[Dicembre 2006] - Cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale: cenni generali

Il rapporto di lavoro dirigenziale rientra nell’area della cosiddetta libera recedibilità (recesso ad nutum o libero) e, pertanto, ai sensi dell’art.10 della legge 604/1966, non è assoggettato, in linea generale, alla disciplina limitativa dei  licenziamenti individuali prevista per gli altri lavoratori subordinati (quadri, impiegati e operai). Tuttavia, secondo un recente orientamento giurisprudenziale, la regola della licenziabilità ad nutum  dei dirigenti e l’esclusione delle garanzie procedimentali di cui all’art.7 della legge n.300/1970, delle quali si tratterà in distinto articolo di prossima pubblicazione, varrebbero solo per i dirigenti in posizione verticistica (dirigenti apicali) e non anche nei confronti della media e bassa dirigenza (dirigenti minori: in tal senso Cassazione 8 novembre 2005 n.21673, 28 ottobre 2005 n.21010, 9 aprile 2003 n.5526, 28 maggio 2003 n.8486, 9 agosto 2004 n.15351). Quest’ultimo orientamento, che trae origine da una non recentissima sentenza della Corte Suprema (Cass. Sezioni Unite n.6041/1995), porta alle estreme conseguenze la distinzione fra dirigenti di vertice e dirigenti minori, distinzione che peraltro non trova  riscontro, né nelle norme positive di legge né nelle norme della contrattazione collettiva. Il nuovo indirizzo appena descritto, attraverso un’interpretazione apparentemente limitativa del principio della libera recedibilità, giunge ad ipotizzare una sorta di parificazione dei dirigenti minori agli altri lavoratori subordinati, sotto il profilo dell’applicazione delle norme limitative dei licenziamenti individuali, con possibili ripercussioni sulla gestione dei rapporti con detti dirigenti che, allo stato, non sono facilmente prevedibili. Tale orientamento, ad oggi disatteso dalla prevalente giurisprudenza di merito,  non pare condivisibile in quanto, come correttamente rilevato anche in dottrina, le varie figure di dirigenza (alta, media e piccola) non sono altro che articolazioni interne della medesima categoria professionale, configurata unitariamente sia dall’art.2095 cod. civ. che dalla contrattazione collettiva (in tal senso, Gramoccia, in nota a Cass. n.21673/2005). Le indicazioni fornite da detto orientamento sarebbero invece maggiormente condivisibili se applicate allo “pseudo dirigente” o “dirigente convenzionale”, figure che del dirigente possiedono solo il nomen, senza che ad esso corrispondano adeguate mansioni e responsabilità decisorie.

Il licenziamento del dirigente deve essere intimato per iscritto (art.2, comma 4, della legge 604/1966) con contestuale indicazione della motivazione (art. 22 CCNL dirigenti aziende industriali; art.33 CCNL dirigenti aziende del terziario). Secondo la giurisprudenza, il licenziamento del dirigente, intimato senza la contestuale specificazione dei motivi è, indipendentemente da ogni indagine, ingiustificato e, pur conservando la sua efficacia, determina in capo al datore di lavoro l’obbligo di  corrispondere, oltre al preavviso, l’indennità supplementare prevista dai contratti colletivi (in tal senso Cass. 14 gennaio 1987 n.214; Cass. 28 settembre 1988 n.5260). Inoltre, anche al rapporto di lavoro dirigenziale si applica il principio della necessaria tempestività del licenziamento, per cui ai fini della giustificatezza di quest’ultimo è  necessaria una formulazione specifica dei motivi ed una sufficiente contiguità temporale tra i fatti posti a fondamento della decisione del datore di lavoro e l’interruzione del rapporto (in tal senso Cass. 11 luglio 2002 n.10113).

Passando all’esame delle varie tipologie di cessazione del rapporto, l’ipotesi più grave è certamente quella del recesso per giusta causa. Si tratta di ipotesi in cui una delle parti ritiene che il rapporto fiduciario sia tanto compromesso da non poter proseguire, neanche provvisoriamente. Tale compromissione si traduce, quindi, in una grave ed irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere tra il datore di lavoro ed il dirigente, vista la sua particolare autonomia decisionale. In tale situazione il datore di lavoro, o il dirigente se la “causa” sia imputabile al primo, possono recedere in via immediata dal rapporto contrattuale ai sensi dell’art.2119 cod. civ. La sussistenza o meno della predetta “giusta causa” va naturalmente valutata caso per caso, tenendo presenti le singole fattispecie. Di indubbio ausilio, in tema, è la casistica giurisprudenziale. A titolo esemplificativo, è stata configurata una giusta causa di licenziamento: 1) a seguito della violazione da parte del dirigente del divieto, espressamente sancito in sede contrattuale, di non esercitare altre attività retribuite o gratuite e di non costituire direttamente o indirettamente altre imprese concorrenti (in tal senso Cass. 1 settembre 2004 n.17582); 2) quando il dirigente, peraltro responsabile del settore commerciale, abbia assunto la qualità di socio e di amministratore di un’impresa concorrente (in tal senso Cass. 7 novembre 2000 n.11166); 3) nel caso di rifiuto del dirigente di ritirare un documento e di firmare per ricevuta, rivolgendo espressioni ingiuriose nei confronti del presidente della società, alla presenza di dipendenti e collaboratori (in tal senso Tribunale Torino 3 ottobre 1997).

Per contro non è stata ravvisata una giusta causa di licenziamento: 1) quando il dirigente di azienda commerciale si era assunto aree di competenza non proprie, organizzando la produzione interna di una macchina che la società aveva sino a quel momento acquistato da terzi. In tal caso è stata invece configurata un’ipotesi di giustificatezza del licenziamento (in tal senso Tribunale Milano 8 gennaio 2001); 2) quando il dirigente, nel corso di trattative informali con il direttore del personale per una risoluzione consensuale del rapporto, e in un momento di alterazione a fronte di offerte ritenute irrisorie, aveva affermato che la società si sarebbe pentita della mancata accettazione delle sue diverse proposte, essendo lo stesso a conoscenza di situazioni che avrebbero potuto “far chiudere le filiali” e “bloccare l’attività dell’azienda” (in tal senso Cass. 28 dicembre 1999 n.14637); 3) quando il dirigente, in nome  e per conto della società, aveva sottoscritto una modifica di precedenti patti contrattuali, rivelatasi poi eccessivamente onerosa per l’azienda. Anche in tal caso, sono stati invece ravvisati i meno gravi connotati di giustificatezza del licenziamento (in tal senso Tribunale Milano 19 aprile 1997).

La casistica giurisprudenziale sinteticamente richiamata  conferma che la “giusta causa” deve quindi consistere in fatti obiettivamente gravi. Va tenuto altresì presente che il licenziamento del dirigente - se specificamente correlato alle modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative - deve essere sorretto da motivazioni tanto più specifiche e dettagliate quanto più è vasto l’ambito di operatività dello stesso dirigente (in tal senso Cass. 8 novembre 2001 n.13839).

Nel caso di licenziamento per giusta causa al dirigente non sarà dovuto né il preavviso né, tanto meno, l’indennità supplementare prevista dai CCNL di volta in volta applicabili.

Altra ipotesi di interruzione del rapporto, tuttavia meno grave, è quella del licenziamento giustificato, ovvero sorretto da “giustificatezza”. La nozione di “giustificatezza” non si identifica con quella di giusta causa o di giustificato motivo di cui agli articoli 1 e 3 della legge 604/1966 applicabili ai dipendenti non dirigenti. Il licenziamento ingiustificato del dirigente si verifica tutte le volte in cui il datore di lavoro eserciti il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede nell’esecuzione del contratto, in attuazione di un comportamento puramente pretestuoso, ovvero del tutto irrispettoso dell’osservanza delle regole procedimentali che assicurano la correttezza dell’esercizio del diritto (in tal senso Tribunale Milano 31 gennaio 1997; Cass. 14 maggio 1993 n.5531). La nozione di “giustificatezza”, quindi, consiste nell’assenza di arbitrarietà ovvero nella ragionevolezza del provvedimento che dispone il licenziamento, fondato su valide ragioni, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede (in tal senso Cass. 8 novembre 2002 n.15749, Cass. 6 ottobre 1998 n.9896, Tribunale Milano 16 marzo 2005). In applicazione dei principi appena sopra illustrati, il licenziamento del dirigente è stato ritenuto giustificato dalla casistica giurisprudenziale: 1) in caso di soppressione del posto di lavoro, motivata da esigenze di riorganizzazione aziendale finalizzate ad una più economica gestione dell’impresa (in tal senso Cass. 13 novembre 1999 n.12603); 2) in caso di effettiva ristrutturazione aziendale che aveva comportato la smobilitazione della struttura a cui era preposto il dirigente licenziato (in tal senso Cass. 13 gennaio 2003 n.322); 3) per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefigurati al momento del conferimento dell’incarico, potendo le parti attribuire rilievo decisivo, ai fini del mantenimento del rapporto, al raggiungimento di determinati risultati minimi di produttività, ovvero all’esito positivo di determinate operazioni finanziarie o all’attuazione di un programma di riorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione dell’impresa, o del ramo di essa, affidato al dirigente (in tal senso Cass. 3 aprile 2002 n.4729); 4) per il mancato accoglimento, da parte del dirigente, di richieste di missione all’estero, in quanto rifiuto incompatibile con la collaborazione richiesta a tale figura professionale (in tal senso Cass. 28 aprile 2003 n.6606).

