consiliari nulle e dall’impossibilità di impugnare  qualsiasi tipo di deliberazione consiliare da parte di amministratori astenuti.

Il fatto, però, che il legislatore non menzioni tra le delibere consiliari impugnabili quelle nulle non è da considerarsi una vera e propria eccezione, nel senso che viene escluso definitivamente il rimedio dell’impugnazione in casi di nullità, ma, a parere anche dei primi commentatori, si tratta di una lacuna che dovrà essere colmata con un intervento chiarificatore del legislatore, in quanto, già nella passata legislazione, si era giunti ad ammettere la possibilità di ricorrere a tale rimedio applicando la disciplina codicistica dettata in tema di contratti nulli.

Per quanto riguarda invece la scelta di negare agli amministratori astenuti di impugnare le delibere consiliari invalide, tale scelta si giustifica con il fatto che  il legislatore concepisce l’attività di gestione svolta dagli amministratori come un’attività propositiva che non ammette neanche nella fase deliberativa una “diligente astensione”.

Inoltre, occorre evidenziare che la più importante novità contenuta nell’art.2388 c.c. è rappresentata dalla legittimazione riconosciuta ai soci, lesi nei propri diritti dalle deliberazioni consiliari invalide, di impugnare tali deliberazioni. In questo modo il legislatore ha codificato un orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel vigore della precedente norma (per completezza si cita Cass. n.2850 del 28.3.1996, Cass. n.4749 del 3.4.2002).

Per quanto riguarda  le restanti disposizioni contenute nell’art. 2388 non sono state oggetto di sostanziali modificazioni. Infatti sono rimaste invariate le disposizioni in tema di quorum costitutivo e di quorum deliberativo, le quali prevedono rispettivamente che “per la validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione è necessaria la presenza della maggioranza degli amministratori in carica, quando lo statuto non richiede un maggior numero di presenti” (comma I) e che “le deliberazioni del consiglio di amministrazione sono prese a maggioranza assoluta dei presenti, salvo diversa disposizione dello statuto” (comma II).

Infine, per completezza, si segnala che il legislatore ha inserito nell’ultima parte del comma I la previsione che “lo statuto può prevedere che la presenza alle riunioni del consiglio avvenga anche medianti mezzi di telecomunicazione”.

2. Interessi degli amministratori (art. 2391 c.c.)

L’art. 2391 c.c. in tema di interessi degli amministratori è stato completamente riscritto alla luce di tre principi fondamentali, trasparenza, correttezza di corporate governance e prevenzione del danno.

In tale ottica il legislatore ha previsto al comma I che “L’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata”

Tale norma è particolarmente innovativa in quanto l’amministratore è tenuto, per ragioni di trasparenza e senza che gli sia consentita alcuna valutazione preventiva, a comunicare al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale ogni tipo di interesse (anche un semplice coinvolgimento personale) che lo stesso vanta per conto proprio o di terzi in una determinata operazione della società e non più solo gli interessi che lo stesso reputa in conflitto con quelli della società, come prevedeva l’ormai abrogato comma I.

In tal modo si consente soprattutto al consiglio di amministrazione di valutare se la situazione prospettata dall’amministratore coinvolto configuri un conflitto di interessi concretamente o potenzialmente lesivo per la società o anche irrilevante qualora vi sia un interesse concordante tra l’amministratore e la società.

Si tratta, pertanto, di valutazioni che il consiglio di amministrazione, sempre per ragioni di correttezza di corporate governance e soprattutto per prevenire eventuali danni, è obbligato a fare in quanto il comma II prescrive che “nei casi previsti dal precedente comma la deliberazione del consiglio di amministrazione deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza  per la società dell’operazione”.

Si precisa, per completezza, che oltre a tale obbligo di informazione gravante su ciascun amministratore il legislatore ha aggiunto per l’amministratore delegato un obbligo di astensione dal compimento dell’operazione con richiesta di intervento dell’organo collegiale (comma I).

Dalla violazione degli obblighi di informazione da parte degli amministratori e da una non adeguata motivazione della deliberazione da parte del consiglio di amministrazione. consegue la possibilità per gli amministratori, anche consenzienti ma non informati, e per il collegio sindacale di impugnare le deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo, che possano recare danno alla società, entro 90 giorni dalla loro data (comma III).

Lo stesso rimedio è altresì previsto nel caso in cui le deliberazioni del consiglio di amministrazione o del comitato esecutivo “sono adottate con il voto determinante dell’amministratore interessato” (comma III).

Questa ipotesi contemplata espressamente dal legislatore permette, altresì, di affermare che nel vigore del nuovo art.2391 - a differenza del passato in cui tassativamente era previsto che l’amministratore “deve astenersi dal partecipare alle deliberazioni riguardanti l’operazione stessa” – è ammessa la possibilità per l’amministratore coinvolto in un caso di conflitto di partecipare alle deliberazioni consiliari purchè il suo voto non sia determinante per loro adozione.

La scelta del legislatore di permettere all’amministratore interessato di partecipare alle deliberazioni nonché ai consigli e alle riunioni è stata dettata dall’esigenza di attuare il più possibile uno dei principi ispiratori della riforma, ossia quello di informazione.

Ciò, però, non impedisce di ritenere che in concreto sarà più opportuno auspicare che un amministratore interessato, dopo aver assolto i suoi obblighi di informazione, non partecipi comunque alle votazioni al fine di evitare possibili impugnazioni della deliberazione adottata e soprattutto per non incorrere in eventuali responsabilità con conseguente risarcimento dei danni.

Su tale punto il legislatore ha comunque previsto ai commi IV e V dell’art.2391che “l’amministratore risponde dei danni derivati alla società dalla sua azione od omissione” (comma IV) e “risponde, altresì, dei danni che siano derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico” (comma V).

Per quanto riguarda il comma V, occorre precisare che il legislatore prevedendo uno specifico risarcimento non ha ritenuto che tali danni potessero rientrare nel lucro cessante del risarcimento previsto al comma IV. Inoltre la norma andrà coordinata con la disciplina dell’insider trading.

Infine, una lacuna normativa è rappresentata dal caso in cui non essendoci un consiglio di amministrazione il conflitto di interesse riguardi l’amministratore unico.

In tale caso, i primi commentatori ritengono che l’amministratore dovrà dare circostanziata notizia del suo interesse al collegio sindacale e astenersi dal compiere l’operazione investendo della stessa l’organo collegiale, ossia l’assemblea, che gli ha conferito i poteri; in caso di responsabilità dell’amministratore unico si applicheranno i commi IV e V dell’art.2391.

3. Responsabilità degli amministratori verso la società  (art. 2392 c.c.)

Il nuovo art. 2392 c.c. in tema di responsabilità degli amministratori verso la società è stato riformato alla luce di una duplice esigenza, ossia di collegare la responsabilità ad una scorretta condotta e a una cattiva gestione e di fissare i presupposti e i limiti della responsabilità al fine di evitare una eccessiva e indiscriminata utilizzazione di detto istituto come già avvenuto in passato da parte della giurisprudenza.

A tal fine il legislatore ha innanzitutto provveduto a sostituire la vecchia “diligenza del mandatario” richiesta agli amministratori per l’adempimento dei doveri imposti dalla legge e dallo statuto con una diligenza “professionale” simile a quella prevista dall’art.1176 II comma. Detta diligenza va quindi rapportata alla natura dell’incarico e alle specifiche competenze degli amministratori (comma I).

Il legislatore, però, in questo modo non ha inteso affermare che la scelta degli amministratori avvenga solo tra periti in materie di contabilità, finanza o comunque tra esperti in ogni settore di gestione, ma ha inteso che nell’attività di gestione gli amministratori agiscano in modo informato (vd. commento ad art. 2381 in www.Onlinelex.it  - Circolare n.61 Maggio 2004) e le loro operazioni siano frutto di scelte meditate e non caratterizzate da irresponsabilità o da negligente improvvisazione.

Pertanto, nel caso in cui gli amministratori non agiscano secondo i criteri sopra esposti causando danni alla società saranno da ritenersi “solidalmente responsabili a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori” (comma I).

Infatti in presenza di attribuzioni proprie degli organi delegati (comitato esecutivo o amministratori delegati) il legislatore ha previsto una responsabilità diretta di tali soggetti nei confronti della società, sgravando apparentemente da qualsiasi responsabilità gli organi deleganti.

Si tratta infatti di un esonero di responsabilità apparente in quanto al comma II il legislatore, sostituendo il precedente e generico obbligo di vigilanza spettante agli organi deleganti con l’espressione “fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art.2381”, ha voluto in primo luogo evitare di esporre gli amministratori deleganti dagli effetti di una responsabilità oggettiva per culpa in vigilando, ma allo stesso tempo ha stabilito che una responsabilità solidale degli amministratori deleganti nel caso in cui questi, a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto in loro potere per impedire il compimento di detti fatti o per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (comma II).

Infine il comma III è rimasto invariato e prevede che “la responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale”.

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Restiamo a disposizione per qualsivoglia chiarimento.

Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners
LombardConsulting

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Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners e dello studio LombardConsulting. La circolare è destinata unicamente ai clienti degli studi e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Giugno 2004] - Dell’amministrazione nelle S.p.A. (artt. 2380 bis, 2381, 2384, 2386, 2387 c.c.)

1.       Amministrazione della società: in particolare “potere di gestione” (art. 2380 bis c.c.)
2.       Presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati: in particolare poteri e doveri degli amministratori, delegati  e deleganti (art.2381 c.c.)
3.       Poteri di rappresentanza (art. 2384 c.c.)
4.       Sostituzione degli amministratori (art. 2386 c.c.)
5.       Requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza (art. 2387 c.c.)

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L’intento che si intende perseguire con la pubblicazione della presente circolare e delle successive è quello di voler fornire al lettore un quadro preciso e puntuale delle novità e dei cambiamenti normativi che hanno interessato la disciplina del Codice Civile in tema di amministratori delle S.p.A. a seguito della riforma del diritto societario attuata con il DLGS n.6 del 17 gennaio 2003, già in vigore dal 1 gennaio 2004 e oggetto di correzione da parte del successivo DLGS n.37 del 6 febbraio 2004.

L’analisi si soffermerà in modo particolare sulla nuova concezione del potere di gestione spettante agli amministratori (artt.2380 bis), sui rapporti tra organo delegante e organo delegato (art. 2381), sul potere di rappresentanza (art.2384), sulla sostituzione degli amministratori (art.2386), sui requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza (art.2387) .

1. Amministrazione della società: in particolare “potere di gestione” (art. 2380 bis c.c.)

L’art. 2380 bis c.c. al comma primo comma sancisce che “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”.

Tale norma, codificando un principio di origine germanica accolto in passato solo da una parte della dottrina, attribuisce definitivamente ed in via esclusiva agli amministratori il potere di assumere le decisioni che incidono direttamente sull’organizzazione e sulla conduzione dell’impresa sociale nonché il potere di compiere le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale senza che vi sia interferenza alcuna da parte dell’organo assembleare nell’ambito del potere gestorio e senza possibilità da parte degli amministratori di sgravarsi dalle proprie responsabilità per gli atti dagli stessi compiuti.

A tal proposito, il legislatore è stato molto chiaro sostituendo il vecchio art. 2364 comma 1, n.4 in cui si leggeva che “l’assemblea ordinaria delibera sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua competenza dall’atto costitutivo, o sottoposti al suo esame dagli amministratori…” con il nuovo art.2364 comma 1, n.5 in cui ha previsto che “l’assemblea ordinaria delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti”.

Ne consegue, pertanto, che lo statuto dovrà prevedere a priori e con sufficiente grado di precisione quali siano gli atti o le categorie di atti che gli amministratori dovranno sottoporre all’autorizzazione dell’assemblea e al fine di evitare la paralisi dell’iniziativa e dell’autonomia dell’azione degli amministratori dovrebbe auspicarsi che le clausole statutarie non assoggettino ad autorizzazione assembleare una vasta categoria di atti.

Inoltre dal tenore letterale del primo comma dell’art.2380 bis si può altresì ritenere che il potere gestorio attribuito agli amministratori deve essere intenso come un “dovere” che questi ultimi, in forza del cosiddetto contratto di società, si impegnano ad assolvere al fine di perseguire, con atti diretti o funzionali, l’oggetto sociale, unico vero limite di detto potere.

Alla luce, quindi, di tali considerazioni si può concludere che il ruolo degli amministratori ne esce sensibilmente mutato in quanto nell’assumere l’incarico di amministratore, delegato o non, come in seguito vedremo, ci si impegna non solo ad amministrare il patrimonio sociale con prudenza ed avvedutezza, ma anche ad utilizzare al meglio le risorse e le potenzialità di cui dispone la società.

Conseguentemente, ed è qui l’aspetto più innovativo e rilevante della riforma, da qualsiasi comportamento pregiudizievole per la società, anche omissivo, può discendere una responsabilità degli amministratori che non hanno agito “professionalmente” come prescritto per legge o statuto.

Infine, per completezza, occorre precisare che il legislatore ha riportato nei commi 2, 3, 4 dell’art. 2380 bis la medesima disciplina prevista nel precedente art. 2380 apportando soltanto delle modifiche formali.

Infatti il comma 3 prevede che lo “statuto” e non più “l’atto costitutivo” deve contenere il numero esatto degli amministratori o l’indicazione del numero massimo e minimo degli stessi; il comma 4, invece, prevede che “il consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti (prima, membri) il presidente, se questi non è nominato dall’assemblea”.

2. Presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati: in particolare poteri e doveri degli amministratori, delegati e deleganti (art.2381 c.c.)

L’art.2381 è stato completamente riscritto. Infatti fin dal suo primo comma il legislatore ha inteso disciplinare i poteri e i compiti del presidente del consiglio di amministrazione prevedendo che “salvo diversa previsione dello statuto, il presidente:

·         convoca il consiglio di amministrazione;

·         ne fissa l’ordine del giorno;

·         ne coordina i lavori;

·         provvede affinchè adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornire a tutti i consiglieri”.

È evidente che l’intento del legislatore è stato quello di attribuire per legge al presidente delle funzioni tipiche non derogabili, funzioni che possono però essere ampliate con esplicita previsione statutaria (es. potere di rappresentanza).

Tra queste funzioni tipiche, occorre soffermarsi sul dovere del presidente di informare i consiglieri del CdA sulle materie all’ordine del giorno, dovere che si giustifica se si considera che uno dei principi cardini della riforma è rappresentato dalla maggiore circolazione di informazioni sulla gestione della società all’interno dell’organo amministrativo al fine di consentire a tutti i componenti delegati e non “di agire in modo informato” (comma 6, art.2381 c.c.).

Per quanto riguarda i commi 2, 3, 4, 5, 6 dell’articolo in esame sono interamente dedicati alla disciplina delle deleghe e dei rapporti tra organo delegato e delegante con la nuova specificazione dei poteri e dei doveri incombenti su entrambi i soggetti.

Infatti il comma 2 prevede che “se lo statuto (prima, atto costitutivo) o l’assemblea lo consentono, il consiglio di amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni suoi componenti (prima, membri), o ad uno o più dei suoi componenti (prima, membri)”.