Per contro, sempre la casistica girurisprudenziale ha ritenuto il licenziamento privo di “giustificatezza”, e quindi ingiustificato: 1) nel caso di licenziamento intimato al dirigente per asserita riorganizzazione aziendale, con assegnazione degli stessi compiti ad altro soggetto (in tal senso Tribunale Roma 24 marzo 2004); 2) in caso di licenziamento conseguente al rifiuto, da parte del dirigente, di effettuare rettifiche irregolari ai dati contabili aziendali, destinati ad essere inseriti nel bilancio di esercizio, non essendo detto comportamento improntato a mancata collaborazione, ma diretto ad evitare irregolarità nella predisposizione del bilancio (in tal senso Cass. 8 novembre 2002 n.15749).
Avv. Marco Emanuele Galanti
Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi

(Tratto dal Sole 24 Ore – Norme e tributi del 23/10/2006)

[Dicembre 2006] - Tipologie di assunzione del dirigente e pattuizioni accessorie

Il dirigente deve essere informato dal datore di lavoro sulle condizioni applicabili al suo rapporto di lavoro, inclusa l’indicazione, nel contratto ovvero nella lettera di assunzione o in altro documento scritto, della durata del rapporto, che può essere a tempo determinato o indeterminato, delle funzioni allo stesso attribuite, del trattamento economico riservato e delle eventuali condizioni di miglior favore. In linea generale, nel rapporto di lavoro dirigenziale a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere anticipatamente, dando all’altra il preavviso previsto dalla contrattazione collettiva, ovvero corrispondendo, in caso di mancato preavviso, la relativa indennità sostitutiva. Naturalmente, nessun preavviso o indennità sostitutiva sono invece dovuti in caso di recesso motivato da giusta causa (art.2119 cod. civ.). Il dirigente può essere assunto anche con contratto a tempo determinato, purché di durata non superiore a cinque anni (D. Lgs. n.368/2001). La previsione di un termine di durata eccedente i cinque anni non determina la nullità dell’intero contratto, ma la riconduzione della clausola di durata entro il limite legale, in virtù dei principi generali di conservazione del contratto (art.1367 cod. civ.) e di sostituzione automatica delle clausole contrattuali difformi (artt. 1339 e 1419, secondo comma, cod. civ.). Nel rapporto a tempo determinato, è attribuita inoltre al dirigente la facoltà di recedere, trascorso un triennio dalla data dell’assunzione, previa prestazione del preavviso o pagamento della relativa indennità ai sensi dell’art.2118 cod. civ. Detta facoltà è riservata solo al dirigente; il datore di lavoro è tenuto a rispettare la durata del contratto e può recedere anticipatamente solo in presenza di una giusta causa (ossia di fatti gravi che ledano irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti). In caso di recesso datoriale non sorretto da giusta causa, il dirigente può chiedere il risarcimento del danno sia per la perdita subita che per il mancato guadagno. Il danno viene solitamente commisurato alle retribuzioni e contribuzioni che il dirigente avrebbe percepito dal momento del licenziamento fino alla scadenza del contratto. Il datore di lavoro, per contrastare o attenuare le richieste risarcitorie del dirigente, può opporre un difetto di diligenza di quest’ultimo nella ricerca di altra occupazione o l’esistenza di altri guadagni compensativi (aliunde perceptum) per il periodo residuo della durata contrattuale. Prima che sia trascorso un triennio dalla data dell’assunzione a termine, il dirigente può recedere dal rapporto di lavoro solo nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa ex art.2119 cod. civ., riferite a gravi inadempimenti del datore di lavoro, ovvero ad altre ipotesi contemplate nei contratti collettivi. In caso contrario, il datore di lavoro avrà il diritto di chiedere il risarcimento del danno subito (es: oneri sostenuti per la ricerca di un sostituto, danni all’immagine e all’organizzazione della società), che dovrà provare nel suo ammontare, fatta salva la valutazione equitativa del Giudice. Il contratto a tempo determinato dei dirigenti può essere convenzionalmente prorogato per più di una volta (in tema, Cassazione n.12741/1991 e n.8069/1998). Unico limite alla proroga è rappresentato dal periodo massimo di durata del rapporto, fissato come già detto, in cinque anni. In caso di prosecuzione del rapporto dopo la scadenza del termine, nel caso in cui lo stesso sia inferiore a cinque anni, si dovrà accertare l’effettiva volontà delle parti e verificare se le stesse abbiamo inteso disporre una proroga di detto termine, ovvero trasformare il rapporto a tempo indeterminato. Il dirigente può essere assunto a tempo determinato ripetutamente, e mediante consecutivi accordi. Naturalmente, la ripetuta e continuativa assunzione a termine che superi il limite di durata massima, si presta a possibili censure sotto il profilo dell’elusione del limite stesso. In particolare, potrebbe essere configurato un “abuso” del contratto a termine, con conseguente e possibile dichiarazione giudiziale di nullità delle assunzioni a termine del dirigente oltre il limite quinquennale di durata legale del contratto. In tale ipotesi, il rapporto di lavoro verrebbe considerato unico ed a tempo indeterminato.
L’assunzione del dirigente, sia a tempo indeterminato che a tempo determinato, può prevedere un patto di prova. Compiuto il periodo di prova, ed in assenza di recesso di una delle parti, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità di servizio del dirigente. L’assunzione in prova del dirigente è disciplinata dalla legge e dalla contrattazione collettiva. La durata della prova non può superare i sei mesi e, tale limite, è applicabile sia ai dirigenti di nuova assunzione che a quelli assunti dopo che abbiano rivestito la stessa qualifica presso altri datori di lavoro (in tema, Cassazione n.516/1989). Il patto di prova deve risultare da atto scritto, a pena di nullità. Tale essenziale requisito deve sussistere sin dall’inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di soluzioni equipollenti o sanatorie (in tema, Cassazione n.11122/2002). Il patto di prova deve contenere l’indicazione specifica delle mansioni, sulle quali il datore di lavoro deve esprimere la propria valutazione (Cassazione n.17045/2005, n.2357/2004, n.13498/2003). Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità. Il recesso intimato dal datore di lavoro durante il periodo di prova è un atto discrezionale (recesso ad nutum), senza obbligo di motivazione. Tuttavia, in linea teorica, il recesso datoriale non è affatto insindacabile, essendo sempre possibile per il dirigente contestarne la legittimità ma, in tal caso, dimostrando (benché la prova non sia agevole) o il positivo superamento della prova e l’arbitrarietà del recesso o l’imputabilità del recesso ad un motivo estraneo all’esperimento della prova, ovvero l’inadeguatezza della durata della prova o la difformità fra le mansioni specificate nel patto di prova e quelle di fatto espletate.
In tema di patto di prova la Corte di Cassazione, in una recente sentenza (22 giugno 2006 n.14462), ha ribadito alcuni principi cardine, applicabili anche al rapporto di lavoro dirigenziale. In particolare la Corte, ricordando il limite di durata massima del patto (sei mesi), ha confermato il potere di recesso del datore di lavoro durante la prova, senza alcun obbligo - per quest’ultimo - di fornire specifiche motivazioni al riguardo. Qualora il “lavoratore”, latamente inteso, e quindi anche il dirigente, agisca in sede giudiziale sostenendo la tesi della nullità del recesso datoriale, dovrà necessariamente dimostrare sia l’avvenuto superamento della prova con esito positivo sia la riconducibilità del recesso ad un motivo, “unico e determinante”, che sia totalmente estraneo alla funzione ed alle finalità proprie del patto di prova. La Corte ha così avuto modo di confermare quanto già delineato in precedenti apporti giurisprudenziali, riguardo ai confini sia della legittimità del recesso datoriale durante il periodo di prova sia dell’onere probatorio da assolvere per ottenere una declaratoria di nullità ed illegittimità del recesso medesimo. Nel caso di specie, in particolare, la Corte aveva rilevato che il ricorrente non aveva in alcun modo dimostrato l’imputabilità del recesso datoriale ad un motivo estraneo al patto di prova, essendosi limitato a lamentare, un “preconcetto ostruzionismo dell’azienda e dei colleghi all’inserimento del lavoratore nell’ambiente di lavoro”. Inoltre, era stato confermato lo svolgimento di un’attività certamente rientrante nell’oggetto della prova. Nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale, e fuori dall’ipotesi di contratto a tempo determinato, l’unico strumento per poter garantire una continuità al rapporto è quello delle c.d. clausole di stabilità. Mediante dette clausole, il dirigente o il datore di lavoro, od anche entrambe le parti, si impegnano a non recedere unilateralmente dal contratto per un certo periodo di tempo. Oggetto della clausola di stabilità è quindi una limitazione del potere di recesso unilaterale, per un periodo di tempo prestabilito. Comunemente si distinguono due specie di clausole di stabilità: le clausole di stabilità in senso stretto, dirette alla conservazione del posto di lavoro fino ad un tempo massimo di durata, oltre il quale il rapporto cessa, e le clausole di stabilità relativa, che assicurano il mantenimento del rapporto per un certo periodo, ferma la sua prosecuzione anche dopo lo scadere di detto periodo. La differenza essenziale tra le due tipologie di clausole è data dal fatto che, mentre nelle clausole di stabilità in senso stretto il termine finale determina l’automatica risoluzione del rapporto di lavoro (in tema, Cassazione n.2318/2004), in quelle di stabilità relativa la scadenza del termine non fa cessare il rapporto di lavoro che, pertanto, prosegue a tempo indeterminato. Le clausole di stabilità relativa possono essere dirette a tutelare sia l’interesse dell’azienda di fidelizzare il dirigente o garantire gli investimenti profusi per la sua formazione (in tema, Cassazione n.17817/2005 conf. alla n.1435/1998), sia l’interesse del dirigente, nelle sue esigenze di tutela rispetto a mutamenti dell’assetto di controllo della società, ovvero di tutela rispetto ad irrazionali ed ingiustificate scelte datoriali (in tema, Cassazione n.6520/1995). L’ampiezza delle clausole di stabilità relativa può variare secondo la volontà delle parti. Le clausole di stabilità relativa sono compatibili solo con un rapporto a tempo indeterminato, ed è quanto mai opportuno che le stesse vengano adeguatamente predisposte e documentate in forma scritta. Per quanto concerne la determinazione dell’entità del danno per violazione delle clausole di stabilità, si configurano due possibilità: a) la prima è che l’entità del danno venga predeterminata convenzionalmente ed in modo congruo dalle parti; b) la seconda è che, in mancanza di una determinazione convenzionale, l’entità del danno risarcibile possa essere quantificata in base ai principi generali in tema di risarcimento del danno da inadempimento; in tal caso, e nell’ipotesi di violazione della clausola di stabilità relativa da parte del datore di lavoro (in assenza di giusta causa), il danno subito dal dirigente può essere commisurato alle retribuzioni (ed ai contributi previdenziali) da corrispondere fino alla scadenza del termine di durata minima, a cui si dovranno aggiungere l’indennità sostitutiva di preavviso e l’indennità supplementare (in assenza del requisito della giustificatezza dell’interruzione del rapporto). Nel caso di mancato rispetto della clausola di stabilità relativa da parte del dirigente, l’entità del risarcimento a favore del datore di lavoro, in mancanza di previsione di una penale (che dovrà essere congrua e “sostenibile” in caso di richiesta di riduzione), dovrà essere comprovata dal datore di lavoro.
L’accordo di assunzione del dirigente può a volte prevedere uno specifico patto di non concorrenza al termine del rapporto (art. 2125 cod. civ.). Il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità, risultare da atto scritto, determinare limiti di oggetto, di luogo e di tempo all’obbligo di non concorrenza, attribuire al dirigente un corrispettivo per l’assunzione dell’obbligo. La durata del patto non può superare i cinque anni. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve necessariamente limitarsi alle sole mansioni espletate dal dirigente nel corso del rapporto (Cassazione, n.15253/2001 e n.10062/1994). Tuttavia, il patto di non concorrenza è valido qualora sia previsto il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al “sacrificio” richiesto (in tema Tribunale di Milano, sentenza 11/6/2001) e qualora non venga compressa eccessivamente la professionalità del dirigente, in limiti che compromettano la sua possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo a soddisfare obiettive esigenze di vita (Cassazione n.5477/2000, n.5691/2002 e n.4891/1998). Il corrispettivo del patto di non concorrenza, oltre che congruo, deve essere esattamente determinato nel suo ammontare (in tema Tribunale di Milano, sentenze 18/6/2001 e 16/6/1999), può essere erogato mensilmente in costanza di rapporto, oppure, come avviene nella quasi totalità dei casi, alla scadenza del patto, ovvero, in casi più rari, alla cessazione del rapporto. Se il corrispettivo del patto di non concorrenza viene erogato in costanza di rapporto, lo stesso incide sul calcolo del TFR ed è soggetto a tassazione ordinaria ed a contribuzione previdenziale; se invece viene pagato alla cessazione o dopo la cessazione del rapporto, non incide sul TFR, è soggetto a tassazione “separata” ed esente da contributi previdenziali. Il patto di non concorrenza può essere sciolto solo per volontà di entrambe le parti, salvo il caso di clausole che prevedano la facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, da esercitarsi, in ogni caso, prima della cessazione del rapporto (in tema, Tribunale di Milano sentenza 25/7/2000).

Avv. Marco Emanuele Galanti
Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore – Norme e tributi del 16/10/2006)

[Maggio 2006] - Attività promozionali in programmi radiotelevisivi di carattere scientifico divulgativo in materia sanitaria

Nell’ambito di programmi indicati in oggetto si assiste molto spesso al richiamo, soprattutto ad opera di medici che vi partecipino in qualità di ospiti, di prodotti farmacologici (per classe, tipologia o mediante richiamo specifico).

Ci si chiede se detti richiami possono o meno presentare in casi specifici eventuali profili di illiceità .

Sotto un primo profilo, debbono essere presi in considerazione alcuni articoli del Codice Deontologico Medico.

Più specificamente, si rilevano le seguenti disposizioni:

- art.53 (Pubblicità in materia sanitaria): “Sono vietate al medico tutte le forme, dirette o indirette, di pubblicità personale o a vantaggio della struttura, pubblica o privata, nella quale presta la sua opera.

Il medico è responsabile dell’uso che si fa del suo nome, delle sue qualifiche professionali e delle sue dichiarazioni.

Egli deve evitare che attraverso organi di stampa, strumenti televisivi e/o informatici, collaborazione a inchieste e interventi televisivi, si concretizzi una condizione di promozione e di sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri colleghi”;

- art. 54 (Informazione sanitaria): “L’informazione sanitaria non può assumere le caratteristiche della pubblicità commerciale.

Per consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole tra strutture, servizi e professionisti, è indispensabile che l’informazione, con qualsiasi mezzo diffusa, non sia arbitraria e discrezionale, ma utile, veritiera, certificata con dati oggettivi e controllabili e previo nulla osta rilasciato per iscritto dal Consiglio dell’Ordine Provinciale di appartenenza sulla base di principi di indirizzo e di coordinamento della Federazione Nazionale.

Il medico che partecipi a iniziative di educazione alla salute, su temi corrispondenti alle sue conoscenze e competenze, deve garantire, indipendentemente dal mezzo impiegato, informazioni scientificamente rigorose, obbiettive, prudenti (che non producano timori infondati, spinte consumistiche o illusorie attese nella pubblica opinione) ed evitare, anche indirettamente, qualsiasi forma pubblicitaria personale o della struttura nella quale opera”.

- art. 56 (Divieto al patrocinio): “Il medico o associazione di medici non devono concedere patrocinio e avallo a pubblicità per istituzioni e prodotti sanitari e commerciali di esclusivo interesse promozionale”.

- Sotto un secondo profilo, strettamente pubblicitario, si rilevano invece alcune disposizioni del Decreto Legslativo 30/12/1992 n.541 recante l’”Attuazione della Direttiva 92/28/CEE concernente la pubblicità dei medicinali per uso umano”.