Come prima della riforma, quindi, il consiglio di amministrazione per poter attendere in maniera efficiente ai compiti di gestione sociale può, in presenza di consenso statutario o assembleare, delegare le proprie attribuzioni o ad un organo collegiale, comitato esecutivo (detto anche consiglio di amministrazione ristretto), o ad uno o più amministratori.

Il consiglio di amministrazione, però, non può per legge delegare le seguenti attribuzioni (comma 4, art. 2381 c.c.):

·         emissione di obbligazioni convertibili in azioni (art. 2420 ter c.c.);

·         redazione di bilancio (art.2423 c.c.);

·         aumento di capitale (art.2443 c.c.);

·         attribuzioni spettanti agli amministratori in relazione alla riduzione del capitale per perdite (art.2446 c.c.) o al di sotto del limite legale (art.2447 c.c.);

·         progetto di fusione (art.2501 ter c.c.);

·         progetto di scissione (art. 2506 bis).

L’aspetto più innovativo della disciplina delle deleghe è rappresentato dalla sostituzione della precedente espressione “il consiglio di amministrazione determina i limiti della delega” (precedente comma 1 dell’art. 2381 c.c.) con la nuova formulazione del 3 comma dell’art.2381 che sancisce “Il consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega”.

Tale disposizione ha innanzitutto recepito un orientamento dottrinale e giurisprudenziale che si era formato nel vigore della legislazione precedente, ma ha altresì disatteso la direttiva contenuta nell’art.4, comma 8, lett. a della Legge delega, la quale esprimeva la necessità che il legislatore precisasse i contenuti e i limiti delle deleghe.

Infatti si è ritenuto più opportuno formulare un principio generale su tale materia lasciando il consiglio di amministrazione libero di determinare i contenuti, i limiti e le modalità di esercizio sia delle deleghe sia dei suoi interventi sull’organo delegato.

Inoltre il legislatore esplicitando che “il consiglio di amministrazione può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega” ha inteso precisare che le attribuzioni delegate sono sempre attribuzioni che appartengono al consiglio di amministrazione, il quale può sempre ritenere opportuno compierle direttamente pur in presenza di deleghe specifiche.

Ne consegue che oltre ad una competenza concorrente tra organo delegato e delegante possa sorgere in capo a quest’ultimo una responsabilità in caso di danno alla società Inoltre l’ultima parte del 3 comma dell’art.2381 c.c. prevede che il consiglio di amministrazione:

·         valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società sulla base delle informazioni ricevute;

·         esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società, quando elaborati;

·         valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.

Le specifiche competenze attribuite da questa disposizione al consiglio di amministrazione sono strettamente collegate a quelle previste dal comma 5 dello stesso articolo per gli organi delegati, i quali:

·         curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa;

·         riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate.

È evidente che il legislatore con tale ripartizione di poteri e doveri tra gli organi deleganti e delegati intende soddisfare un‘esigenza di corretta e trasparente governance societaria e a tal fine ha altresì previsto al comma 6 sia un obbligo generale per tutti gli amministratori “di agire informati” sia la possibilità per gli amministratori deleganti “di chiedere agli organi delegati che in consiglio forniscano informazioni relative alla gestione della società”.

Si può, quindi, concludere che il legislatore sancendo un obbligo di agire in modo informato ha ritenuto valido l’assioma che una buona informazione è strumentale al miglior funzionamento dell’organo collegiale amministrativo e di conseguenza garantisce una più efficiente gestione della società.

3. Poteri di rappresentanza (art. 2384 c.c.)

Il potere di rappresentanza disciplinato dal riformato art.2384 c.c. ed inteso come potere di costituire diritti ed obblighi in capo alla società con i propri atti, è il naturale corollario del nuovo potere gestorio fin qui esaminato.

Si tratta innanzitutto di poteri che in linea di principio e nella maggior parte dei casi coesistono, ma non si esclude che possono essere attribuiti a soggetti diversi.

Infatti il potere di rappresentanza può essere conferito oltre che  ad amministratori anche a terzi procuratori ad acta ed in questo caso non troverà applicazione l’art. 2384, bensì le norme generali in materia di rappresentanza  (art. 1387 e ss. c.c.) e all’occorrenza quelle in materia di rappresentanza commerciale (art. 2203 c.c.).

In secondo luogo la riforma ha distinto in maniera più marcata detti poteri, basti pensare che per definizione oggi il potere di rappresentanza è “generale” ed eventuali “limitazioni che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti (prima, risultano dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto) non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società” (exceptio doli).

Pertanto alla luce del nuovo testo dell’art. 2384 e dell’abrogazione dell’art. 2384 bis si può affermare che gli atti, aventi causa ed oggetto leciti, compiuti da un amministratore in nome e per conto della società, senza che allo stesso sia stato conferito o sia stato conferito invalidamente il relativo potere di rappresentanza (mancanza di potere), sono comunque validi e vincolano la società nei confronti dei terzi, i quali ricevono una tutela estesa in virtù del principio dell’affidamento e i diritti dagli stessi acquisiti non possono essere pregiudicati a meno che la società non provi che questi hanno agito intenzionalmente a suo danno.

La medesima regola è applicabile al caso in cui l’amministratore munito di potere di rappresentanza compia atti, sempre con causa ed oggetto leciti, estranei all’oggetto sociale (eccesso di potere).

Per questo motivo il legislatore, ritenendo la problematica del compimento di atti estranei all’oggetto sociale contenuta e risolta nel nuovo art. 2384 c.c., ha opportunamente abrogato l’art.2384 bis.

In conclusione, anche il nostro ordinamento ha recepito un principio già presente in quelli francese e tedesco, secondo cui “il potere di rappresentanza degli amministratori non può essere limitato e le eventuali limitazioni hanno efficacia puramente interna con la conseguenza che la loro violazione –ferma restando la validità degli atti compiuti – vale solo a rendere gli amministratori stessi responsabili nei confronti della società”.

4. Sostituzione degli amministratori (art. 2386 c.c.)

La disciplina in tema di sostituzione degli amministratori prevede al primo, al secondo ed al terzo comma due distinte ipotesi:

“se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più amministratori, gli altri provvedono a sostituirli con deliberazione approvata dal collegio sindacale, purchè la maggioranza sia sempre costituita da amministratori nominati dall’assemblea.

Gli amministratori così nominati restano in carica fino alla prossima assemblea”

“Se viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in carica devono convocare l’assemblea perché provveda alla sostituzione dei mancanti.

Gli amministratori così nominati scadono insieme con quelli in carico all’atto della loro nomina, salvo diversa disposizione dello statuto o dell’assemblea” .

Il comma 4 ha invece recepito una clausola di origine giurisprudenziale, la cosiddetta “simul stabunt simul cadent”, la quale, inserita nello statuto, comporta che se “a seguito della cessazione di taluni amministratori cessi l’intero consiglio” gli amministratori rimasti in carica o - come prevede il comma 5 - il collegio sindacale convocano d’urgenza l’assemblea per la nomina del nuovo consiglio.

In tal caso il collegio sindacale può compiere  gli atti di ordinaria amministrazione.

5. Requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza (art. 2387 c.c.)

Con il nuovo art. 2387 c.c. il legislatore ha previsto che:

“lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati. Si applica in tal caso l’art. 2382.

Resta salvo quanto previsto da leggi speciali in relazione all’esercizio di particolari attività”.

La ratio ispiratrice di tale norma si individua nell’esigenza di una maggiore “profesionalizzazione” dell’attività di amministrazione alla stregua di quanto già previsto per gli esponenti bancari e per quelli di società di intermediazione finanziaria.

Già dai primi commenti, appare una certa perplessità in merito alla portata precettiva di tale norma e sulla sua concreta applicabilità a tutte le società essendo sufficiente che gli amministratori designati operino nel rispetto del principio di diligenza professionale qualificata.

Infine il rinvio all’art. 2382, ossia alle cause di ineleggibilità e decadenza, sembrerebbe far ritenere che lo statuto non possa prevederne altre, ma non si esclude che in futuro si arrivi ad un’interpretazione estensiva della norma stessa.

Restiamo a disposizione per qualsivoglia chiarimento.

Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners
LombardConsulting

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Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners e dello studio LombardConsulting. La circolare è destinata unicamente ai clienti degli studi e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Maggio 2004] - Delle decisioni dei soci nelle s.r.l. (artt. 2479 - 2479ter c.c.)

La materia, regolata dagli artt. 2479 c.c. e seg., è stata, come del resto buona parte delle disposizioni sulle s.r.l.,  profondamente innovata dalla riforma e merita una particolare attenzione per i risvolti personalistici, soprattutto in tema di gestione, che il legislatore ha voluto imprimere a tutto il capo VII della normativa sulle società a responsabilità limitata.

1. Competenze

L’art. 2479 c.c. indica espressamente le materie sottoposte alle decisione dei soci.

In particolare i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione.In ogni caso, sono riservate alla competenza dei soci:

l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili;

la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori;

la nomina nei casi previsti dall’art. 2477 c.c. dei sindaci e del presidente del collegio sindacale o del revisore;

le modificazioni dell’atto costitutivo;

la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci.

A differenza delle s.p.a.. ed a sottolineare la commistione tra ruolo di socio e di amministratore nelle s.r.l., pertanto, non viene ribadito il concetto, introdotto dal d.lgs 6/2003, di separazione delle competenze tra amministratori e soci comportante il principio di esclusiva responsabilità dei primi per la gestione sociale.

In pratica gli amministratori di s.r.l. ben potranno sottoporre preventivamente ai soci scelte attinenti “argomenti” propriamente gestionali al fine di ottenere, da questi ultimi, la relativa approvazione. In tal caso e ove l’informazione ai soci sia stata completa e corretta la preventiva approvazione da parte dei soci della scelta gestionale impedirebbe a questi ultimi eventuali censure nei confronti degli amministratori.

Le uniche materie su cui permane l’esclusiva competenza dell’organo amministrativo rimangono:

la redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione o scissione;

le decisioni di aumento del capitale ai sensi dell’art. 2481 c.c.

2. Metodi di formazione delle decisioni

Il legislatore, coerentemente con il dettato legislativo, evita di utilizzare il termine assemblea sostituendolo con decisione in quanto il 3° comma dell’art 2479 c.c. istituisce la possibilità di introdurre nell’atto costitutivo l’opzione, per i soci, di esprimere la propria volontà oltre che con il classico metodo assembleare (consistente nell’adunanza convocata a cura dell’organo amministrativo e della loro contestuale partecipazione) anche per il tramite consultazione scritta ovvero di consenso espresso per iscritto.

In pratica non sussiste più l’obbligo dei soci di riunirsi ma è possibile formare la volontà con le seguenti modalità:

la contemporanea comunicazione ai soci (da parte di uno o più amministratori o da parte di uno o più soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale  di una proposta di deliberazione che, non prima di un certo termine, utile al formarsi di un confronto e di una possibile modifica della proposta originaria, ed entro un ulteriore termine stabilito ed anch’esso comunicato ai soci, deve essere approvato o meno (si ritiene che il silenzio sia da interpretarsi come un diniego)

l’approvazione scritta ad una proposta proveniente, come sopra, da parte di uno o più amministratori o da parte di uno o più soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale

L’adozione dei metodi non collegiali sopra descritti, però, è soggetta ad alcune limitazioni:

deve essere prevista espressamente nell’atto costitutivo/statuto

non è ammessa per quelle deliberazioni che, con la previdente normativa, erano soggette ad assemblea straordinaria, dicitura ora scomparsa per le s.r.l. ma che mantengono l’obbligatoria presenza di un notaio e, pertanto, per:

modificazioni dell’atto costitutivo

decisioni di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci.

può essere rifiutata su richiesta di uno o più amministratori o da parte di uno o più soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale

3. Diritto di partecipazione dei soci

La partecipazione di ogni socio alla formazione della volontà sociale è proporzionale alla propria partecipazione che è cosa diversa dal proprio conferimento.

L’art. 2468 c.c, infatti, sancisce come l’atto costitutivo possa prevedere la non proporzionalità tra conferimento e partecipazione attribuendo al singolo socio particolari diritti amministrativi e/o relativi alla distribuzione degli utili.

Non è ammesso nelle s.r.l. emettere particolari categorie di quote (come invece è possibile per le azioni) ma, quale conseguenza della marcata personalizzazione introdotta dal nuovo ordinamento, è possibile costruire quote su misura tagliate sul singolo e che tengano conto del suo ruolo nell’attività sociale.

4. Quorum

Le decisioni dei soci sono prese con maggioranze diverse a seconda del metodo con cui si sono formate.

In particolare:

l’assemblea è validamente costituita

se convocata, con la presenza della metà del capitale sociale e delibera a maggioranza assoluta

in assenza di convocazione, se vi partecipa l’intero capitale sociale e se amministratori e sindaci (se in carica) sono stati informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’ordine del giorno

le decisioni extra-assembleari sono validamente assunte con l’assenso della metà del capitale sociale

5. Assemblea

Le regole per la tenuta dell’assemblea sono le seguenti:

la convocazione va effettuata mediante lettera raccomandata da spedirsi otto giorni prima di quello fissato per l’adunanza nel domicilio risultante dal libro soci ma l’atto costitutivo può autorizzare altri metodi alternativi (fax, e.mail o altro senza peraltro necessità che siano specificati) tali da assicurare la tempestiva informazione su luogo, data (anche se la norma non lo prevede espressamente al contrario dell’omologo art. relativo alle s.p.a.) ed oggetto dell’assemblea

il socio può farsi rappresentare da un proprio delegato ma l’atto costitutivo può validamente limitare o escludere tale diritto

il presidente (indicato nell’atto costitutivo o, in assenza di indicazione, designato dagli intervenuti)

verifica la regolarità della costituzione dell’assemblea

accerta l’identità dei presenti

accerta la loro legittimazione a partecipare

regola lo svolgimento dei lavori

accerta i risultati delle votazioni

da conto di tutto quanto sopra nel verbale

6. Invalidità delle decisioni

Il codice novellato introduce una apposita disciplina relativa all’invalidità delle decisioni dei soci.

La legittimazione all’impugnazione delle delibere annullabili (quelle prese non in conformità della legge o dell’atto costitutivo e quelle prese con il voto determinante di uno o più soggetti in conflitto di interessi) spetta ai soci non consenzienti, agli amministratori ed al collegio sindacale entro novanta giorni dalla trascrizione della delibera sul libro delle decisioni dai soci (ossia sul libro verbali assemblee) sia che si tratti di atti soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese o meno (diversamente da quanto previsto per le s.p.a.)

Le delibere nulle (quelle con oggetto illecito o impossibile e quelle assunte in assenza assoluta di informazione) possano essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla trascrizione della delibera sul libro delle decisioni dai soci (con l’eccezione delle delibere che modifichino l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili per le quali non esistono limiti di tempo).

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Restiamo a disposizione per qualsivoglia chiarimento.

Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners

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[Maggio 2004] - Dell’assemblea nelle s.p.a. (artt. 2363 - 2379ter c.c.)

Gli artt. 2363 – 2379ter c.c. fissano le regole in materia di assemblea nelle s.p.a.; tale sistema, a differenza delle s.r.l. non conosce alternativa (non sono quindi previsti altri metodi di formazione della volontà dei soci) ancorché siano state introdotte semplificazioni e modifiche sostanziali rispetto alla normativa previdente che la distinguono fortemente dai metodi di determinazione delle decisioni dei soci nelle s.r.l..