In particolare, va evidenziato che, già in radice, è vietata qualsivoglia forma di pubblicità (fatta eccezione, nel campo delle publicazioni a mezzo stampa, per le sole riviste riservate a medici e farmacisti) avente ad oggetto medicinali che possano essere forniti solo dietro presentazione di ricetta medica o che contengano sostanze psicotrope o stupefacenti.

In deroga a tale divieto, il Ministero della Sanità può autorizzare campagne di vaccinazione promosse da imprese farmaceutiche.

E’ altresì vietata qualsivoglia forma di pubblicità (fatta sempre eccezione per le pubblicazioni a mezzo stampa delle sole riviste riservate a medici e farmacisti), dei cosiddetti farmaci “SOP” (senza obbligo di prescrizione), esenti appunto da prescrizione medica, consigliabili dal farmacista e acquistabili solo nelle farmacie.

E’ invece consentita la pubblicità di tutti gli altri farmaci, ricompresi nella categoria generale “OTC” (dall’inglese “over the counter”: “vicino alla cassa”) che “per la loro composizione ed il loro obbiettivo terapeutico, sono concepiti e realizzati per essere utilizzati senza intervento di un medico per la diagnosi, la prescizione o la sorveglianza nel corso del trattamento e, se necessario, con il consiglio del farmacista” (art. 3).

Sempre all’art.3 (5° comma) del medesimo Decreto Legislativo è previsto che “in pubblicazioni a stampa, trasmissioni radiotelevisive e in messaggi non a carattere pubblicitario comunque diffusi al pubblico, è vietato menzionare la denominazione di un medicinale in un contesto che possa favorire il consumo del prodotto.

La violazione del divieto comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da Euro 5.164,57 a Euro 30.987,41”.

Dal quadro sopra sinteticamente descritto, deriva in sintesi quanto segue:

- i medici che intervengano nei servizi o programmi, dovranno rigorosamente attenersi alle disposizioni del Codice Deontologico di riferimento, così come sopra ricordate;

- nei servizi o programmi non dovrà essere attuata alcuna forma di pubblicità, diretta o indiretta o “occulta” che dir si voglia, di prodotti farmacologici di qualsivolgia tipologia e natura, con configurabilità di illeciti maggiormente gravi in caso di pubblicità relativa a prodotti fornibili solo dietro presentazione di ricetta medica o prodotti “SOP”;

- il confine tra l’illecita pubblicità indiretta di un farmaco - nell’ambito di trasmissioni televisive o radiofoniche ( così come nel caso di pubblicazioni a mezzo stampa) - ed una corretta e lecita informazione e divulgazione scientifica, è da correlarsi alla veridicità, correttezza e rigorosità scientifica delle affermazioni di volte in volta sottosposte all’attenzione del pubblico.

Così, a titolo esemplificativo, se in una trasmissione venisse riferita l’efficacia di una particolare “tipologia” di farmaci (senza ovviamente indicarne la denominazione commerciale) per la cura di una rara patologia, non dovrebbe essere configurato alcun illecito qualora dette informazioni risultino essere veritiere e scientificamente rigorose e tali da non dare origine a timori infondati o “spinte consumistiche”.

[Gennaio 2006] - Format radiotelevisivo e sua tutelabilità

La tematica del Format e della sua tutelabilità nell’ambito della normativa in tema di diritto d’autore (essenzialmente incentrata sulle disposizioni della Legge n.636/1941), ha costituito oggetto di elaborazione, per la verità non particolarmente copiosa, in sede dottrinale e giurisprudenziale.

Con particolare riferimento all’ambito giurisprudenziale, per lo più relativo a programmi televisivi, si è registrato un primo orientamento nel senso di non ritenere effettivamente tutelabili programmi articolati solo ed esclusivamente in uno “schema”, per difetto del requisito della “compiutezza formale di espressione e di rappresentatività”  (in tal senso: Pretura Roma 8/6/1987, Cesaretti contro Società Roma 2; Pretura Roma 26/11/1987, Isabel Garcia contro Rai; Pretura Roma 30/6/1988, Società Tota contro Rai).

Secondo questo primo e più datato orientamento giurisprudenziale, la presenza di una sorta di programma (o di semplice “scaletta” o “traccia” che dir si voglia) non presenterebbe un’autonoma dignità espressiva ed una concreta elaborazione meritevole di specifica tutela in quanto difetterebbe, nella specie, un’effettiva elaborazione compiuta con espressioni dotate di originalità.

Questo primo orientamento è stato tuttavia contrastato e disatteso dalla successiva e più recente giurisprudenza di merito che è giunta a sostenere la tutelabilità anche di uno “schema di trasmissione” a condizione che lo stesso presenti sufficienti elementi di creatività ed originalità (in tal senso: Tribunale di Monza 26/5/1994, Casile contro Rti; Corte d’Appello Messina n.2191/1990; Tribunale di Monza 26/5/1994, Demetrio contro Società Rti).

Secondo questo secondo e più recente orientamento giurisprudenziale, uno “schema di programma” può considerarsi sufficientemente preciso, e quindi tale da costituire un’elaborazione originale, allorchè, pur senza giungere ad una esposizione minuziosa ed analitica, fornisca elementi tali da caratterizzare in modo definito almeno la natura e lo svolgimento degli eventi, e ciò è in particolar modo necessario, ai fini della relativa tutelabilità, quando il tema centrale della trasmissione non abbia di per sé caratteristiche di assoluta originalità.

Avendo riguardo ai criteri dettati dalla giurisprudenza per la tutelabilità di un Format nell’ambito della normativa in tema di diritto d’autore, al fine di poter rivendicare, in futuro e all’occorrenza, la tutelabilità del Format nei confronti di terzi, è opportuno cercare di diversificare e caratterizzare il più possibile quest’ultimo rispetto ad analoghe iniziative radiofoniche o televisive già intraprese sia in ambito nazionale che internazionale.

Pur in presenza di siffatte diversificazioni e caratterizzazioni occorre rilevare che, comunque, non vi sarebbe  assoluta certezza sulla concreta tutelabilità del Format trattandosi di valutazioni demandate al Giudice di volta in volta adìto, valutazioni necessariamente condizionate da un quadro giurisprudenziale ove non appare ben marcato e chiaro il confine tra ciò che potrebbe o meno essere considerato  tutelabile.

Pur in assenza di tale certezza assoluta, è naturale che a maggiori diversificazioni e caratterizzazioni originali del Format conseguirebbero maggiori possibilità di ottenerne, ove fosse necessario, la tutela in sede giudiziale.

Un secondo ambito di valutazione circa la tutelabilità del Format, nel caso in cui la sua tutelabilità quale opera dell’ingegno sia da escludere per mancanza dei requisiti della “creatività” ed “originalità”, riguarda la tematica della concorrenza sleale.

Occorre chiedersi, più in particolare, se il titolare di un Format non tutelabile quale opera dell’ingegno possa contrastare validamente analoghe e successive iniziative di terzi lamentando un atto di concorrenza sleale.

Al riguardo, occorre distinguere una disciplina speciale ed una disciplina generale in tema di concorrenza sleale.

La disciplina speciale è sostanzialmente da correlarsi all’art.102 della Legge sul Diritto d’Autore ove è previsto che “è vietata, come atto di concorrenza sleale, la riproduzione o imitazione sopra altre opere della medesima specie, delle testate, degli emblemi, dei fregi, delle disposizioni di segni o caratteri di stampa e di ogni altra particolarità di forma o di colore nell’aspetto esterno dell’opera dell’ingegno, quando detta riproduzione o imitazione sia atta a creare confusioni di opera o di autore”.

La disciplina generale sarebbe invece da correlarsi essenzialmente alla previsione dell’art.2598 n.3) cod. civ. che definisce quali atti di concorrenza sleale quelli di chi si avvalga “direttamente o indirettamente di ogni…mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

Sullo specifico punto in questione, in tema di Format, è stato individuato un solo precedente giurisprudenziale (pubblicato), rappresentato dalla sentenza del Tribunale di Roma 27/1/2000 nella causa vertente tra Artespettacolo s.a.s. e Rti s.p.a.

In detta sentenza è stato tra l’altro precisato che nel caso in cui sia “accertata l’impossibilità di tutelare il Format come opera dell’ingegno per carenza di espressione formale ed insufficienza di elementi di originalità e creatività, deve escludersi anche la possibilità di ricorrere per la relativa tutela alle norme sulla concorrenza sleale con riferimento alla disciplina degli art…..102 L.a.…omissis…Ha puntualizzato la Suprema Corte (sentenze n.5346/1993 e n.11953/1993) che ‘il divieto di taluni atti di concorrenza sleale contenuto nel titolo 2° del capo 8° L.a. e la disciplina dell’art.2598 cod. civ. sono in rapporto di specialità e poggiano su identico fondamento: si tratta di due cerchi concentrici. Orbene, una volta escluso che lo schema di programma proposto dall’attrice costituisca opera dell’ingegno per mancanza di forma data all’idea, che reca l’impronta della personalità dell’autore, in ogni caso, per carenza del requisito della creatività intesa come originalità rispetto ad ogni precedente ed esclusa conseguentemente la tutela apprestata dalla disciplina speciale, deve, altresì escludersi la tutela in ragione della disciplina codicistica della concorrenza sleale, che poggia sull’’identico fondamento quanto al suo presupposto…omissis”.

Ebbene, sulla base dell’unico precedente giurisprudenziale individuato ed attinente specificamente al Format, parrebbe doversi escludere la possibilità di lamentare validamente illeciti concorrenziali quando il Format medesimo non sia tutelabile quale opera dell’ingegno.

“Ad abundantiam”, va anche rilevato che la medesima sentenza del Tribunale di Roma, nella parte conclusiva, ha altresì escluso la possibilità di lamentare, in siffatta fattispecie, un ingiustificato arricchimento altrui ai sensi e per gli effetti dell’art. 2041 cod. civ.

[Settembre 2005] - L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto Legislativo n. 122 in attuazione della Legge Delega n. 210 del 2 agosto 2004 in materia di tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire

L’approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri in data 10 giugno 2005 del Decreto Legislativo n. 122 in attuazione della Legge Delega n. 210 del 2 agosto 2004, entrato in vigore  il giorno 21 luglio 2005, ha rivoluzionato completamente il panorama del mercato immobiliare prevedendo, per la prima volta, una serie di garanzie atte a tutelare i privati cittadini che intendono acquistare un immobile direttamente dall’impresa costruttrice.

La ratio del predetto decreto è da ricercarsi nella ormai pressante esigenza di fornire agli acquirenti strumenti adeguati a tutelare i capitali investiti nell’eventualità di una procedura di crisi aperta nei confronti dell’impresa costruttrice; spesso, in passato, numerosi privati cittadini hanno perso ingenti capitali versati alle imprese costruttrici poi fallite, senza aver avuto alcuna possibilità di recuperare le somme loro spettanti.

I Soggetti interessati dalla normativa e la definizione della “situazione di crisi”

Al fine di un corretto approccio all’analisi ed alla comprensione del decreto, è opportuno individuare quali sono le categorie di soggetti interessati e più specificamente cosa si intenda per “acquirente”, “costruttore”, “situazione di crisi” e “immobile da costruire”.

a) Per “acquirente” dovrà intendersi “la persona fisica che sia promissaria acquirente o che acquisti un immobile da costruire, ovvero che abbia stipulato ogni altro contratto, compreso quello di leasing, che abbia o possa avere per effetto l’acquisto o comunque il trasferimento non immediato a sé o a un proprio parente in primo grado, della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire, ovvero colui il quale, ancorché non socio di una cooperativa edilizia, abbia assunto obbligazioni con la cooperativa medesima per ottenere l’assegnazione in proprietà o l’acquisto di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire per iniziativa della stessa”.

Suscita qualche perplessità il fatto che, all’interno della categoria degli acquirenti, si faccia menzione unicamente delle persone fisiche; se appare pacifico che fra esse possa rientrare anche l’imprenditore individuale, è da escludersi che la normativa possa essere estesa alle società, siano esse di persone o di capitali, oltre che alle fondazioni e agli enti no profit.

Non è ben chiaro il motivo di questa distinzione operata dal Legislatore Delegato, infatti anche le società necessitano, a tutela dei propri capitali investiti, di strumenti adeguati al fine di ottenere la protezione necessaria; resta pertanto auspicabile un successivo intervento mirato ad eliminare questa disparità di trattamento.

b) Per “costruttore”, invece, si intende “l’imprenditore o la cooperativa edilizia che promettano in vendita o vendano un immobile da costruire, ovvero che abbiano stipulato ogni altro contratto, compreso quello di leasing, che abbia o possa avere per effetto la cessione o il trasferimento non immediato in favore di un acquirente della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su un immobile da costruire, sia nel caso in cui l’immobile venga edificato direttamente dai medesimi, sia nel caso in cui la realizzazione della costruzione sia data in appalto o comunque eseguita da terzi”.

c) Sempre l’articolo 1 del decreto definisce “situazione di crisi” la situazione che ricorre nei casi in cui il costruttore sia sottoposto ad esecuzione immobiliare  avente ad oggetto l’immobile in costruzione, fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo e liquidazione coatta amministrativa.

d) Anche la definizione di “immobile da costruire” risulta alquanto problematica. Il decreto infatti afferma che viene considerato immobile da costruire l’immobile per il quale “sia stato richiesto il permesso di costruire e che sia ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità”.

La definizione appena riportata non prende in considerazione un’altra situazione parimenti meritevole di tutela, ovvero quella in cui il permesso di costruire oltre ad essere stato richiesto sia stato anche rilasciato; non si comprende il motivo per cui tale previsione non sia stata presa in considerazione dal momento che anche in questa particolare situazione l’impresa costruttrice potrebbe versare in stato di crisi con pregiudizio dei capitali investiti dagli acquirenti.

Pertanto è auspicabile un intervento da parte del Legislatore o della giurisprudenza al fine eliminare tale disparità di trattamento estendendo le tutele previste dal decreto a tutte le possibili situazioni.

I principali strumenti di tutela previsti dal decreto

Dopo aver inquadrato ed analizzato l’articolo 1 della normativa riguardante le definizioni contenute nel decreto, è necessario sviluppare le tematiche concernenti gli strumenti atti a tutelare gli acquirenti degli immobili.

Tale scopo, negli intenti del Legislatore dovrà essere raggiunto mediante:

- il rilascio obbligatorio di fideiussione all’atto di stipula del contratto;

- il rilascio obbligatorio di polizza assicurativa da parte del costruttore al fine di garantire la costruzione da eventuali vizi;

- l’indicazione tassativa degli elementi costituenti il contratto preliminare;

- l’istituzione di un fondo di garanzia a tutela degli acquirenti già coinvolti nelle situazioni di crisi delle imprese costruttrici;

- dei limiti all’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare.

a) Fideiussione obbligatoria

L’articolo 2 comma I del decreto in esame prevede che “all’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di un altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio e a consegnare all’acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall’articolo 1938 C.C., di importo corrispondente alle somme ed al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento”.

Ad una prima lettura dell’articolo in esame, l’attenzione deve essere rivolta nei confronti della previsione di nullità del contratto che non contenga la previsione del rilascio della fideiussione da parte del costruttore; la norma, infatti afferma che la nullità può essere fatta valere unicamente dalla parte acquirente e ciò in palese contrasto con i dettami privatistici secondo i quali la nullità di un contratto può essere fatta valere da chiunque abbia un interesse in quel determinato rapporto giuridico.

In mancanza di strumenti interpretativi certi, a causa della recentissima approvazione del decreto, ci si potrebbe domandare se nei contratti che abbiano ad oggetto la compravendita o il trasferimento di altro diritto reale di godimento  su immobili da costruire sia possibile inserire una clausola che preveda la rinuncia, da parte dell’acquirente, a far dichiarare la nullità del contratto in mancanza di fideiussione rilasciata dal costruttore; se così fosse la normativa in esame potrebbe essere agevolmente superata in fase di stipula del contratto, il che, francamente, suscita non poche perplessità.

A ciò deve aggiungersi che i primi commenti a tale articolo hanno evidenziato ulteriori problematiche in merito al rilascio obbligatorio della fideiussione da parte del costruttore.

In primo luogo è stato evidenziato, come ovvio, che la fideiussione garantirà unicamente le somme versate non in modo “ufficiale” dagli acquirenti; da ciò si evince come la garanzia fideiussoria avrà tanta più efficacia, quanto più gli acquirenti e i costruttori abbandoneranno l’ormai diffusa e consueta prassi dei pagamenti “non ufficiali”.

Ma probabilmente le maggiori perplessità sorgono nel momento in cui si considera la natura e il campo di applicazione della garanzia stessa.