L’impianto normativo, pertanto, evidenzia un generale ridimensionamento del ruolo dell’assemblea sociale con le necessarie specificità derivanti dal tipo di organizzazione amministrativa (tradizionale, dualistica o monistica) di cui la società si è dotata.

1. Convocazione

L’assemblea, innanzitutto, è ordinaria o straordinaria (differenza eliminata nelle s.r.l.) e viene convocata, salvo diversa disposizione statutaria, nel comune in cui ha sede la società.

La norma è coerente con l’art. 2328 c.c. che dispone come l’atto costitutivo debba indicare il comune dove la società ha sede ma non sia più necessario identificare un indirizzo preciso all’interno di questo.

Il significato della regola, peraltro, sembra volere indicare come, qualora lo statuto non stabilisca diversamente, sia valida la convocazione dell’assemblea in qualsiasi luogo all’interno del comune dove la società ha sede e non tanto che sia possibile indire una riunione assembleare contenente una generica indicazione del luogo di convocazione e ciò trova conferma nel contenuto dell’art. 2366 ove nell’avviso di convocazione deve essere indicato il luogo di convocazione.

2. Competenze dell’assemblea ordinaria nelle società prive del consiglio di sorveglianza

Le competenze dell’assemblea sono differenti a seconda del modello di amministrazione prescelto.

Nelle società prive di consiglio di sorveglianza, l’assemblea ordinaria:

·          approva il bilancio;

·          nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci e il presidente del collegio sindacale e, quando previsto, il soggetto al quale è demandato il controllo contabile;

·          determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito dallo statuto;

·          delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci;

·          delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge all’’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti;

·          approva l’eventuale regolamento dei lavori assembleari.

Oltre a quanto sopra l’assemblea :

·          approva la distribuzione degli utili

·          determina il numero degli amministratori qualora lo statuto ne indichi solo il minimo e il massimo

·          stabilisce il corrispettivo spettante ai revisori

·          esercita l’azione di responsabilità nei confronti di revisori e di liquidatori

·          ratifica gli atti compiuti in nome della società prima della sua iscrizione nel registro delle imprese

·          nomina i direttori generali

·          delibera in merito all’assunzione di partecipazioni in imprese che comportino una responsabilità illimitata (proprio con riferimento a quest’ultimo punto vale la pena di segnalare come per le s.p.a. - norma non espressamente ripresa nelle s.r.l. - è stata inserita la possibilità di essere socio in società di persone).

Come già riportato a proposito delle decisioni dei soci nelle s.r.l. (con esito, peraltro, differente) la riforma del diritto societario ha introdotto il concetto di separazione delle competenze tra organo amministrativo ed assemblea limitando il potere di quest’ultima di interferire nella gestione e demandando oneri ed onori al primo; il risvolto della medaglia, infatti, è la piena responsabilità degli amministratori per gli atti compiuti e per i quali non varrà più il preventivo assenso o la successiva ratifica dell’assemblea dei soci (ma anche, sotto un diverso profilo, è vero che la mancata o addirittura la negata autorizzazione al compimento di un atto non ne invalideranno il risultato, salve le ipotesi di rilevanza ai fini di una eventuale azione di responsabilità, se giustificabile).

3. Competenze dell’assemblea ordinaria nelle società con consiglio di sorveglianza

Nelle società ove è previsto il consiglio di sorveglianza, l’assemblea ordinaria:

·          nomina e revoca i consiglieri di sorveglianza;

·          determina il compenso ad essi spettante, se non è stabilito nello statuto;

·          delibera sulla responsabilità dei consiglieri di sorveglianza;

·          delibera sulla distribuzione degli utili;

·          nomina il revisore.

Oltre a ciò:

·          determina il compenso dei componenti il consiglio di sorveglianza e dei revisori

·          esercita l’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione e nei confronti di revisori e di liquidatori

·          ratifica gli atti compiuti in nome della società prima della sua iscrizione nel registro delle imprese

L’assemblea ordinaria, sia in presenza di consiglio di sorveglianza o meno, deve essere convocata almeno una volta l’anno entro il termine stabilito dallo statuto e, comunque, non oltre 120 giorni (erano quattro mesi) dalla chiusura dell’esercizio (termine che, ad esempio, non coincide per le società con esercizio che si chiude al 31 dicembre, negli  anni bisestili).

In merito alla prorogabilità di tale scadenza il vecchio ordinamento la ammetteva in presenza di speciali ragioni.

Oggi la dilazione del termine da 120 a 180 giorni è concessa solo in presenza di uno dei seguenti casi:

·          che la società sia soggetta alla redazione del bilancio consolidato

·          esistenza di particolari esigenze relative alla struttura ed all’oggetto della società

Si restringe il campo di azione, quindi, per procrastinare l’approvazione del bilancio d’esercizio il cui ritardo dovrà essere precisamente motivato non essendo ammesse generiche indicazioni delle cause né potranno essere rilevanti ragioni non riconducibili a quanto specificato dalla norma.

4. Competenze dell’assemblea straordinaria

L’assemblea straordinaria, come in passato, continua ad essere competente in merito alla modifiche dello statuto oltre che alla nomina, sostituzione e sui poteri dei liquidatori (oltre a quanto lo statuto vorrà demandarle).

Alcune competenze, invece, le sono state sottratte come:

·          l’emissione di obbligazioni non convertibili la cui decisione in merito spetta agli amministratori (l’emissione di obbligazioni convertibili, invece, rimane tra le prerogative dell’assemblea straordinaria importando un impegno della società ad aumentare il proprio capitale sociale)

·          alcune materie che l’atto costitutivo può demandare alla competenza dell’organo amministrativo al fine di porre in essere una radicale opera di snellimento della burocrazia interna delle società:

o         delibere di fusione partecipate almeno al 90%

o         istituzione e soppressione di sedi secondarie

o         indicazione degli amministratori cui spetta la rappresentanza sociale

o         riduzione del capitale sociale a seguito del recesso di uno o più soci

o         adeguamenti dello statuto a disposizioni normative

o         trasferimento della sede sociale all’interno del territorio nazionale

Agli amministratori, inoltre, lo statuto può delegare il potere di aumento del capitale sociale fino ad un determinato ammontare per il periodo massimo di cinque anni dalla data di iscrizione della società nel registro imprese.

5. Convocazione e costituzione

La convocazione dell’assemblea (contenente giorno, ora, luogo dell’adunanza e l’ordine del giorno) deve essere fatta a cura degli amministratori o del consiglio di gestione.

La stessa può essere fatta con le seguenti modalità alternative (ma nulla osta che lo statuto ne preveda la complementarietà):

·          pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale almeno 15 giorni prima del giorno fissato per l’assemblea

·          pubblicazione, con i medesimi limiti temporali,  su un quotidiano indicato nello statuto

·          ogni altro mezzo che garantisca la prova dell’avvenuto ricevimento inviato almeno otto giorni prima dell’assemblea (solo per le società che non fanno ricorso al capitale di rischio)

L’assemblea, poi, è soggetta a quorum costituivi e deliberativi diversi e che di seguito proviamo a riassumere:

quorum costitutivo

quorum deliberativo

ordinaria

(prima convocazione)

metà del capitale sociale (escluse le azioni senza diritto di voto ma incluse quelle per cui il diritto sussiste ma non può essere esercitato – ad esempio: azioni di risparmio, azioni per cui non è stato reso noto il patto parasociale ………)

maggioranza assoluta (escluse dal computo le azioni per cui non può essere esercitato l diritto di voto)

ordinaria

(seconda convocazione e successive)

non è previsto

maggioranza assoluta

straordinaria

(prima convocazione)

previsto solo per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: almeno la metà del capitale sociale o la maggiore percentuale prevista dallo statuto

più della metà del capitale sociale.

nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea

straordinaria

(seconda convocazione e successive)

più di un terzo del capitale sociale

più dei due terzi del capitale rappresentato in assemblea

nelle società che non fanno ricorso al capitale di rischio almeno un terzo del capitale sociale per deliberazioni in materia di:

·          cambiamento dell’oggetto sociale

·          trasformazione

·          scioglimento anticipato o proroga della società

·          revoca dello stato di liquidazione

·          trasferimento della sede sociale all’estero

·          emissione di azioni privilegiate

totalitaria

intero capitale sociale e maggioranza dei componenti gli organi amministrativi e di controllo (singolarmente considerati) con l’esclusione del revisore incaricato del controllo contabile

maggioranza assoluta

La seconda convocazione costituisce un obbligo, non derogabile dallo statuto, per gli amministratori e non una mera possibilità.

Se questa non è prevista nell’avviso di convocazione l’assemblea deve essere riconvocata entro trenta giorni dalla prima data.

Lo statuto, in ogni caso, può prevedere ulteriori convocazioni senza limiti di numero e può, altresì, richiedere maggioranze più elevate con l’esclusione dell’approvazione del bilancio d’esercizio e per la nomina o revoca dei liquidatori.

L’assemblea, infine, può essere rinviata di non oltre cinque giorni se almeno un terzo del capitale rappresentato in assemblea ne fa richiesta.

6. Diritto di intervento e rappresentanza

La nuova normativa prevede espressamente che il diritto di voto è strumentale per la possibilità di intervenire in assemblea: in altre parole, a differenza di quanto previsto precedentemente, non possono intervenire alle riunioni assembleari gli azionisti che non abbiano acquisito il diritto di voto (quali ad esempio quelli in mora con i versamenti, gli azionisti-amministratori in conflitto di interessi, gli azionisti di risparmio, …).

Non è invece più necessario, salvo espressa regolamentazione statutaria, il preventivo deposito delle azioni; sarà compito della società provvedere all’iscrizione a libro soci di coloro che partecipano all’assemblea o hanno effettuato il deposito.

Lo statuto inoltre può consentire l’intervento nell’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione o l’espressione del voto per corrispondenza.

I soci possono farsi rappresentare e, , la delega può essere conferita anche per più assemblee a meno che non si tratti di società che ricorrono al capitale di rischio (la procura generale, invece, ha valore anche per quest’ultime).

La delega, inoltre, può essere conferita a società, associazioni, fondazioni o altro ente o istituzione: queste potranno delegare solo un proprio dipendente o collaboratore (ma non è chiaro cosa si intenda con collaboratore).

7. Procedimento assembleare

Le riunioni assembleari sono soggette al regolamento che l’assemblea può autonomamente darsi a norma dell’art. 2364 c.c. e sono presiedute dalla persona indicata in statuto o, in mancanza, da chi viene designato dalla maggioranza dei presenti.

Similmente a quanto previsto nelle s.r.l. il presidente:

·          verifica la regolarità della costituzione dell’assemblea

·          accerta l’identità dei presenti

·          accerta la loro legittimazione a partecipare

·          regola lo svolgimento dei lavori

·          accerta nel verbale i risultati delle votazioni

·          Il verbale deve contenere:

·          la data

·          l’identità dei partecipanti ed il capitale rappresentato (anche in allegato)

·          le modalità ed il risultato delle votazioni

·          l’identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti (anche in allegato)

·          le dichiarazioni per riassunto, inerenti l’ordine del giorno, dei soci che ne facciano richiesta

Non sussiste più, invece, l’obbligo di redigere il verbale al termine dell’assemblea: lo stesso dovrà essere predisposto dal presidente e riportato su libro nei tempi necessari per la tempestiva esecuzione degli obblighi di deposito pubblicazione.

In sostanza, qualora questi non dovessero sussistere il verbale potrà essere redatto entro la data fissata per la successiva riunione assembleare.

Le disposizioni si applicano anche alle eventuali assemblee speciali (azioni con diritti speciali, esistenza di strumenti finanziari, ……)

8. Annullabilità e nullità delle delibere

Sono annullabili le delibere non prese in conformità della legge o dello statuto.

Soggetti legittimati all’impugnazione sono:

·          Soci assenti, dissenzienti od astenuti;

·          Amministratori, consiglio di sorveglianza e collegio sindacale

L’impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente:

·          l’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio;

·          il cinque per cento nelle altre.

Lo statuto può ridurre o escludere questo requisito.

Per l’impugnazione delle deliberazioni delle assemblee speciali queste percentuali sono riferite al capitale rappresentato dalle azioni della categoria.

I soci che non rappresentano la parte di capitale sopra indicata e quelli che, in quanto privi di voto, non sono legittimati a proporre l’impugnativa hanno diritto al risarcimento del danno ad essi direttamente derivato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto.

L’impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte:

·          entro 90 giorni dalla data della deliberazione,

·          entro 90 giorni dall’iscrizione, se la delibera è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese

·          entro 90 giorni dalla data di deposito, se la deliberazione è soggetta solo a deposito presso l’ufficio del registro delle imprese.

La deliberazione non può essere annullata:

·          per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, a meno che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea

·          per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l’errore di computo siano stati determinanti per il raggiungimento della maggioranza richiesta

·          per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale, a meno che non impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione.

L’annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto.

La deliberazione è nulla:

·          nei casi di mancata convocazione dell’assemblea;

·          di mancanza del verbale e di impossibilità o illiceità dell’oggetto.

La deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro 3 anni:

·          dalla sua iscrizione o deposito nel registro delle imprese, se la deliberazione vi è soggetta, oppure

·          dalla trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea, se la deliberazione non è soggetta né a iscrizione né a deposito.

Possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili.

La nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice.

La delibera nulla per mancata convocazione non può essere impugnata da chi, anche successivamente, abbia dichiarato il suo assenso allo svolgimento dell’assemblea.

La delibera nulla per mancanza del verbale può essere sanata mediante verbalizzazione eseguita prima dell’assemblea successiva.

La deliberazione ha effetto dalla data in cui è stata presa, ma sono salvi i diritti dei terzi che in buona fede ignoravano la deliberazione.

L’impugnazione è proposta con atto di citazione al Tribunale del luogo dove la società ha sede.

Con ricorso depositato contestualmente al deposito, anche in copia, della citazione, l’impugnante può chiedere la sospensione dell’esecuzione della deliberazione.

Il giudice, ove lo ritenga utile, esperisce il tentativo di conciliazione eventualmente suggerendo le modificazioni da apportare alla deliberazione impugnata e, ove la soluzione appaia realizzabile, rinvia adeguatamente l’udienza.

Tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza.

La trattazione della causa di merito ha inizio trascorso il termine per l’impugnazione della delibera).

[Aprile 2004] - L’istituto della certificazione dei contratti di lavoro nel decreto legislativo n°276

In attuazione dell’articolo 5 della legge delega n. 30 del 2003, con il titolo VIII (capo I, articoli da 75 a 82 e capo II, articoli 83 e 84) del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276 è stata introdotta nel nostro ordinamento la disciplina dell’istituto della certificazione dei contratti di lavoro.

Tale istituto, in base alla previsione dell’articolo 5, comma 1, lett. a) e i) della legge delega, ha carattere sperimentale. Dopo 24 mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo (ossia dal 24 ottobre 2003) è, infatti, prevista una verifica dell’attuazione delle disposizioni disciplinanti l’istituto in esame da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sentite le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La relativa procedura, “al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro” (art. 75, ma sul punto torneremo nel prosieguo del presente lavoro), avrà una doppia funzione: da un lato, fornire assistenza alle parti in ordine alla predisposizione delle clausole presenti nell’accordo contrattuale, facilitando le stesse nel concordare il programma negoziale (art. 81: “Le sedi di certificazione /…/ svolgono anche funzioni di consulenza e assistenza effettiva alle parti contrattuali /…/”); dall’altro, fissare la qualificazione giuridica del contratto concluso dalle parti (art. 75, art. 78).

Fin dalla lettura della prima disposizione dell’istituto in esame emerge chiaramente il carattere volontario della procedura di certificazione (“le parti possono ottenere la certificazione del contratto secondo la procedura volontaria stabilita nel presente Titolo”, art. 75), carattere che viene ribadito anche in successive disposizioni (“La procedura di certificazione è volontaria…”, art. 78, comma 1).

Al riguardo, è stato fin da subito sottolineato il rischio che non sia sufficiente la mera previsione formale della volontarietà della procedura perché venga effettivamente garantita la libertà decisionale del lavoratore. Una parte dei primi commentatori denuncia addirittura il rischio che il carattere volontario della procedura sia, in realtà, un requisito meramente formale, “atteso che maggior interesse alla certificazione lo ha indubbiamente il datore di lavoro, intenzionato a non correre rischi per il futuro, ove dovesse ricorrere a soluzioni negoziali che possano facilmente debordare nella subordinazione”[1]

Di qui, l’auspicio che gli organi competenti, al fine di un effettivo rispetto del presupposto della volontarietà, non si limitino a richiedere la sussistenza di una comune istanza di avvio della procedura di certificazione (requisito, come vedremo oltre, imprescindibile per l’avvio della procedura certificatoria), ma verifichino la presenza di una effettiva libertà di scelta dei soggetti coinvolti. In questo senso, sarà importante che la parte debole del rapporto possa accedere a (e, quindi, disporre di) tutte le informazioni utili ai fini dell’adozione della propria decisione.

Proseguendo nella lettura dell’articolo 75, viene delineato il campo di applicazione dell’istituto: è infatti previsto che si possa attivare la procedura di certificazione solo in caso di scelta di una delle tipologie contrattuali introdotte ex novo o modificate dal decreto stesso, ossia il lavoro intermittente o a chiamata (c.d. job on call), il lavoro a prestazioni ripartite (c.d. job sharing), il lavoro a progetto, il lavoro a tempo parziale, nonché il contratto di associazione in partecipazione ex articoli 2549-2554 c.c. (art. 75)[2]. Infine,  l’articolo 84 prevede la possibilità di ricorrere all’istituto della certificazione anche in sede di stipulazione del contratto di appalto di cui all’art. 1655 c.c. e nelle fasi di attuazione del relativo programma, “anche ai fini della distinzione concreta tra somministrazione di lavoro e appalto”.

Non è mancato chi, tra i primi commentatori della riforma, aveva intuito un raccordo tra l’istituto della certificazione, previsto dall’articolo 5 della legga delega, e la creazione di nuove figure contrattuali, previste dall’articolo 4 della stessa legge[3]

La lettura combinata delle due norme aveva, infatti, condotto parte della dottrina a porre l’attenzione sulle potenzialità della certificazione intesa come strumento di legittimazione delle nuove figure negoziali “atipiche”, con l’effetto di garantire maggior certezza alle qualificazioni convenzionali ratificate dai soggetti abilitati, mettendole tendenzialmente al riparo da eventuali successive contestazioni.

Sempre in tema di campo di applicazione, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del decreto n. 276/03, così come già stabilito dagli articoli 5 e 6 della legge delega n. 30/03, la procedura della certificazione non si applica alle Pubbliche Amministrazioni e al loro personale[4].

L’esclusione stabilita dal Legislatore non pare del tutto in linea con un utilizzo sempre maggiore di rapporti di lavoro di origine privatistica presso le Pubbliche Amministrazioni[5], e di certo non facilita il processo di armonizzazione tra settore pubblico e settore privato nel mondo del lavoro. Come è stato, infatti, osservato, la riproduzione di ordinamenti speciali non giova alla costituzione di un sistema orientato a realizzare un medesimo livello di tutela sociale[6].

A questo si aggiunge, secondo parte della dottrina, la dubbia costituzionalità da un lato dell’esclusione del datore di lavoro pubblico dall’applicazione delle nuove regole di applicazione volontaria in materia di assistenza e consulenza giuslavortistica, e, dall’altro, l’esclusione dei lavoratori pubblici dal raggio di azione di alcune tutele legislative.

Proseguendo nell’analisi testuale delle disposizioni dedicate all’istituto in esame, l’articolo 76 individua gli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro in “Commissioni di certificazione istituite presso: a) gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento ovvero a livello nazionale, quando la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale; b) le Direzioni provinciali del lavoro e le Province, secondo quanto stabilito da apposito decreto dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto; c) le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie /…./ esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo /…/” (art. 76, comma 1).

Per una maggiore comprensione  di cosa il Legislatore delegato intenda per “enti bilaterali”, si riporta la definizione fornita dal decreto stesso, secondo la quale questi sono “organismi costituiti ad iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità; l’intermediazione nell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per l’inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità retributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento” (art. 2, comma 1, lett. h).

Per quanto riguarda le commissioni di certificazione istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro e le Province, si sottolinea che il decreto ministeriale in base al quale le stesse devono essere individuate non è ancora stato emanato, nonostante il termine previsto di sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 276/2003, sia scaduto già da diverso tempo. Su tale identificazione sono state, inoltre, avanzate molte riserve, dal momento che, in questo modo, la funzione certificatoria verrebbe attribuita a soggetti già sovraccarichi di lavoro, con il rischio, quindi, di vanificare le intenzioni del legislatore.

Lo stesso ordine di critiche è stato mosso in merito alle Università, dove il numero dei docenti è spesso insufficiente a garantire una proficua didattica. A questo si aggiunga che diversi professori universitari svolgono già, oltre all’insegnamento, un’autonoma attività professionale, con il rischio, paventato da alcuni commentatori, di porre in essere un conflitto di interessi.

Sempre in tema di università, inoltre, in base al secondo comma dell’articolo 76 “per essere abilitate alla certificazione, le Università sono tenute a registrarsi presso un apposito albo istituito presso il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con apposito decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca”. In questo caso, però, non soltanto il decreto istitutivo dell’albo delle università abilitate non è stato ancora emanato, ma il testo della norma non specifica nemmeno il termine entro il quale ciò debba avvenire.

È stata, inoltre, posta una condizione per le Università che vogliano ottenere la funzione certificatoria: è infatti previsto che, “per ottenere la registrazione, le Università sono tenute ad inviare, all’atto della registrazione e ogni sei mesi, studi ed elaborati contenenti indici e criteri giurisprudenziali di qualificazione dei contratti di lavoro, con riferimento a tipologie di lavoro indicate dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali” (art. 76, comma 2).

Tale previsione è stata oggetto di ulteriori critiche, inerenti il rischio che ciò si traduca nella produzione di una spropositata quantità di scritti che per essere seriamente e utilmente vagliata richiederebbe la dedizione a tempo pieno di uno staff di studiosi all’interno del ministero. Questa notevole mole di informazioni dovrebbe essere, inoltre, utilizzata dal ministero stesso per elaborare periodicamente i “codici di buone pratiche”, previsti dall’articolo 78, comma 4 (ma sul punto torneremo nel prosieguo).

Il terzo ed ultimo comma dell’articolo 76 prevede, infine, che “le commissioni istituite ai sensi dei commi che precedono possono concludere convenzioni con le quali prevedano la costituzione di una commissione unitaria di certificazione”. In questo senso, è stata accolta l’istanza di parte della dottrina che, all’indomani della legge delega, auspicava  l’istituzione di un unico soggetto certificatorio, idoneo ad assolvere tutte le funzioni previste dalla riforma. Tale possibilità dovrebbe, infatti, fornire maggiori garanzie di adeguatezza rispetto ai compiti attribuiti agli organi certificatori, i quali presuppongono sia una rigorosa padronanza della tecnica giuridica, sia l’attitudine a percepire i reali interessi sottesi al singolo caso concreto.

L’articolo 77 disciplina la competenza territoriale dei diversi organi certificatori, stabilendo che, nel caso in cui le parti dovessero optare per le Direzioni Provinciali del Lavoro o per le Province, dovranno rivolgersi alla Commissione nella cui circoscrizione si trova l’azienda o una sua dipendenza nella quale sarà impiegato il lavoratore titolare del contratto da certificare.

Nel caso in cui, invece, le parti volessero rivolgersi alla Commissione istituita presso gli enti bilaterali, si dovrà fare riferimento a quella costituita dalle rispettive associazioni sindacali del datore e del prestatore di lavoro. Nessun vincolo territoriale è stabilito, invece, con riferimento alle Università. Nulla viene, però, stabilito nel caso in cui le parti si rivolgano ad una commissione che, ai sensi dell’articolo 77, non sia competente.

L’articolo 78 disciplina il procedimento di certificazione. Il primo comma ribadisce il carattere volontario della procedura, stabilendo che la stessa consegue obbligatoriamente ad un’istanza scritta comune delle parti del contratto.

Il secondo comma dell’articolo 78 prevede che le procedure in esame sono determinate dalle commissioni di certificazione all’atto della loro costituzione e, “si svolgono nel rispetto dei codici di buone pratiche di cui al comma 4 /…/”. Il successivo comma 4 concede al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ben sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 276/2003 (la scadenza è, dunque, prossima, ossia il 24 aprile) per adottare “con proprio decreto codici di buone pratiche per l’individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi /…/”. Come sopra accennato, all’aggiornamento periodico di tali moduli concorreranno senz’altro, ai sensi dell’articolo 76, comma 2, anche gli elaborati e gli studi che le Università abilitate alla certificazione sono tenute ad inviare al Ministero ogni sei mesi. A tali codici dovranno fare riferimento gli organi certificatori per dedurre le clausole dello schema contrattuale oggetto di certificazione.

Sempre in base all’articolo 78, comma 4, tali codici dovranno recepire, “ove esistano, le indicazioni contenute negli accordi interconfederali stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”[7]. Nella loro funzione di assistenza alle parti del contratto, sarà compito delle commissioni individuare quali, tra le clausole indisponibili (legali o collettive) previste dai codici di buone pratiche, possono essere dedotte nel contratto individuale. Ad oggi, dunque, ancora mancano i principali criteri di riferimento cui la procedura di certificazione dovrà informarsi.

Vediamo, adesso, i criteri espressamente indicati dal decreto n. 276/2003 in merito alla procedura certificatoria. In primo luogo, l’inizio del procedimento deve essere comunicato alla Direzione Provinciale del lavoro (ovviamente, questo nel caso in cui le parti non si siano rivolte alla commissione istituita presso la D.p.l stessa), la quale ha l’obbligo di provvedere a comunicare l’avvio della procedura a tutte le autorità pubbliche che subiranno gli effetti (civili, previdenziali o fiscali) dell’atto certificato. Tali autorità hanno la facoltà di presentare osservazioni alla commissione certificatoria (art. 78, comma 2, lett. a; la norma, però, non precisa il termine, come vedremo al punto successivo, sicuramente inferiore a trenta giorni, entro cui dette osservazioni debbano pervenire alla commissione).

Il procedimento di certificazione deve, in ogni caso, concludersi entro il termine di trenta giorni dal ricevimento da parte della commissione dell’istanza scritta (art. 78, comma 2, lett. b). Anche in questo caso, però, la norma non disciplina l’ipotesi in cui tale limite temporale venga superato[8].

L’atto di certificazione deve essere motivato e deve contenere il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere, nonché l’esplicita indicazione degli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali in relazione ai quali le parti richiedono la certificazione (art. 78, comma 2, lett. c e d). I principi appena illustrati sono gli stessi previsti dalla legge n. 241/1990 in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Alla luce di ciò, l’atto certificatorio assumerebbe una natura paragonabile a quella del provvedimento amministrativo, il quale assolve la funzione di “certezza pubblica”, ed è non solo materialmente redatto, ma anche giuridicamente imputabile all’organo che lo emana. Nondimeno, se tali principi non fossero stati adottati dal decreto in esame, sarebbero stati applicabili solo al procedimento di certificazione operato dalla pubblica amministrazione, e non anche a quello operato dal soggetto privato.

I codici di buone pratiche e gli altri principi appena illustrati contribuiscono a rendere marginale il potere di autonomia accordato ai privati e agli uffici pubblici nella determinazione della prassi da seguire nell’attività certificatoria. Come vedremo, infatti, l’atto illegittimo sotto il profilo procedurale non soltanto non avrà valore giuridico, ma potrà costituire causa di ricorso al TAR per violazione del procedimento o per eccesso di potere (articolo 80, comma 5).

Ad uniformare ulteriormente le procedure di certificazione e a restringere il margine di discrezionalità delle commissioni di certificazione concorre anche un altro elemento. Il quinto comma dell’articolo 78 prevede, infatti, che il Ministro del Lavoro definisca, con decreto, appositi moduli e formulari per la certificazione dei contratti di lavoro.

Questi formulari dovranno tenere conto dei prevalenti orientamenti “giurisprudenziali in tema di qualificazione del contratto di lavoro, come autonomo o subordinato, in relazione alle diverse tipologie di lavoro”. Anche in questo caso, inoltre, all’aggiornamento periodico di tali moduli concorreranno senz’altro anche gli elaborati e gli studi che le Università invieranno al Ministero ogni sei mesi.

Infine, ai sensi del terzo comma dell’articolo 78, “i contratti di lavoro certificati e la relativa pratica di documentazione devono essere conservati presso le sedi di certificazione per un periodo di almeno cinque anni a far data dalla loro scadenza”. Tale termine, ovviamente, varrà solo per i contratti a tempo determinato.

Uno dei motivi di tale disposizione è, sicuramente, rinvenibile in quanto previsto dal terzo comma dell’articolo 80, ossia nel fatto che “il comportamento complessivo tenuto dalle parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro /…/ potrà essere valutato dal giudice del lavoro ai sensi degli articoli 9 (si ritiene che quest’indicazione costituisca un errore materiale, volendo il Legislatore indicare in realtà l’articolo 91), 92 e 96 del C.p.c.”, e, pertanto, solo in relazione alle spese del giudizio e all’eventuale risarcimento del danno per lite temeraria.

Ma vediamo, adesso, quale valenza giuridica avrà il contratto di lavoro regolarmente certificato. L’articolo 79 del decreto in esame, relativo all’efficacia giuridica della certificazione, dispone che “gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione /…/ permangono, anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’articolo 80, fatti salvi i provvedimenti cautelari”.

In primo luogo si sottolinea che il testo della norma, limitandosi alla dizione “sentenza di merito”, non specifica se la sentenza cui si riferisce sia quella di primo grado ovvero la sentenza passata in giudicato. La quasi totalità dei commentatori, al riguardo, ha optato per il passaggio in giudicato della sentenza[9].

In ogni caso, la disposizione appena riportata si limita ad enunciare l’esistenza di effetti conseguenti alla certificazione, senza, tuttavia, precisarli. Sicuramente, nel decreto in esame non trovano riscontro le espressioni forse troppo trionfali utilizzate dal Legislatore delegante (quali, ad esempio, “l’attribuzione di piena forza legale al contratto certificato” ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lett. e della legge delega).