Per ciò che concerne la natura sembra pacifico che la fideiussione prevista dal decreto non sia a prima richiesta. In ragione di ciò il fideiussore non sarà obbligato a pagare la somma garantita alla semplice richiesta da parte dell’acquirente, ma potrà sollevare allo stesso ogni tipo di contestazione che avrebbe potuto sollevare all’acquirente il costruttore principale. Al fine di chiarire meglio tale aspetto è possibile presentare un esempio: dal momento che la garanzia fideiussoria è valida unicamente se è valido il rapporto contrattuale che ne è il presupposto, sarebbe sufficiente, da parte del fideiussore, un contestazione in merito alla validità del contratto stipulato con il costruttore per rendere vana ogni ragione del creditore.

Inoltre la fideiussione opererà come garanzia solamente in tassative ipotesi elencate all’articolo 3 comma 2 del decreto, ovvero:

·         Trascrizione del pignoramento relativo all’immobile oggetto del contratto

·         Pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento o del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa

·         Presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo

·         Pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di insolvenza o, se anteriore, del decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa o l’amministrazione straordinaria

Permangono, purtroppo, altri ambiti in cui il compratore non gode della tutela da parte dell’ordinamento; fra questi è possibile ricordare l’eventualità in cui il costruttore venda l’immobile ad una pluralità di acquirenti, oppure quella in cui sempre il costruttore non rispetti i tempi di consegna o gli impegni presi nel capitolato lavori. In simili situazioni, allo stato, l’unico rimedio possibile per il compratore sarà la consueta azione per il risarcimento del danno con gli inevitabili ed ingenti costi in termini di tempo e denaro che questa comporta.

Ulteriori perplessità residuano in capo alla recente possibilità di rilasciare fideiussioni concessa anche agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’articolo 107 del decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385; tale aspetto, infatti, potrebbe generare in futuro situazioni “pericolose” dal punto di vista patrimoniale, in quanto detti soggetti potrebbero rilasciare fideiussioni senza essere in possesso di riserve di denaro sufficienti per coprire le somme per le quali la garanzia è stata prestata.

b) Polizza assicurativa

La seconda novità di rilievo, introdotta dall’articolo 4 del decreto, è rappresentata dalla previsione dell’obbligatorietà del rilascio da parte del costruttore di una polizza assicurativa di durata decennale che copra gli eventuali vizi di costruzione; i dieci anni di durata della polizza decorrerebbero, secondo quanto disposto dal comma 1 del decreto in esame, dalla data di ultimazione dei lavori. Tale indicazione, però, appare piuttosto vaga, non essendo stabilito cosa effettivamente debba intendersi per lavoro ultimato, rimettendo con ogni probabilità alle parti l’individuazione di tale momento temporale e creando così i presupposti per possibili contestazioni successive.

L’articolo 4, inoltre, si presenta lacunoso anche in ordine alla quantificazione del valore della polizza; nulla infatti viene stabilito in merito ai valori per cui prestare l’assicurazione, ne tanto meno viene sancito un parametro di congruità alla stessa.

In linea teorica, quindi, si potrebbero verificare casi di stipulazione della polizza assicurativa per valori manifestamente inadeguati, vanificando quindi lo spirito e la finalità della norma.

Dopo aver analizzato i sopraindicati punti a e b sorge spontaneo domandarsi quali saranno gli effetti, sotto il profilo finanziario, dell’obbligo di rilasciare una fideiussione ed una polizza assicurativa a tutela dell’acquirente; con ogni probabilità l’introduzione di questi strumenti di tutela determinerà inevitabili aumenti a carico dei compratori, i quali vedranno lievitare i prezzi degli immobili. Probabilmente i tempi non sono ancora maturi per trarre conclusioni definitive e sarà quindi necessario osservare come agiranno rispettivamente le associazioni dei consumatori e quelle che raggruppano i costruttori edili.

c) Elementi essenziali del contratto preliminare

Un ulteriore passo avanti nel percorso verso la piena tutela degli acquirenti di immobili da costruire o non ancora ultimati è rappresentato dall’articolo 6 del decreto in esame, articolo che contiene analiticamente i requisiti del contratto preliminare di compravendita. Nonostante il tenore letterale della norma riporti i termini “deve contenere….”, non viene specificato dal Legislatore Delegato se la mancanza anche solo di uno dei requisiti comporti la nullità o meno del contratto preliminare.

Si può tuttavia fondatamente ritenere che la nuova norma, individuando l’obbligatorietà dell’inserimento nei contratti diretti all’acquisto della proprietà o di altro diritto reale di godimento sugli immobili da costruire, integri nella sostanza i requisiti del contratto previsti dall’articolo 1325 C.C. e quindi, la mancata osservanza delle nuove disposizioni ben potrebbe configurare un’ipotesi di assenza nel contratto di quegli elementi essenziali previsti ex lege con conseguente e possibile declaratoria di nullità dei rapporti contrattuali privi di detti elementi, secondo la previsione dell’articolo 1418 C.C.

Purtroppo anche in questo caso il Legislatore non è stato sufficientemente chiaro e sarà quindi la successiva elaborazione giurisprudenziale della norma a dare indicazioni più precise. Comunque, indipendentemente da ogni possibile dubbio sarà obbiettivamente opportuno accertare che i contratti oggetto delle nuove disposizioni vengano predisposti nell’osservanza delle previsioni dell’articolo 6 delle nuove disposizioni.

Gli elementi previsti dalle nuove disposizioni sono i seguenti:

* Indicazioni previste dall’articolo 2659 comma 1 C.C. in materia di trascrizione e di indicazione dell’immobile ipotecato
* La descrizione dell’immobile e di tutte le pertinenze di uso esclusivo oggetto del contratto
* Gli estremi di eventuali atti di obbligo e convenzioni urbanistiche stipulati per l’ottenimento dei titoli abitativi alla costruzione e l’elencazione dei vincoli previsti
* Le caratteristiche tecniche della costruzione, con riferimento alla struttura portante, alle fondazioni, alle tamponature, ai solai, alla copertura, agli infissi ed agli impianti
* I termini massimi di esecuzione dei lavori
* L’indicazione del prezzo complessivo da corrispondersi in denaro o il valore di ogni altro corrispettivo con l’indicazione dei termini e delle modalità di pagamento e l’indicazione dell’importo dell’eventuale somma da versarsi a titolo di caparra
* Gli estremi della fideiussione
* L’eventuale indicazione di ipoteche o trascrizioni pregiudizievoli di qualsiasi tipo sull’immobile con la specificazione del relativo ammontare, del soggetto in favore del quale risultano emesse e del titolo in base al quale sono state emesse
* Gli estremi del permesso di costruire o della sua richiesta qualora questo non sia ancora stato rilasciato, nonché di ogni altro titolo, denuncia o provvedimento abilitativi alla costruzione
* Eventuale indicazione dell’esistenza di imprese appaltatrici con l’indicazione dei relativi nominativi e dati

Sono altresì previsti obbligatoriamente i seguenti allegati

·         Il capitolato contenente le caratteristiche dei materiali da utilizzarsi, individuati anche solo per tipologie, caratteristiche e valori omogenei, nonché l’elenco delle rifiniture e degli accessori concordati fra le parti

·         Gli elaborati del progetto in base al quale è stato richiesto o rilasciato il permesso di costruire o l’ultima variazione del progetto originario, limitatamente alla rappresentazione grafica degli immobili oggetto del contratto, delle relative pertinenze esclusive e delle parti condominiali

d) Fondo di solidarietà

Il Legislatore Delegato ha inoltre preso in considerazione quanti in passato abbiano assistito al fallimento dell’impresa venditrice senza poter recuperare alcunché del capitale investito; gli articoli da 12 a 18 del decreto di attuazione prevedono infatti l’istituzione di un Fondo di solidarietà per gli acquirenti di immobili da costruire al quale potrà aderire l’acquirente la cui impresa costruttrice e venditrice versi in situazione di crisi non conclusa alla data del 31 dicembre 1993 o non ancora aperta in data successiva all’emanazione del decreto in esame. Il Fondo sarà articolato in sezioni territoriali autonome e trarrà la propria alimentazione da un contributo obbligatorio a carico del costruttore e che verrà versato al Fondo dal soggetto che rilascerà la fideiussione così come previsto dall’articolo 17.