L’articolo 79 prevede, comunque, la possibilità di agire nei confronti dell’atto certificato anche in via cautelare, consentendo così alle parti (e ai terzi che vi abbiano interesse) la tutela in via immediata di diritti, derivanti da una diversa qualificazione del rapporto di lavoro, altrimenti impossibile fino alla pronuncia di merito.

Alla luce di ciò risulta, pertanto, condivisibile l’interpretazione di chi ritiene che il contratto di lavoro certificato diviene intangibile per le parti ed i terzi limitatamente alla possibilità di porre in essere atti di autotutela riconducibili ad una differente tipologia negoziale, fino a che eventuali provvedimenti cautelari non anticipino la pronuncia giurisdizionale[10].

Più specificamente, a titolo esemplificativo, la sussistenza di un contratto certificato parrebbe precludere agli enti previdenziali, quali l’Inps, la possibilità di emettere ingiunzioni di pagamento sulla base delle risultanze dei semplici verbali di accertamento dei funzionari preposti. In presenza di un rapporto certificato, l’Inps dovrebbe infatti preventivamente impugnare la certificazione ai sensi dell’articolo 80 del decreto in esame, richiamato nell’immediato prosieguo.

La certificazione attiene, dunque, alle conseguenze giuridiche dell’accordo contrattuale, imprimendo a quest’ultimo non “piena forza legale”, bensì una sorta di “temporanea immunità”[11], fino ad un eventuale e diverso accertamento giudiziale. Alla luce di ciò, l’efficacia dell’intero istituto, finalizzato proprio alla riduzione del contenzioso giudiziario in materia di qualificazione dei contratti, appare di portata limitata.

Invero, la disciplina dettata dal decreto in esame non solo non impedisce la tutela giurisdizionale dei diritti dei lavoratori o dei terzi (in caso contrario ci si sarebbe trovati di fronte ad imprescindibili questioni di illegittimità costituzionale), ma, a ben vedere, non opera nemmeno da argine.

In base all’articolo 80, comma 1, infatti, “nei confronti dell’atto di certificazione, le parti e i terzi nella cui sfera giuridica l’atto stesso è destinato a produrre effetti, possono proporre ricorso, presso l’autorità giudiziaria di cui all’articolo 413 C.p.c., per erronea qualificazione del contratto oppure difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Sempre presso la medesima autorità giudiziaria, le parti /…/ potranno impugnare l’atto di certificazione anche per i vizi del consenso”. Sul punto viene da chiedersi quali motivi di impugnativa il Legislatore abbia inteso lasciare fuori dalla previsione, dal momento che i casi indicati dalla norma esauriscono la quasi totalità dei motivi di ricorso.

Nel caso di ricorso per erronea qualificazione non è, però, prevista alcuna responsabilità in capo alle commissioni che hanno, in un primo momento, fornito l’assistenza e la consulenza giuridica alle parti, e, successivamente, effettuato la certificazione. Al riguardo, si registra l’opinione di chi ritiene che il datore di lavoro potrà chiedere il risarcimento del danno all’ente certificatore nel caso sia accertata l’erronea qualificazione del contratto, che comunque condurrà ad un’ulteriore controversia giudiziaria[12].

In ogni caso, ai sensi del secondo comma dell’articolo 80, l’accertamento giurisdizionale ha effetto retroattivo: nel caso di ricorso per erronea qualificazione del rapporto, questo avrà effetto fin dal momento della conclusione del contratto; nel caso di ricorso per difformità, invece, avrà effetto dal momento in cui ha avuto inizio l’accertata difformità.

Infine, ai sensi del quarto comma dell’articolo 80, il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’articolo 410 C.p.c., dovrà svolgersi dinanzi all’organo che ha effettuato la certificazione. Tale tentativo di conciliazione andrà a sostituire quello previsto dall’articolo 410 C.p.c. Questa previsione risulta funzionale alla dichiarata finalità di ridurre il contenzioso, in quanto si presume che la valutazione espressa dalla stessa commissione che a suo tempo fornì consulenza giuridica e certificò il contratto, sarà in grado di contribuire a trovare una soluzione più adeguata al reale assetto dei contrapposti interessi.

Come sopra accennato, dalla disciplina in esame è anche prevista la possibilità di adire al Tribunale Amministrativo Regionale nella cui giurisdizione ha sede la commissione che ha certificato il contratto per violazione della procedura o per eccesso di potere (art. 80, comma 5). Secondo l’interpretazione di alcuni, l’impugnabilità della certificazione per eccesso di potere presuppone l’esercizio di un potere discrezionale da parte della commissione che in realtà non esiste, fondandosi l’attività di certificazione esclusivamente sull’esatta applicazione di norme giuridiche. Conseguentemente, si sarebbe dovuta prevedere la possibilità di impugnare l’atto certificato per violazione di leggi ulteriori rispetto a quelle relative alla procedura[13]. Tale previsione conferma la scelta legislativa di riconoscere alla certificazione natura di atto amministrativo, anche nell’ipotesi in cui venga posta in essere da un organismo privato (come, ad esempio, l’ente bilaterale).

Un ultimo aspetto è quello disciplinato dall’articolo 82, in base al quale “le sedi di certificazione di cui all’articolo 76, comma 1, lett. a) /…/ (ovvero, le commissioni istituite presso gli enti bilaterali) sono competenti altresì a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’articolo 2113 C.p.c. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse”. La norma parrebbe introdurre la possibilità, soltanto per le commissioni istituite presso gli enti bilaterali, di applicare la procedura della certificazione anche alle rinunzie e transazioni operate ai sensi dell’articolo 2113 C.p.c..

Trattandosi di certificazione delle rinunzie e delle transazioni, parrebbe legittimo supporre che la stessa certificazione venga assoggettata al regime delle impugnazioni previsto dall’articolo 80, comma 1 già richiamato. Tuttavia, non risulta obbiettivamente chiaro se tutte le ipotesi di impugnazione previste dall’articolo possano essere effettivamente compatibili con la certificazione di un atto unilaterale, quale è la rinunzia.

L’ipotesi appena descritta non va, però, confusa con quanto previsto dall’articolo 68 dello stesso decreto. Quest’ultima disposizione, infatti, non soltanto è dettata esclusivamente in materia di lavoro a progetto (mentre l’articolo 82 è applicabile a tutti i rapporti certificabili), ma stabilisce la diversa possibilità che i diritti derivanti esclusivamente dal lavoro a progetto siano oggetto di rinunzie o di transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro (mentre l’articolo 82 stabilisce, come abbiamo illustrato, che eventuali rinunzie o transazioni operate dalle parti ai sensi dell’articolo 2113 C.p.c. e relative ad uno qualunque dei rapporti certificabili, possono essere certificate esclusivamente dalle commissioni istituite presso gli enti bilaterali).

In conclusione, dalla complessiva analisi svolta in questa sede, emerge che, a fronte dell’ambizioso progetto perseguito dal Legislatore, finalizzato, in primo luogo, a ridurre il contenzioso giurisdizionale in tema di qualificazione di rapporti di lavoro, gli strumenti concretamente predisposti si presentano quantomeno fragili.

La mancata emissione da parte del Ministero dei decreti previsti dal provvedimento in esame, indispensabili per il funzionamento dell’intero impianto certificatorio (si pensi, ad esempio, al decreto ministeriale di individuazione dei codici di buone pratiche, o a quello di definizione dei moduli e formulari, o, ancora, a quello relativo alle commissioni di certificazione da istituirsi presso le Direzioni Provinciali de Lavoro) non fa che aumentare i dubbi circa l’effettiva utilizzabilità e la reale efficacia dell’istituto della certificazione.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners. La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[1]  “Il caso della delega in materia di certificazione dei rapporti di lavoro ex articolo 5 l. n. 30/’03”, Il Diritto del Lavoro 1-2/2003, Fondazione Diritto del Lavoro L. A. Miglioranzi.

[2]  A differenza di quanto previsto nella legge delega n. 30/2003, le prestazioni di lavoro occasionale e accessorio non sono menzionate tra i contratti che possono ottenere la certificazione. Come osservato da alcuni, per questi tipi di rapporti, legati più ad opportunità contingenti che ad un vero progetto negoziale, sarebbe difficile predisporre un’attività certificatoria. Inoltre, data la loro limitata portata sia in ordine alla durata temporale, sia in ordine al reddito, verrebbe meno anche il principale obiettivo della certificazione, ossia la riduzione del contenzioso (“Lavoro e previdenza oggi”, 1/2004, Iuridica Editrice).

[3]  “I nuovi spazi dell’autonomia privata nel diritto del lavoro: critiche al modello come strumento della qualificazione dei rapporti”, Il Diritto del Lavoro 1-2/2003, Fondazione Diritto del Lavoro L. A. Miglioranzi.

[4] Questa esclusione presenta diversi profili di criticità ed è esposta al vaglio della Corte Costituzionale. Dubbi sulla costituzionalità di tale esclusione sono stati sollevati da diversi autori (L. Zoppoli, La subordinazione tra persistenti disuguaglianze e tendenze neo-autoritarie, intervento al Seminario di studio Marco Biagi su “Lavoro subordinato, lavoro coordinato e dintorni”; R. Santucci, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle Pubbliche Amministrazioni, in Aidlass, “Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Pesaro – Urbino, 24-25 maggio 2002).

[5] Da un punto di vista pratico, infatti, tale esclusione non considera il ricorso crescente delle Pubbliche Amministrazioni a modalità di lavoro flessibili (part-time, contratti a termine, lavoro interinale, collaborazioni coordinate e continuative), derogando, inoltre, alla regola generale dell’applicabilità alle P.A. delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato dell’impresa sancita dall’art. 2, comma 2 del decreto legislativo n. 165/2001 (c.d. Testo Unico sul pubblico impiego).

[6] Considerazioni in questo senso sono state espresse dal CNEL secondo il quale la omogeneizzazione del rapporto di lavoro pubblico e privato è d’interesse fondamentale per il Paese (Parere sul disegno di legge S-848/2001, concernente la delega in materia di occupazione e mercato del lavoro del 18 febbraio 2002).

[7] Ai sensi dell’articolo 86, comma 13 del decreto legislativo n. 276/2003, entro cinque giorni successivi all’entrata in vigore del decreto, è previsto che il Ministro del Lavoro convochi le predette associazioni al fine di verificare la possibilità di affidare ad uno o più accordi interconfederali la gestione della messa a regime del decreto stesso, anche con riferimento al regime transitorio e all’attuazione dei rinvii alla contrattazione collettiva. Ad oggi, si registra la sottoscrizione di un solo Accordo interconfederale relativo al regime transitorio dei contratti di formazione e lavoro (13/11/2003).

[8] Sul punto, qualche autore rileva come tale termine, in assenza di specifiche sanzioni, sia ordinatorio, e ciò in conformità con quanto previsto dall’articolo 2 della legge n. 241/1990, ai sensi del quale il termine entro cui concludere il procedimento è sempre ordinatorio ed il suo superamento non determina decadenza del potere di emanare l’atto, né l’illegittimità di quello adottato (Speziale, “La certificazione dei contratti di lavoro”).

[9] Sul punto, si registra l’interpretazione opposta fornita in “Lavoro e previdenza oggi”, 1/2004, Iuridica Editrice.

[10] Nogler, “Il nuovo istituto della certificazione dei contratti di lavoro”.

[11] Speziale, “La certificazione dei contratti di lavoro”, op. cit.

[12] F. Toffoletto, “Resta il rischio-contenzioso: giudici svincolati dal visto”, su Il Sole 24 Ore del 6 settembre 2003, n. 244.

[13] (E. Ghera, “Nuove tipologie contrattuali e certificazione dei rapporti di lavoro”; L. Nogler, “Il nuovo istituto della certificazione dei contratti di lavoro”; V. Speziale, “La certificazione dei contratti di lavoro”)

[Febbraio 2004] - L’istituto del lavoro a progetto dopo la circolare ministeriale interpretativa

Il capo I del titolo VII del Decreto Legislativo n. 276/03 ha ricevuto una prima (e tanto attesa) interpretazione autentica con la circolare n. 1/2004 pubblicata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’8 gennaio 2004. Il testo della circolare, recante per oggetto la “Disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità cosiddetta a progetto” detta le prime “istruzioni” sull’attuazione delle regole per i nuovi collaboratori.

In questa sede, dunque, esamineremo le soluzioni interpretative recentemente dettate dal Ministero, soluzioni che, ben s’intende, potrebbero anche non vincolare l’elaborazione giurisprudenziale, cercando di seguire l’ordine espositivo scelto dal testo e sottolineando quegli aspetti della disciplina che, a nostro avviso, continuano a presentare difficoltà interpretative e problematiche applicative.

Il primo punto del testo ministeriale è dedicato alla definizione e al campo di applicazione del nuovo istituto. La definizione è integralmente ripresa dall’articolo 61 del Decreto Legislativo 276/03, cui il Ministero opera un esplicito richiamo (sul punto, si rimanda, pertanto, alla circolare n. 50 già pubblicata sul sito www.onlinelex.com).

Per quel che riguarda il campo di applicazione, il Ministero precisa che l’articolo 61 del decreto non sostituisce né modifica l’articolo 409 n. 3 c.p.c., ma si limita ad individuare le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa del collaboratore a progetto. Tali modalità di svolgimento servono a qualificare la fattispecie sotto l’aspetto dell’autonomia (come illustreremo in seguito, infatti, ai sensi dell’art. 61, comma 1, il progetto o programma di lavoro o fase di esso è sì determinato dal committente, ma è poi gestito autonomamente dal collaboratore).

Al riguardo, si sottolinea, inoltre, che l’istituto del lavoro a progetto non comprende in sé l’intera area della cosiddetta parasubordinazione. Lo stesso articolo 61, infatti, opera una serie di esclusioni dall’applicazione della fattispecie in esame (prestazioni occasionali, ovvero collaborazioni coordinate e continuative “minori” per le quali non si è ritenuto necessario il riferimento ad un progetto; agenti e rappresentanti di commercio, che continuano ad essere regolati dalla disciplina speciale; professioni intellettuali, per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi esistenti alla data del 24 ottobre 2003; collaborazioni rese nei confronti di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni; componenti di organi di amministrazione e controllo di società; partecipanti a collegi e commissioni; collaboratori che percepiscono pensione di vecchiaia).

L’intento che emerge dalla disciplina dettata dal Legislatore, e che viene ribadito dalla circolare ministeriale, è quello di impedire un utilizzo improprio o fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative in elusione della normativa inderogabile del diritto del lavoro (le ipotesi espressamente escluse dall’applicazione del nuovo istituto sono, infatti, fattispecie che, data la loro limitata portata, non presentano significativi rischi di elusione della normativa inderogabile posta a tutela del lavoratore). Le considerazioni in merito all’effettivo raggiungimento di tale obiettivo non possono prescindere da una analisi relativa all’impianto sanzionatorio previsto per i casi di collaborazioni irregolari, del quale ci occuperemo nella parte conclusiva del presente lavoro.

Il Ministero ribadisce, infine, che le innovazioni introdotte dall’articolo 61 del decreto (lavoro a progetto e prestazioni occasionali) non comportano l’abrogazione della fattispecie del contratto d’opera di cui all’articolo 2222 e seguenti del codice civile. Nel caso in cui, dunque, un prestatore d’opera superi, nel rapporto con uno stesso committente, uno dei due requisiti dettati dall’articolo 61, comma 2 del decreto (trenta giorni nel corso dell’anno solare e compenso complessivamente percepito non superiore a 5 mila euro), il proprio rapporto non dovrà essere necessariamente ricondotto ad una collaborazione a progetto. Il contratto d’opera previsto dal codice continuerà, pertanto, ad esistere come fattispecie diversa ed autonoma rispetto alla collaborazione a progetto.

Sempre in materia di campo di applicazione, per quanto riguarda il settore della pubblica amministrazione, il testo ministeriale ribadisce che, ai sensi dell’articolo 1 del decreto, la stessa “può continuare a stipulare contratti di collaborazione senza tener conto dei limiti introdotti dalla novella, mantenendo il riferimento all’articolo 409 n. 3 del Codice di procedura civile, la cui previsione, per i rapporti che vedano una parte pubblica, non ha subito modificazioni”.

In conclusione, dunque, a partire dal 24 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del Decreto Legislativo 276/03), fatti salvi i casi in cui sia parte la pubblica amministrazione e le ipotesi di esplicita esclusione di cui all’articolo 61 del decreto 276/03 sopra richiamate, non è più possibile porre in essere rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che non siano riconducibili alla fattispecie del lavoro a progetto.

Secondo un’autorevole analisi dedicata proprio alla sorte dei rapporti di collaborazione posti in essere prima della riforma, e che quindi non fanno riferimento ad un progetto o a un programma di lavoro, solo le collaborazioni fittizie, ossia quelle che in sostanza configurano rapporti di lavoro subordinato, non sarebbero suscettibili di essere ricondotte ad un progetto. Questo perché, secondo tale lettura, “nell’ambito di un rapporto di lavoro effettivamente autonomo, seppure coordinato e continuativo, è sempre possibile individuare il progetto o programma che il collaboratore deve realizzare /…/. E, cioè, è sempre possibile individuare ex ante l’esposizione o il “piano” che le parti ritengono debba essere fatto per la realizzazione dell’opera o del servizio” (Intervento pubblicato su Il Sole-24 Ore del 22/11/03 del Prof. Giampiero Proia, Docente ordinario di Diritto del lavoro – Università Roma Tre).

Il secondo punto del testo ministeriale è, invece, dedicato ai requisiti qualificanti della fattispecie. Gli elementi essenziali richiamati, al riguardo, dalla circolare sono, prima ancora del riferimento al progetto (requisito del quale diremo nel prosieguo del presente lavoro), l’autonomia del collaboratore nello svolgimento dell’attività lavorativa dedotta nel contratto, la coordinazione con l’organizzazione del committente, e  l’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione. Tali requisiti, a detta del Ministero, “rappresentano il fulcro della differenziazione tra la tipologia contrattuale in esame e quelle riconducibili, da un lato, al lavoro subordinato e, dall’altro, al lavoro autonomo (articolo 2222 Codice civile)”.

Più precisamente, l’autonomia gestionale del collaboratore, elemento che maggiormente differenzia le collaborazioni a progetto dai rapporti di lavoro subordinato, riguarda “la definizione dei tempi di lavoro e delle relative modalità” di esecuzione del progetto, che, a quanto si legge nella circolare, “deve essere  rimessa al collaboratore”.

Tale assunto, apparentemente lineare, subisce, però, una compromissione nel prosieguo del testo stesso, ove si legge infatti che “indipendentemente da ciò, pur tuttavia, il collaboratore a progetto può operare all’interno del ciclo produttivo del committente e, per questo, deve necessariamente coordinare la propria prestazione con le esigenze del committente. Il coordinamento può essere riferito sia ai tempi di lavoro che alle modalità di esecuzione del progetto o del programma di lavoro, ferma restando, ovviamente, l’impossibilità del committente di richiedere una prestazione o un’attività esulante dal progetto o programma di lavoro originariamente convenuto”. L’individuazione di un punto di equilibrio tra l’autonomia gestionale del collaboratore e le esigenze del committente è, a quanto pare, lasciata alla contrattazione delle parti, dal momento che, sul punto, la circolare si limita ad enunciazioni di principio, senza fornire parametri concreti utili per l’interprete e per le stesse parti.

Per quanto concerne la durata del rapporto di collaborazione a progetto, si ribadisce semplicemente che questa deve essere determinata o determinabile, in funzione della durata e delle caratteristiche del progetto, del programma di lavoro o della fase di esso. Apparentemente in piena linea con quanto sopra, infatti, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, il contratto si risolve al momento della realizzazione del progetto o del programma di lavoro o della fase di esso. Molte perplessità suscita, infatti, il riferimento al concetto di “risoluzione” operato dal Legislatore e ripreso dal Ministero, dal momento che tale concetto rimanda ad un istituto civilistico ben preciso, i cui elementi non sono ravvisabili nell’ipotesi prevista dall’articolo 67, comma 1.

In tema di risoluzione del rapporto, l’ottavo punto della circolare aggiunge che, nel caso in cui il progetto venga ultimato prima della scadenza del termine previsto e il contratto debba, dunque,  intendersi risolto, “il compenso determinato nel contratto sarà dovuto comunque per l’intero”.

Per quanto riguarda, infine, il vero elemento di novità introdotto dalla riforma, il Ministero opera una distinzione tra i concetti di progetto e di programma di lavoro, riconducendo il primo ad “un’attività produttiva ben identificabile e funzionalmente collegata a un determinato risultato finale cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione”. Il programma di lavoro (assimilato alla fase di lavoro) è, invece, ricondotto ad un tipo di attività non direttamente collegata ad un risultato finale, bensì a un risultato solo parziale, destinato, dunque, ad essere integrato da altre lavorazioni e risultati parziali.

Il progetto, prosegue il testo ministeriale con un’affermazione foriera di intuibili problematiche interpretative ed applicative, può essere connesso sia all’attività principale dell’impresa, sia a quella accessoria; l’individuazione del progetto è, inoltre, di esclusiva competenza del committente, le cui valutazioni e scelte tecniche, organizzative e produttive rimangono insindacabili.

Nel terzo punto della circolare ministeriale, dedicato alla forma del contratto, si ribadisce che lo stesso è stipulato per iscritto ma che tale forma è richiesta ad probationem e non ad substantiam. Dopo l’elenco degli elementi che, ai fini della prova del rapporto, vanno inseriti nel contratto (sul punto si rimanda alla circolare n. 50 già pubblicata sul sito www.onlinelex.com) si sottolinea, però, che “seppure la forma scritta sia richiesta solo ai fini della prova, quest’ultima sembra assumere valore decisivo rispetto alla individuazione del progetto, del programma o della fase di esso (che, lo si ricorda, è uno degli elementi da indicare nel contratto) in quanto, in assenza di forma scritta, non sarà agevole per le parti contrattuali dimostrare la riconducibilità della prestazione lavorativa appunto a un progetto, programma di lavoro o fase di esso”. Sul punto, dalla semplice lettura del passaggio qui riportato, emerge una mal celata ambiguità di impostazione ideologica, probabilmente dovuta al tentativo di conciliare la tutela del collaboratore, da un lato, e la sostanziale libertà di forma, dall’altro.

Non ci si può sottrarre, inoltre, dal segnalare  che, nonostante il contenuto letterale dell’articolo 62 (e dell’articolo 69, di cui diremo nella parte conclusiva del presente lavoro), le prime interpretazioni della prevalente dottrina sono propense a ritenere che, nell’ipotesi di mancata individuazione in forma scritta di uno specifico progetto, o programma di lavoro, o fase di esso, sarebbe operante l’automatica ed immediata sanzione della conversione del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data della sua costituzione.

Il quarto punto del testo ministeriale riguarda le possibilità di rinnovo del contratto, possibilità non prevista nel decreto legge. Anche in questo caso, purtroppo, il contributo chiarificatorio apportato dalla circolare (sul punto, non soltanto interpretativa) è veramente di scarso spessore. A parte l’ipotesi in cui lo stesso collaboratore venga impiegato per la realizzazione di diversi e successivi progetti (o programmi di lavoro o fasi di esso), ipotesi, questa, che non solleva rilevanti perplessità, più controverso appare, invece, il caso in cui “analogo progetto o programma di lavoro può essere oggetto di successivi contratti di lavoro con lo stesso collaboratore”.

Considerando che, come si legge poco dopo, “i rinnovi, così come nuovi progetti in cui sia impiegato lo stesso collaboratore, non devono costituire strumenti elusivi dell’attuale disciplina”, non si comprende come addirittura lo stesso progetto possa essere oggetto di diversi e successivi contratti con lo stesso collaboratore senza che questo comporti l’elusione dell’attuale disciplina.

Il quinto punto della circolare, relativo al corrispettivo, riprende quanto stabilito nell’articolo 63 del decreto legislativo, disponendo che lo stesso “deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito”. Si ribadisce, inoltre, che il parametro scelto dal legislatore consiste nei “compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”.

Il testo ministeriale prosegue, poi, introducendo un aspetto di cui non v’è traccia nel decreto legislativo e stabilisce che le parti del rapporto possono “disciplinare nel contratto anche i criteri attraverso i quali sia possibile escludere o ridurre il compenso pattuito nel caso in cui il risultato non sia stato perseguito o la qualità del medesimo sia tale da comprometterne l’utilità”.

In tema di tutele, il punto 6 del testo ministeriale ribadisce la volontà del Legislatore di incrementare l’apparato di tutela in favore del collaboratore in caso di malattia, infortunio o gravidanza. Queste ipotesi, infatti, non comportano l’estinzione del rapporto, bensì la sua semplice sospensione (senza, naturalmente, erogazione del corrispettivo). Mentre, però, in caso di malattia o infortunio la sospensione non comporta una proroga del rapporto (salvo diverso accordo tra le parti), in caso di gravidanza la durata del rapporto è prorogata di diritto per un periodo minimo di 180 giorni (salvo, anche qui, disposizioni più favorevoli stabilite nel contratto individuale). In caso di malattia o infortunio, inoltre, il committente può esercitare il diritto di recesso solo se la sospensione si protrae per un periodo superiore a trenta giorni, nei contratti di durata determinabile, o superiore a un sesto della durata stabilita nel contratto, nei rapporti a tempo determinato.

In argomento di tutele, la circolare solleva, inoltre, una problematica che il Legislatore, nel disporre per i contratti in esame l’applicazione del Decreto legislativo n. 626 del 1994, non aveva considerato. Riguardo alla protezione fornita da tale decreto contro i rischi lavorativi, infatti, il Ministero considera la ratio del decreto stesso, ossia la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori subordinati, e la conseguente responsabilizzazione dei datori di lavoro.

Conseguentemente, il Ministero osserva come “non poche prescrizioni di tale provvedimento (per lo più sanzionate penalmente) risultano di problematica applicazione nei confronti di figure, come quelle dei collaboratori, fortemente connotate da una componente di autonomia nello svolgimento della prestazione”.

Alla luce di quanto sopra, il Ministero conclude evidenziando il fatto che “l’attuazione della delega per il riassetto normativo in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro costituisce l’occasione per un adattamento dei principi generali di tutela prevenzionistica alle oggettive peculiarità del lavoro a progetto”.  Anche in questo caso, quindi, siamo di fronte non ad un intervento di chiarimento, bensì ad un semplice rimando alla futura attuazione di una specifica delega.

Un altro aspetto poco lineare della disciplina è quello relativo alle rinunzie e transazioni di cui all’articolo 68 del decreto 276, dal momento che tale istituto è previsto e disciplinato in via generale dall’articolo 82 dello stesso decreto, e non si capisce il motivo per cui sia stato ripreso in altra disposizione relativa solo alle collaborazioni a progetto.  Sul punto, la circolare si limita semplicemente a riportare il contenuto dell’articolo 68, tralasciando di chiarire le ragioni di tale ripetizione.

In tema di sanzioni, il decimo punto del testo ministeriale ripropone integralmente lo schema dell’articolo 69 del decreto 276 (intitolato, appunto, “Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto”).

Nella prima parte si legge, infatti, che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”. A tale proposito il Ministero, contraddicendo, come già accennato in precedenza, le prevalenti interpretazioni fornite dalla dottrina, chiarisce, però, che “si tratta di una presunzione che può essere superata qualora il committente fornisca in giudizio la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro effettivamente autonomo”. Proseguendo nella lettura del testo, si legge infatti che “la mancata deduzione del progetto nel contratto preclude solo la possibilità di dimostrarne l’esistenza e la consistenza con prova testimoniale”.

Nel secondo capoverso si legge, invece, che qualora “venga accertato dal Giudice che il rapporto instaurato sia venuto a configurare un contratto di lavoro subordinato per difetto del requisito dell’autonomia, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti”. Il Ministero, inoltre, nel ribadire che il controllo giudiziale è limitato all’accertamento dell’esistenza di un progetto, o programma di lavoro, o fase di esso, precisa che “detto controllo concerne l’esistenza nei fatti di un progetto, e non la sua mera deduzione nel contratto”.

Nonostante gli sforzi chiarificatori operati dalla circolare, rimangono ancora tanti gli aspetti della disciplina sanzionatoria tuttora poco chiari. In entrambi i casi, infatti, al di là degli elementi formalmente dedotti nel contratto, la prova dell’esistenza di un rapporto sostanzialmente autonomo che ricade sul committente non può non risentire dell’ambiguità tipica dell’area della parasubordinazione, dove il difficile equilibrio tra l’autonomia e il coordinamento è lasciato alla contrattazione individuale delle parti.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners. La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Gennaio 2004] - Le prestazioni occasionali, accessorie e non, nel decreto legislativo 276/2003

Gli articoli dal 70 al 73 del decreto legislativo n.273/2003 delineano, in attuazione dell’articolo 4 comma 1, lett. d della legge 30/2003, la fattispecie delle prestazioni occasionali di tipo accessorio, definendo tali prestazioni come quelle “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mondo del lavoro, ovvero in procinto di uscirne” (art. 70, comma 1).

L’istituto in esame è una novità introdotta dalla legge di riforma del mercato del lavoro. Tale scelta legislativa risponde a due diverse finalità: da un lato, l’intento di  tutelare quelle forme di lavoro che, per il loro carattere “secondario” e discontinuo, rischiano di sfuggire alle tutele fornite dalle disposizioni legislative, rimanendo spesso nel mondo del sommerso; dall’altro, l’impegno a favorire l’inserimento di fasce cosiddette “deboli” nel mondo del lavoro.

L’articolo 70 del decreto attuativo definisce, sempre al primo comma, l’ambito nel quale la fattispecie in esame può trovare applicazione, elencando i seguenti settori:

a)    piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o portatrici di handicap;

b)   insegnamento privato o supplementare;

c)    piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti;

d)   realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli;

e)    collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà.

La specificità delle attività richiamate dal Legislatore lascia intendere che, come anche suggerito dai primi commentatori, l’elencazione sopra riportata abbia carattere tassativo e non meramente esemplificativo.

Riguardo ai settori indicati dal decreto quali ambito di applicabilità dell’istituto in esame, una parte dei primi commentatori ha mosso alcune critiche alla locuzione “occasionale accessorio” usata dal Legislatore. Secondo alcuni, infatti, tale locuzione condurrebbe a risultati pratici contraddittori, vanificando l’intento della riforma di fornire tutela a quei rapporti di lavoro che spesso rimangono nel sommerso.