Pertanto gli acquirenti in possesso dei requisiti di cui all’articolo 13 del decreto in esame potranno finalmente  avere la speranza di vedere tutelate anche se in parte delle situazioni giuridiche e patrimoniali che fino ad ora versavano in una condizione di notevole pregiudizio.

e) Limiti all’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare

Da segnalare è altresì l’articolo 10 del decreto legislativo in esame che apporta sostanziali modifiche alla disciplina della revocatoria fallimentare relativa ai trasferimenti di proprietà o di altro diritto reale di godimento sugli immobili da costruire.

Secondo detto articolo, tali atti, se posti in essere al giusto prezzo da valutarsi alla stipula del preliminare, sono esclusi dall’azione revocatoria fallimentare; tuttavia tale esclusione è soggetta alla condizione della sussistenza dell’impegno da parte dell’acquirente, nell’ambito del preliminare, di “… stabilire, entro 12 mesi dall’acquisto o dall’ultimazione degli stessi (lavori di edificazione) la residenza propria o dei suoi parenti o affini entro il terzo grado….”.

Anche tale norma presenta alcuni profili di incertezza; in primo luogo non è di agevole comprensione cosa si debba intendere per “impegno”. Non è chiaro infatti se sia sufficiente da parte dell’acquirente un impegno formale all’atto della stipula del preliminare oppure se questo impegno debba effettivamente tradursi in un comportamento concreto al fine di evitare l’azione revocatoria fallimentare.

Inoltre non è ben chiaro il motivo per cui la norma in esame prenda in considerazione solamente una ristretta casistica di soggetti, tralasciando, ad esempio, tutti coloro che intendono acquistare una seconda casa. Costoro infatti potrebbero, in linea teorica, rivendicare la tutela offerta dall’articolo 10 del decreto in esame.

Una ulteriore novità è data dal secondo comma dell’articolo 10 il quale sancisce il principio che sono parimenti sottratti all’azione revocatoria fallimentare i pagamenti dei premi e delle commissioni relativi ai contratti di fideiussione e di assicurazione di cui agli articoli 3 e 4 qualora effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso.

Con questa breve analisi del Decreto Legislativo in attuazione della Legge Delega n. 210 del 2 agosto 2004 si è cercato di fornire una prima e sintetica visione il più possibile critica, oggettiva e chiarificatrice di una normativa decisamente innovativa per il mercato immobiliare.

Ciò che si presenta agli occhi degli addetti ai lavori è senza dubbio un testo che offre notevoli spunti di riflessione ma che, senza dubbio, necessiterà di interventi legislativi o giurisprudenziali successivi al fine di essere meglio chiarito nelle parti in cui ancora troppe sono le incertezze di carattere interpretativo.

Residuano, al fine di un’analisi completa della normativa in esame, alcune tematiche concernenti l’obbligo di cancellazione o frazionamento dell’ipoteca, i quali saranno oggetto di approfondimento in una successiva circolare.

STUDIO LEGALE GGM                                              LOMBARD CONSULTING

[Marzo 2005] - Circolare ministeriale n. 48/04: linee guida per le commissioni di cetificazione dei contratti di lavoro

Con la legge 30/2003 e il relativo decreto legislativo di attuazione n. 276/2003 il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della certificazione dei contratti di lavoro.

Come già ampiamente analizzato nella circolare n. 129, tale innovazione persegue lo scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro (art. 75), fornire alle parti assistenza circa la predisposizione delle clausole contrattuali e definire meglio nei limiti la qualificazione giuridica del contratto voluto e concluso dalle parti.

Risulta infatti opportuno chiarire che la procedura di certificazione viene attivata unicamente per impulso delle parti.

La ragione che sottende alla creazione di tale istituto giuridico è da ricercarsi nel continuo proliferare di nuove tipologie contrattuali in materia di rapporto di lavoro; scopo della certificazione è dunque quello di rendere meno complesso e problematico l’inquadramento delle singole fattispecie.

Per quanto nelle intenzioni del legislatore lo scopo primario della certificazione sia quello della riduzione del contenzioso in materia di lavoro, è necessario sottolineare come tale traguardo sarà difficilmente raggiungibile; infatti, l’art. 79 del decreto legislativo n. 276/2003 stabilisce che il contratto certificato ha efficacia fra le parti e fra i terzi fino a quando non sia stato accolto uno dei ricorsi previsti dall’art. 80 del sopracitato decreto.

Tale articolo prevede che le parti possano impugnare il contratto oggetto di certificazione per “difformità tra il programma negoziale e la sua effettiva attuazione”; se si considera che la gran parte delle controversie di in materia di lavoro ha per oggetto tale motivo è presumibile che il numero di cause non sia destinato a diminuire.

Tuttavia l’espletamento della procedura di certificazione costituisce una sorta di “filtro” del contenzioso, in quanto l’eventuale accertamento in sede giudiziale della difformità del rapporto rispetto alla sua effettiva attuazione richiede necessariamente il preventivo espletamento di tentativo di conciliazione avanti la commissione certificatrice del rapporto oggetto del ricorso.

Per quanto, alla luce delle considerazioni appena esposte, la certificazione non metta al riparo il contratto di lavoro da eventuali contestazioni, è opportuno rilevare come la necessità di esperire un tentativo di conciliazione renda quest’ultimo più resistente nei confronti di eventuali contestazioni delle  parti o dei terzi, inclusi gli enti previdenziali e assistenziali (INPS e INAIL).

A tale riguardo è opportuno domandarsi se gli enti sopraindicati possano avanzare una pretesa contributiva in contrasto con il contenuto del contratto certificato mediante l’iscrizione a ruolo dei contributi previdenziali o mediante la richiesta di decreto ingiuntivo oppure se debbano chiedere in via preventiva l’accertamento dell’invalidità o dell’inefficacia della certificazione.

La lettera della norma non sembrerebbe consentire a tali enti la possibilità di far valere la pretesa contributiva in via diretta, rendendo necessario un accertamento giudiziale in merito alla validità della certificazione a seguito del giudizio di opposizione alla cartella esattoriale instaurato dal datore di lavoro.

La circolare ministeriale n. 48/2004 rappresenta una vera e propria guida operativa ai fini della certificazione dei contratti di lavoro; in essa, infatti, non vengono solamente definiti gli assetti organizzativi degli enti certificatori ma vengono altresì presentati modelli dei provvedimenti da adottare.

Il nucleo centrale della circolare è rappresentato dalla BOZZA DI REGOLAMENTO INTERNO DELLE COMMISSIONI, la quale si prefigge come obbiettivo quello di fornire agli operatori del settore e alle parti interessate le linee guida per il procedimento di certificazione richiamando gli elementi essenziali dei singoli contratti per i quali è previsto il procedimento di certificazione ed illustrando con precisione l’intero iter del processo di certificazione.

Le tipologie di rapporto di lavoro soggette a certificazione sono le seguenti:

·         Lavoro a progetto

·         Lavoro a tempo parziale

·         Lavoro intermittente

·         Lavoro ripartito

·         Associazione in partecipazione

·         Appalto

·         Inserimento e collaborazioni coordinate e continuative escluse dall’obbligo di progetto

Risulta però opportuno in questa sede sottolineare come le linee guida contenute in questa circolare, per quanto rappresentino uno strumento di indiscussa utilità per tutti gli operatori del settore, siano alquanto riduttive rispetto alla complessità delle singole fattispecie contrattuali in oggetto.

Per tale ragione le Commissioni che decideranno di avvalersi di queste linee guida dovranno comunque valutare con attenzione il contenuto delle precedenti circolari ministeriali relative alle singole tipologie contrattuali.

Possiamo dunque affermare che la circolare in esame possa essere considerata un vero e proprio vademecum sia per gli operatori del diritto che per le parti che intendono stipulare e certificare una delle tipologie contrattuali previste.

La procedura di certificazione è votata alla maggiore celerità e semplicità possibile in ordine all’opportunità di fornire alle parti sicurezza e certezza in merito al contratto stipulato.

In conformità al contenuto del provvedimento ministeriale il funzionario che verrà nominato relatore del procedimento dovrà predisporre, per ogni istanza ricevuta, una SCHEDA RIEPILOGATIVA contenente:

·         Note riguardanti la documentazione allegata dalle parti

·         Note concernenti la sussistenza o meno dei requisiti previsti per la certificazione di quel particolare contratto di lavoro

E’ obbligatorio che le parti presenzino personalmente all’audizione davanti alla Commissione di Certificazione, essendo prevista la possibilità di farsi rappresentare da un soggetto munito di delega solamente in caso di motivazioni valutate dallo stesso Presidente della Commissione.