Se è vero che un’area in cui è particolarmente frequente l’irregolarità del rapporto di lavoro è quella dei servizi domestici resi alla famiglia e delle prestazioni rese a favore di istituzioni che svolgono assistenza sociale, il riferimento al carattere di “occasionalità” rischierebbe, allora, di impedire la regolarizzazione di attività che implicano una certa continuità (si pensi, ad esempio, all’assistenza a persona anziane o portatrici di handicap). Il criterio della “accessorietà, inoltre, escluderebbe dal nuovo istituto tutte quelle attività che rivestono  natura essenziale per il soggetto fruitore.

Proseguendo, però, nell’esame della disciplina dettata per le prestazioni occasionali di tipo accessorio, si coglie l’esplicita volontà del Legislatore di escludere dall’applicazione delle norme in esame tutte quelle attività caratterizzate dalla continuità e dall’essenzialità.

Il secondo comma dell’articolo 70, infatti, introduce due requisiti di natura oggettiva che caratterizzano la fattispecie in esame delimitandone ulteriormente l’ambito di applicazione: le attività lavorative elencate al primo comma configurano, infatti, prestazioni occasionali di tipo accessorio solo se “coinvolgono il lavoratore per una durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare” e se “non danno complessivamente luogo a compensi superiori a 3 mila euro sempre nel corso di un anno solare”. Tali limiti temporali ed economici devono essere rispettati anche nel caso in cui le attività lavorative siano svolte a favore di più beneficiari.

L’articolo 71, comma 1, fornisce, invece, l’elenco, anch’esso con carattere tassativo, delle categorie di soggetti abilitati a svolgere attività di lavoro accessorio, indicando:

a)      disoccupati da oltre un anno;

b)      casalinghe, studenti e pensionati;

c)      disabili e soggetti in comunità di recupero;

d)      lavoratori extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro.

Il secondo comma dell’articolo 71 delinea l’iter di accesso alla fattispecie in esame, ponendo a carico dei soggetti interessati a svolgere prestazioni di lavoro accessorio, e comunque appartenenti ad una delle categorie elencate, un onere di comunicazione. La norma dispone, infatti, che i soggetti interessati comunichino tale “loro disponibilità ai servizi per l’impiego delle Province, nell’ambito territoriale di riferimento, o ai soggetti accreditati di cui all’articolo 7”[1].

A seguito di tale comunicazione, i servizi provinciali per l’impiego o i soggetti pubblici o privati accreditati dalle Regioni (per la cui individuazione si rinvia a quanto si dirà nel prosieguo della presente circolare) inviano al soggetto interessato (a sue spese) una tessera magnetica di riconoscimento che attesta la sussistenza dei requisiti soggettivi indicati dalla legge (ossia, l’appartenenza ad una delle categorie di soggetti elencate dall’articolo 71, comma 1).

La disciplina del rapporto di lavoro accessorio è contenuta nell’articolo 72. L’elemento di maggiore novità introdotto dalla normativa in esame riguarda le modalità di assolvimento degli obblighi retributivi e contributivi da parte di chi decida di avvalersi della fattispecie in oggetto. Il primo comma dell’articolo 72 dispone infatti che coloro che vogliano usufruire di prestazioni accessorie devono acquistare “presso le rivendite autorizzate uno o più carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio del valore nominale di 7,5 euro”.

Il  lavoratore, una volta eseguita la prestazione, riceve dal proprio “datore di lavoro” un numero di buoni proporzionato al lavoro svolto. Egli “percepisce il proprio compenso presso uno o più enti o società concessionari di cui al comma 5 all’atto della restituzione dei buoni ricevuti dal beneficiario della prestazione di lavoro accessorio, in misura pari a 5,8 euro per ogni buono consegnato” (art. 72, comma 2).  Tale importo è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del lavoratore accessorio.

L’ente o la società concessionaria che incassa i buoni, una volta registrati i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore accessorio, provvede, per conto del lavoratore, stesso al pagamento dei contributi per fini previdenziali, versando alla gestione separata Inps l’importo di 1 euro per ogni ora di lavoro, e per fini assicurativi contro gli infortuni, versando all’Inail l’importo di 0,50 euro per ogni ora di lavoro (art. 72, comma 3). La differenza (venti centesimi per ogni ora) viene trattenuta dall’ente o società concessionaria a titolo di rimborso spese (art. 72, comma 4).

La norma non contiene alcun esplicito riferimento temporale collegato al valore del buono, con la conseguenza che il valore del singolo buono potrebbe sembrare non commisurato alla durata della prestazione. Come abbiamo appena illustrato, però, i versamenti contributivi per fini previdenziali e assicurativi vengono effettuati nella misura di 1,50 euro per ora (come espressamente detto dal Legislatore), detratti dall’importo complessivo di 7,5 euro, ossia dal valore nominale del singolo buono. Nonostante, dunque, la mancanza di un esplicito riferimento della norma, sembra plausibile che un buono corrisponda ad un’ora di prestazione.

Non è chiaro, tuttavia, in base a quale valore debba essere calcolata la soglia di 3 mila euro annui stabilita dal decreto per la configurabilità dell’istituto delle prestazioni accessorie. Non è stato, infatti, specificato dalla legge se tale importo vada calcolato sui 7,5 euro (valore nominale del buono) oppure sui 5,8 euro, retribuzione al netto delle trattenute Inps e Inail.

L’ultimo comma dell’articolo 72 prevede che “entro 60 giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel decreto legislativo (entrato in vigore il 24 ottobre 2003), il ministro del Lavoro e delle politiche sociali” individui “gli enti e le società concessionarie alla riscossione dei buoni, nonché i soggetti autorizzati alla vendita dei buoni e regolamenta, con apposito decreto, criteri e modalità per il versamento dei contributi di cui al comma 3 e delle relative coperture assicurative e previdenziali”.

Nonostante tale termine sia già scaduto, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali non ha ancora provveduto né all’individuazione degli enti e delle società autorizzate alla riscossione dei buoni, né alla regolamentazione dei criteri e delle modalità di assolvimento dell’obbligo contributivo.

Questo ritardo, seppur giustificabile dato il momento fitto di impegni e scadenze per il Ministero del Lavoro (ci si riferisce alla recenti circolari interpretative del ministero, l’ultima delle quali in materia di lavoro a progetto, e al decreto di autorizzazione delle Agenzie per il lavoro, attualmente all’esame della Corte dei Conti), provoca, di fatto, l’attuale inutilizzabilità dell’intero istituto.

L’articolo 73 predispone, attraverso l’istituzione di una banca dati informativa,  un sistema di circolazione delle informazioni relative all’andamento delle prestazioni previdenziali e alle entrate contributive legate all’utilizzo della fattispecie in esame. Il primo comma prevede, infatti, la stipula di un’apposita convenzione  tra Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Inps ed Inail “anche al fine di formulare proposte per adeguamenti normativi delle disposizioni di contenuto economico”.

Il secondo comma dello stesso articolo prevede che “decorsi 18 mesi dall’entrata in vigore del decreto, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali” predisponga “d’intesa con Inps e Inail una relazione sull’andamento del lavoro occasionale di tipo accessorio e ne” riferisca “al Parlamento”.

Il  carattere sperimentale dell’intera disciplina del lavoro accessorio viene ribadito nella disposizione finale del decreto legislativo. Ai sensi dell’articolo 86, comma 12, infatti, “decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali procede, sulla base delle informazioni raccolte /…/ ad una verifica con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale degli effetti delle disposizioni in esso contenute e ne riferisce al Parlamento entro tre mesi ai fini della valutazione della sua ulteriore vigenza”.

La fattispecie delle prestazioni occasionali accessorie fin qui illustrata non va confusa con il diverso istituto del lavoro occasionale, regolato dall’articolo 61 del decreto e definito come un rapporto di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro” (art. 61, comma 2). Le due discipline, nonostante le simili definizioni legislative, sono, come verrà illustrato, sostanzialmente molto diverse.

Come nell’ipotesi del lavoro accessorio, anche in questo caso il Legislatore pone due requisiti di natura oggettiva, uno temporale, l’altro economico, che caratterizzano la fattispecie delimitandone il campo di applicazione.

In entrambi i casi, dunque, si prevede una durata massima delle prestazioni pari a trenta giorni nell’arco dell’anno solare. Nell’ipotesi di lavoro occasionale, però, a differenza di quanto visto per le prestazioni accessorie, tale limite temporale deve essere  calcolato sulle giornate lavorative svolte presso lo stesso committente. Di fatto, dunque, il lavoratore occasionale potrà lavorare per più di trenta giorni nell’arco dello stesso anno, intrecciando rapporti lavorativi con più committenti, purché ogni singolo rapporto non superi il limite temporale stabilito dalla norma, e il compenso complessivamente percepito nell’anno non superi i 5 mila euro.

Nella fattispecie di cui all’articolo 61 la ratio del doppio vincolo riveste finalità diverse da quelle illustrate nel lavoro accessorio. L’obiettivo è, in questo caso, quello di prevenire facili elusioni della disciplina dettata per il nuovo istituto del lavoro a progetto.

L’articolo 61, infatti, dopo aver disposto al primo comma che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione /…/ devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o fasi di esso”, stabilisce l’esclusione da tale previsione delle prestazioni occasionali, ossia di quei rapporti caratterizzati dal doppio vincolo sopra illustrato (di durata non superiore a trenta giorni in un anno con lo stesso committente, e con un compenso non superiore a 5 mila euro) (art. 61, comma 2).

In questo modo, dunque, il Legislatore ha voluto impedire che la nuova disciplina del lavoro a progetto venisse aggirata attraverso la stipulazione di prestazioni occasionali fittizie.

I due istituti si differenziano anche riguardo al campo di applicazione oggettivo. Se per il lavoro occasionale accessorio il Legislatore ha stabilito con un elenco tassativo i settori in cui la fattispecie è applicabile, nel caso del lavoro occasionale non ci sono limiti di oggetto delle mansioni, salvo il vincolo di durata di cui si è detto.

Lo stesso discorso vale per il campo di applicazione soggettivo: nel lavoro occasionale non è previsto un elenco tassativo di categorie di lavoratori cui la norma si riferisce.

Diverso è, infine, il regime contributivo previdenziale stabilito per i due istituti (per quanto riguarda il lavoro accessorio si rimanda a quanto illustrato precedentemente).

Con la recente circolare n. 9 del 22 gennaio scorso, l’Inps chiarisce i riflessi in materia previdenziale delle prestazioni occasionali disciplinate dall’articolo 61 del decreto legislativo 276/03. Una lettura comparata del testo della circolare e delle norme del decreto può aiutare a districare quello che è stato definito il “rebus” dei versamenti sul lavoro occasionale.

L’ipotesi più semplice è quella in cui la singola prestazione occasionale (ossia, con lo stesso committente) superi il limite di trenta giorni e/o di 5 mila euro nel corso dell’anno. In questo caso il rapporto sarà soggetto alla disciplina del lavoro a progetto, anche dal punto di vista previdenziale (aliquota del 17,80 %, salvo il caso in cui il lavoratore sia già coperto da altra forma previdenziale. In quest’ultima ipotesi il contributo dovrebbe essere pari al 10%).

Nel caso in cui i limiti temporali ed economici non vengano superati, l’ente previdenziale opera un distinguo e stabilisce che, se la prestazione possiede i requisiti del coordinamento e della continuità (cosiddette collaborazioni “minime”) scatterebbe l’obbligo di versare i contributi previdenziali, e la misura dovrebbe essere quella prevista per le collaborazioni a progetto (aliquota del 17,80 %).

Nel caso in cui, al contrario, l’attività svolta non sia caratterizzata dal coordinamento e dalla continuità, ma ci si trovi in presenza di un lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 2222 C.c., non sono dovuti i contributi all’Inps.

Comprensibili problematiche conseguiranno sotto l’aspetto pratico, posto che prestazioni occasionali nei limiti previsti dal decreto (trenta giorni e 5 mila euro nel corso dello stesso anno solare) ben difficilmente potrebbero essere concretamente svolte senza un minimo di coordinamento e continuità. La circolare Inps è, sul punto, totalmente carente di chiarezza, e vuole artatamente creare  sub-categoria contributiva di cui non v’era certo necessità, né tantomeno traccia nel decreto legislativo n. 276 del 2003.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners.

La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[1] Articolo 7: “Le Regioni, sentite le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, istituiscono appositi elenchi per l’accreditamento degli operatori pubblici e privati che operano nel proprio territorio nel rispetto degli indirizzi da essa definiti /…/ e dei seguenti principi e criteri:

a)   garanzia della libera scelta dei cittadini, nell’ambito di una rete di operatori qualificati, adeguata per dimensione e distribuzione alla domanda espressa nel territorio;

b)   salvaguardia di standard omogenei a livello nazionale nell’affidamento di funzioni relative all’accertamento dello stato di disoccupazione e al monitoraggio dei flussi del mercato del lavoro;

c)    costituzione negoziale di reti di servizio ai fini dell’ottimizzazione delle risorse;

d)   obbligo dell’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro di cui all’articolo 15, nonché l’invio all’autorità concedente di ogni informazione strategica per un efficace funzionamento del mercato del lavoro;

e)    raccordo con il sistema regionale di accreditamento degli organismi di formazione.

I provvedimenti regionali istitutivi dell’elenco di cui al comma 1 disciplinano altresì:

a)   le forme di cooperazione tra servizi pubblici e operatori privati, autorizzati ai sensi degli articoli 4, 5 e 6 o accreditati ai sensi del presente articolo, per le funzioni di incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevenzione della disoccupazione di lunga durata, promozione dell’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati, sostegno della mobilità geografica del lavoro;

b)   i requisiti minimi richiesti per l’iscrizione nell’elenco regionale in termini di capacità gestionali e logistiche, competenze professionali, situazione economica, esperienze maturate nel contesto territoriale di riferimento;

c)    le procedure per l’accreditamento;

d)   le modalità di misurazione dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi erogati;

e)    le modalità di tenuta dell’elenco e di verifica del mantenimento dei requisiti.”

[Novembre 2003] - L’istituto del job sharing nel decreto legislativo 276/2003

Gli articoli dal 41 al 45 del decreto legislativo n.273/2003 delineano, in attuazione dell’articolo 4 della legge 30/2003, la fattispecie del lavoro ripartito (job sharing), ossia della prestazione lavorativa ripartita tra due lavoratori obbligati in solido verso il datore di lavoro per la sua esecuzione.

Tale istituto non è una novità introdotta dalla legge di riforma del mercato del lavoro, essendo stato per la prima volta disciplinato per via amministrativa nel 1998, attraverso la circolare n. 43 del 7 aprile 1998 del Ministero del Lavoro. L’odierna disciplina legislativa è finalizzata al superamento dei diversi ostacoli alla diffusione dell’istituto sorti a causa delle difficoltà esistenti (e non del tutto risolte dalla circolare) nell’individuare la disciplina applicabile ai rapporti interni caratterizzanti detta ipotesi contrattuale.

L’articolo 41 del decreto attuativo definisce, al primo comma, il job sharing come “uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa”. Il termine “identica” riferito all’obbligazione assunta dai due lavoratori parrebbe ripetitivo, dal momento che l’obbligazione dedotta nel contratto in esame è comunque “unica”. Come suggerito dai primi commentatori, è probabile che il Legislatore intendesse riferire il termine non all’obbligazione contrattuale, bensì alle mansioni che i due lavoratori devono svolgere, le quali dovrebbero, quindi, essere identiche tra loro.

Sotto il profilo giuridico, la fattispecie in esame è riconducibile all’articolo 1292 c.c., secondo cui l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascun condebitore può essere costretto all’adempimento dell’intera prestazione e l’adempimento da parte di un solo debitore libera gli altri.

Il secondo comma dell’articolo 41 specifica che “fatta salva una diversa intesa tra le parti contraenti, ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa”. Tale previsione è in perfetta linea con la disciplina codicistica, in base alla quale, infatti, la solidarietà passiva si presume sempre, se dalla legge o, come in questo caso, dal titolo non risulti una diversa regolamentazione.

Secondo il quarto comma della stessa disposizione “eventuali sostituzioni da parte di terzi, nel caso di impossibilità di uno o entrambi i lavoratori coobbligati, sono vietate e possono essere ammesse solo previo consenso del datore di lavoro”. La norma in esame specifica infatti che, salvo diversa intesa tra le parti, sia “l’impedimento di entrambi i lavoratori” (art. 41 comma 6) che “le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale” (art. 41 comma 5). Gli intuibili problemi applicativi determinati dalle previsioni legislative appena riportate verranno illustrati nel prosieguo della presente circolare, nella parte dedicata alle problematiche connesse ai casi di scioglimento del vincolo contrattuale.

Il quinto comma prosegue stabilendo che l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale può non verificarsi “se, su richiesta del datore di lavoro, l’altro prestatore di lavoro si renda disponibile ad adempiere l’obbligazione lavorativa, integralmente o parzialmente, nel qual caso il contratto di lavoro ripartito si trasforma in un normale contratto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 del Codice civile”.

Di difficile comprensione risulta il riferimento operato dal Legislatore ad un adempimento anche solo parziale dell’obbligazione lavorativa. Che fattispecie contrattuale costituirebbe un adempimento parziale di un’obbligazione lavorativa? Il job sharing, anche laddove fosse stato concluso a tempo indeterminato, si trasformerebbe in lavoro a tempo determinato laddove il lavoratore si rendesse disponibile ad un adempimento solo parziale dell’obbligazione? O il datore di lavoro dovrebbe, in questa ipotesi, assumere un altro lavoratore coobbligato?

Nessuno di questi interrogativi sembra trovare risposta nel testo legislativo, il quale si limita a prevedere l’ipotesi di un adempimento anche solo parziale, senza disciplinarne le conseguenze giuridiche. Su questo, come su altri punti poco chiari della disciplina legislativa in esame, non resta che attendere le prime circolari interpretative del Ministero.

Il terzo comma dell’articolo 41 dispone che “fatte salve diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o accordi collettivi, i lavoratori hanno la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro”. Del rimando alla contrattazione collettiva ci occuperemo nel prosieguo della presente circolare, nella parte dedicata alla disciplina applicabile all’istituto del lavoro ripartito. Quello che adesso preme esaminare è l’ampio margine di discrezionalità di cui i lavoratori coobbligati possono disporre.

La notevole discrezionalità organizzativa riconosciuta ai lavoratori non deve far pensare che ci si trovi di fronte ad una fattispecie di lavoro autonomo (come qualche commentatore ha velatamente ipotizzato). Nonostante i numerosi problemi di raccordo tra la il decreto legislativo in esame e la disciplina codicistica del lavoro subordinato, l’istituto del job sharing ricade senz’altro in quest’ultima ipotesi. A sostegno di questa interpretazione sta la terminologia impiegata dal Legislatore nel delineare il lavoro ripartito, terminologia che opera continui riferimenti ad istituti tipici del lavoro subordinato (licenziamento, dimissioni, malattia). Inoltre, come verrà illustrato, il decreto legislativo in esame dispone espressamente che il job sharing, in assenza di contratti collettivi, è regolato dalla normativa generale del lavoro subordinato (art. 43, comma 2).

Qual è, dunque, il significato di una simile discrezionalità riconosciuta ai lavoratori nella determinazione del loro orario di lavoro? L’insieme delle facoltà concesse ai lavoratori coobbligati costituisce una sorta di bilanciamento rispetto alla responsabilità che essi si assumono con il contratto di lavoro ripartito nei confronti del datore di lavoro. Questa interpretazione è suffragata dalla lettura della norma stessa, che prosegue stabilendo che, in caso di sostituzioni o di modifiche dell’orario di lavoro, appunto “il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti a uno dei coobbligati è posta in capo all’altro obbligato” (art. 41, comma 3).

I risultati applicativi di una simile previsione legislativa sono particolarmente evidenti nelle ipotesi in cui le sostituzioni o le modifiche dell’orario di lavoro siano motivate da malattia o da maternità. In questi casi il lavoratore che sta regolarmente svolgendo l’attività si accollerà per intero l’obbligazione assunta nei confronti del datore di lavoro. In questo modo, il rischio dell’inadempimento della prestazione lavorativa non andrebbe mai a ricadere sul datore di lavoro.

Come si è avuto modo di cogliere dall’esame del primo articolo dedicato al lavoro ripartito, il tratto caratterizzante dell’istituto consiste nel vincolo solidale che lega i due lavoratori coobbligati. Tale vincolo costituisce, come abbiamo illustrato, lo strumento con il quale il Legislatore ha voluto tutelare il datore di lavoro, fornendogli una sorta di “garanzia” che gli assicuri l’adempimento della complessiva obbligazione contrattuale.

La disciplina delineata dal decreto, tuttavia, consentendo alle parti contraenti di apporvi, laddove espressamente previsto, delle deroghe e di concordare diversamente rispetto alle previsioni legislative, concede alle parti la possibilità di graduare il livello di solidarietà nell’esecuzione del rapporto di lavoro (art. 41. comma 2, 4, 5 e 6).

Soffermiamoci, ora, sulla forma del contratto di job sharing. Il Legislatore, nell’intento di tutelare questa nuova ipotesi contrattuale da eventuali tentativi di abuso e per dare maggior certezza ai rapporti da essa originati, ha disposto la forma scritta del contratto ai soli fini della prova dei seguenti elementi:

a)      la misura percentuale  e la collocazione temporale del lavoro giornaliero, settimanale, mensile o annuale che si prevede venga svolto da ciascuno dei lavoratori coobbligati secondo le intese tra loro intercorse (ancora una volta si pone l’accento sull’assoluta libertà dei lavoratori di autodeterminarsi l’orario di lavoro, fermo restando il rispetto dell’orario complessivo convenuto con il datore di lavoro);

b)      il luogo di lavoro, il trattamento economico e normativo spettante a ciascun lavoratore (in relazione alle ore di lavoro effettivamente svolte dal singolo lavoratore);

c)      le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto (art. 42, comma 1).

Il contratto può, dunque, essere concluso anche verbalmente.

Il secondo comma dello stesso articolo dispone che “ai fini della possibilità di certificare le assenze, i lavoratori sono tenuti ad informare preventivamente il datore di lavoro, con cadenza almeno settimanale, in merito all’orario di lavoro di ciascuno dei soggetti coobbligati”. A fronte dell’autonomia gestionale dei lavoratori in merito alla determinazione dell’orario lavorativo c’è, dunque, l’obbligo di informarne il datore di lavoro. Tali informazioni sono infatti indispensabili per determinare sia il trattamento economico e normativo, essendo questo proporzionato alla prestazione lavorativa effettivamente svolta, sia il trattamento previdenziale e retributivo in caso di malattia o di legittimo impedimento al lavoro.

Il Legislatore non ha specificato se il contratto di job sharing si possa stipulare solo in caso di rapporto a tempo indeterminato oppure anche nei casi di rapporto a termine. In linea di principio, sussistendo le motivazioni di un contratto a tempo determinato, non dovrebbero esserci ostacoli alla stipulazione a termine di un contratto di lavoro ripartito.

La disciplina applicabile alla fattispecie del job sharing, salvo quanto stabilito nel decreto in esame, è demandata, come abbiamo sopra accennato, alla contrattazione collettiva (art. 43, comma 1). In assenza di contratti collettivi, si applicano le disposizioni generali relative al rapporto di lavoro subordinato (art. 43, comma 2). Il Legislatore ha, infatti, disciplinato l’istituto con una regolamentazione di contorno, in quanto la disciplina di dettaglio è rimessa, oltre che alla volontà delle parti (si pensi alla clausola “salve diverse intese tra le parti”), alla contrattazione collettiva o, in mancanza, alla normativa generale del lavoro subordinato “in quanto compatibile con la particolare natura del rapporto di lavoro ripartito” (art.43, comma 2).

Questa disposizione, apparentemente lineare e di immediata fruibilità, apre la strada a numerose questioni interpretative cui il testo di legge non fornisce soluzione alcuna. La maggior parte dei problemi applicativi cui l’istituto del job sharing andrà in contro sono dovuti proprio all’incompatibilità tra fondamentali istituti del rapporto di lavoro subordinato, applicabili in mancanza di contratti collettivi, e la fattispecie del lavoro ripartito. Come sopra brevemente accennato, infatti, lo scioglimento del vincolo di uno solo dei due lavoratori (art. 41, comma 5) comporta, salvo diversa intesa tra le parti, l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale, conseguenza, questa, difficilmente conciliabile con la disciplina del lavoro subordinato.

I problemi riguardano non soltanto il caso limite del licenziamento di uno dei due lavoratori per giusta causa, ovvero per giustificato motivo soggettivo, o, ancora, per motivi disciplinari (provvedimento che, stando a quanto stabilito dal quinto comma dell’articolo 41, determina la risoluzione del rapporto anche con il lavoratore non colpito dal licenziamento), ma anche i casi di dimissioni per giusta causa, con diritto, quindi, all’indennità sostitutiva del preavviso (casi, anche questi, espressamente disciplinati dalla stessa norma). In una simile ipotesi, l’altro coobbligato, oltre a subire l’estinzione del rapporto, non avrebbe diritto ad alcuna indennità.

Il Legislatore, infatti, come abbiamo già accennato,  al riguardo stabilisce che l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale può non verificarsi soltanto “se, su richiesta del datore di lavoro, l’altro prestatore di lavoro si renda disponibile ad adempiere l’obbligazione lavorativa”. Questa possibilità, lo si ribadisce, è, però, una prerogativa esclusiva del datore di lavoro. Come denunciato dai primi commentatori, l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale, conseguenza decisamente lontana dalla disciplina dei rapporti di lavoro subordinati, condurrebbe ad individuare una responsabilità oggettiva in capo al coobbligato per le azioni compiute dall’altro coobbligato.

Non si porrebbe, al contrario, alcun problema nell’ipotesi di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto, in tal caso, trattandosi di ragioni legate alla natura dell’attività, è naturale che siano coinvolti entrambi i lavoratori coobbligati.

Su queste questioni, assai complesse e delicate, vista la laconicità del testo legislativo, si dovranno attendere le previste circolari interpretative del Ministero e le prime interpretazioni giurisprudenziali.

Nessun problema pone, invece, il principio di non discriminazione, valido anche per i lavoratori assunti con il contratto in esame. Infatti, come stabilito dal primo comma dell’articolo 44, “fermi restando i divieti di discriminazione diretta e indiretta previsti dalla legislazione vigente, il lavoratore ripartito non deve ricevere, per i periodi lavorati, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte”.

Il trattamento economico e normativo dei lavoratori coobbligati è proporzionato alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita, “in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, congedi parentali” (art. 44, comma 2).

Il terzo comma dello stesso articolo stabilisce che “ciascuno dei lavoratori coobbligati ha diritto di partecipare alle riunioni assembleari di cui all’articolo 20, legge 20 maggio 1970, n. 300, entro il previsto limite complessivo di dieci ore annue, il cui trattamento economico verrà ripartito tra i coobbligati proporzionalmente alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita”.

In conclusione, ai fini delle prestazioni dell’assicurazione generale e obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, dell’indennità di malattia e di ogni altra prestazione previdenziale e assistenziale, i lavoratori coobbligati assunti con contratto di lavoro ripartito sono assimilati ai lavoratori a tempo parziale (art. 45).

Non è dovuta, come specificato nel testo di legge, “la contribuzione per l’assicurazione per la corresponsione degli assegni per il nucleo familiare, i quali sono comunque erogati secondo i criteri previsti per i lavoratori a tempo parziale, con oneri a carico della gestione per gli interventi assistenziali e di sostegno costituita presso l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale” (art. 45). Il Legislatore ha, in questo modo, introdotto uno sgravio contributivo a favore del datore di lavoro che scelga di avvalersi dell’ipotesi contrattuale in esame.

Il calcolo delle prestazioni previdenziali e dei contributi è effettuato non preventivamente, come per il lavoro a tempo parziale, bensì su base mensile, “dividendo l’importo delle retribuzioni per il numero dei lavoratori che risultano obbligati al momento di inizio dell’evento, salvo conguaglio a fine anno a seguito dell’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa” (art. 45).

Al riguardo, va rilevata l’assenza di un regime transitorio che, anche se non necessario per l’attuazione dell’istituto così come oggi disciplinato, sarebbe utile per la gestione dei contratti già stipulati con più di due lavoratori, in base alla disciplina dettata dalla citata circolare n. 43 del 1998 precedentemente in vigore.

L’istituto in esame, in mancanza di un esplicito richiamo operato dal decreto legislativo, parrebbe non applicarsi al settore del pubblico impiego.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners.

La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Novembre 2003] - Collaborazioni a progetto e modifiche introdotte dal disegno di legge per la Finanziaria 2004

COLLABORAZIONI A PROGETTO E MODIFICHE INTRODOTTE DAL DISEGNO DI LEGGE PER LA FINANZIARIA 2004

Il disegno di legge contenente “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” (legge Finanziaria 2004) prevede l’introduzione di un’importante estensione della riforma Biagi.

L’articolo 11 comma 11 del disegno di legge concede, infatti, alle pubbliche amministrazioni la possibilità di avvalersi di “personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di lavoro a progetto”.

Tale disposizione opera, dunque, un espresso richiamo all’istituto del lavoro a progetto, tipologia contrattuale introdotta e disciplinata dagli articoli 61 – 69  del decreto legislativo 276/03, attuativo delle prime cinque disposizioni della legge Biagi, in vigore dal 24 ottobre.

Nella precedente circolare pubblicata sui siti www.giemmelex.it, www.onlinelex.com e www.antex.it relativa, appunto, al contratto di lavoro a progetto, avevamo sottolineato l’esclusione del settore pubblico dalle previsioni contenute nel decreto (allora ancora non pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale). L’articolo 6 della legge delega 30/2003 dispone, infatti, l’inapplicabilità delle norme della riforma Biagi alle pubbliche amministrazioni “ove non siano espressamente richiamate”. In mancanza di richiami espressi, la disciplina disposta dalla legge delega non è, quindi, applicabile al settore del pubblico impiego.

La conseguenza di un espresso richiamo dell’istituto del lavoro a progetto ad opera dell’articolo 11, comma 11 del disegno di legge consiste, dunque, nella diretta applicabilità di tale istituto anche alle amministrazioni. Tale norma precisa che gli enti non in regola con il patto di stabilità per il 2003 non potranno attivare alcuna forma di lavoro flessibile (nemmeno, quindi, il lavoro a progetto).