Nell’eventualità in cui tali motivi vengano valutati positivamente da parte del Presidente, la parte deve essere rappresentata obbligatoriamente da:

* ORGANIZZAZIONE SINDACALE
* ORGANIZZAZIONE DI CATEGORIA
* PROFESSIONISTA ABILITATO

In ordine alle esigenze di celerità, la circolare prevede che la procedura debba necessariamente concludersi entro 30 giorni dal ricevimento dell’istanza da parte della Commissione.

Qualora però la Commissione di Certificazione dovesse richiedere alle parti una ulteriore documentazione il termine di 30 giorni decorrerebbe dalla data di ricevimento dei documenti richiesti.

Questa possibile deroga dei termini, però, pone alcuni dubbi in merito all’effettiva celerità della procedura in esame, rendendo pertanto opportuno il compimento di verifiche nel periodo di messa a regime della stessa.

Secondo quanto contenuto nella circolare ministeriale, la delibera di accoglimento o di rigetto deve essere assunta a MAGGIORANZA ASSOLUTA DEI SOLI MEMBRI DI DIRITTO:

* Dirigenti e Funzionari della Direzione Provinciale del Lavoro
* Rappresentanti INPS e INAIL

Una simile disposizione si traduce prevalentemente in una maggiore rapidità del processo di deliberazione, sollevando però non poche perplessità in merito all’opportunità di escludere da tale fase del procedimento i MEMBRI CONSULTIVI:

* Rappresentante dell’Agenzia delle Entrate
* Rappresentante degli Ordini Professionali

Non bisogna però ritenere che il ruolo di questi ultimi sia del tutto marginale, in quanto il parere dei membri consultivi risulterà dai verbali di lavoro della Commissione e dovrà essere necessariamente considerato anche nell’eventualità di impugnazione della delibera ad opera di una delle parti.

Risulta altresì opportuno sottolineare come le Commissioni di Certificazione non dovrebbero essere solamente dei luoghi di ricezione passiva di istanze in ordine alla qualificazione giuridica di tipologie contrattuali standardizzate, ma dovrebbero svolgere anche un ruolo di consulenza alle parti.

La legge infatti prevede che all’interno delle Commissioni le parti possano trovare personale in grado di fornire assistenza e consulenza in relazione sia all’effettiva stipulazione del contratto che alle eventuali modifiche del programma negoziale con riferimento sia alla DISPONIBILITA’ DEI DIRITTI che all’ESATTA QUALIFICAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO.

Per ciò che concerne l’individuazione della circolare ministeriale n.48/04 come un valido strumento per la risoluzione delle controversie in materia di lavoro, è essenziale ricordare l’opera di consulenza alle parti che dovrà essere prestata dalle commissioni di certificazione.

Nelle intenzioni del legislatore, infatti, le commissioni di certificazione non dovranno circoscrivere il loro operato alla mera ricezione di atti seguite da altrettante delibere, ma dovranno adoperarsi al fine di poter fornire alle parti che intendono sottoporre alla procedura di certificazione il proprio rapporto di lavoro una adeguata assistenza in ordine alla tipologia contrattuale più idonea e alla previsione di tutti gli elementi necessari e sufficienti a garantire un corretto inquadramento del rapporto di lavoro.

Un simile operato da parte delle commissioni di certificazione, potrebbe, in linea teorica,  prevenire l’insorgere di controversie successive alla stipulazione del rapporto di lavoro, dal momento che la formazione del contratto verrà seguita punto per punto dal personale della direzione provinciale del lavoro.

Al fine di fornire una panoramica completa in relazione al contenuto della circolare in esame, è opportuno elencare per sommi capi i requisiti previsti per la certificazione dei differenti contratti di lavoro.

A tale proposito è opportuno ricordare che gli elementi distintivi delle diverse tipologie di contratto sono i medesimi contenuti nel Dlgs. n. 276/2003.

CONTRATTO DI COLLABORAZIONE A PROGETTO

* Autonomia del collaboratore nello svolgimento dell’attività lavorativa prevista dal contratto e sua adeguata professionalità
* Verificare se il prestatore di lavoro è già stato utilizzato in precedenza dal medesimo datore di lavoro
* Indicazione delle modalità con cui si svilupperà il rapporto di lavoro; le indicazioni devono essere concrete e non devono apparire come generici riferimenti
* La prestazione di lavoro deve essere circoscritta temporalmente e necessariamente collegata al progetto, non potendo il datore di lavoro pretendere prestazioni che esulino da quest’ultimo

CONTRATTO A TEMPO PARZIALE

* Orario di lavoro cui è tenuto il lavoratore; questo deve essere inferiore all’orario normale di lavoro fissato dall’art. 3 comma 1 Dlgs. N. 66/2003 o dall’eventuale minor orario normale fissato dai contratti collettivi
* Precisa indicazione della durata della prestazione lavorativa e della sua collocazione temporale (giorno, settimana, mese, anno)
* Clausole flessibili concordate nel rispetto della contrattazione collettiva
* Eventuale patto scritto conseguente alla richiesta del lavoratore concernente l’assistenza di un rappresentante sindacale in ordine alla variazione della collocazione temporale dell’orario di lavoro
* Livello di inquadramento
* Trattamento economico

CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE

* Indicazione della durata e delle ipotesi, oggettive e soggettive, che consentono la stipulazione del contratto
* Luogo e modalità della disponibilità e indicazioni in merito al preavviso di chiamata del lavoratore
* Trattamento economico e normativo spettante al lavoratore e indicazione dell’indennità di responsabilità
* Indicazione delle forme e delle modalità con cui il datore di lavoro può richiedere l’esecuzione della prestazione e delle modalità di rilevazione della prestazione
* Indicazione dei tempi e della modalità di retribuzione del lavoratore e della retribuzione dell’indennità di disponibilità
* Indicazione delle eventuali misure di sicurezza da adottare in relazione al tipo di attività di cui è oggetto il contratto di lavoro
* Rispetto assoluto dei divieti; in particolare il datore di lavoro non potrà occupare lavoratori intermittenti al fine di sostituire dipendenti in sciopero

CONTRATTO DI LAVORO RIPARTITO

* Indicazione della misura percentuale e della precisa collocazione temporale del lavoro svolto da ciascuno dei lavoratori coobbligati, oltre alla previsione della possibilità concessa ai lavoratori di determinare in qualunque momento e discrezionalmente la propria sostituzione e la modificazione consensuale dell’orario di lavoro
* Indicazione dell’obbligazione lavorativa, del luogo di lavoro, dell’inquadramento e    del trattamento economico e normativo spettante a ciascuno dei lavoratori
* Indicazione delle eventuali misure di sicurezza da adottare in relazione al tipo di attività lavorativa prevista dal contratto

CONTRATTO DI ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE

·         Indicazione dell’apporto dell’associato

·         Indicazione della quota di partecipazione agli utili, precisandone il valore e i parametri necessari per calcolarne l’importo; è altresì necessaria l’indicazione dei parametri atti a valutare l’effettiva partecipazione.

·         Indicazione di una eventuale partecipazione alle perdite

·         Indicazioni concernenti le possibili tipologie di controllo esercitabili dal socio e il rendiconto periodico

·         Indicazione dell’autonomia dell’associato nello svolgimento dell’attività prevista dal contratto ai fini della verifica della subordinazione

CONTRATTO DI APPALTO

·         Indicazione degli elementi del contratto: attività appaltata, presumibile durata, riferimenti in merito all’apporto dell’appaltatore con particolare riferimento all’organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera

·         Indicazioni relative all’apporto dell’appaltatore. Se l’opera appaltata non richiede l’utilizzo di mezzi o beni strumentali è necessario acquisire notizie in merito al know-how aziendale e alla professionalità dei soggetti impiegati; è altresì necessario indicare le modalità di esercizio del potere direttivo e organizzativo dei lavoratori. Se il rapporto è di monocommittenza è opportuno valutare attentamente se in capo all’appaltatore incombe l’organizzazione dei mezzi e se è riscontrabile il rischio di impresa

·         Indicazione degli indici del rischio di impresa

·         Deve essere richiamato l’obbligo solidale che vincola le parti contraenti in relazione ai trattamenti contributivi e retributivi dovuti

CONTRATTO DI INSERIMENTO

* Verifica dei requisiti soggettivi (categorie di lavoratori e datori di lavoro) e oggettivi
* Verifica della definizione consensuale del progetto di inserimento. Il progetto deve risultare come parte integrante del contratto e deve indicare, oltre alla durata e alle modalità di formazione, la qualificazione il cui conseguimento è alla basa del contratto stesso
* Il progetto deve contenere le indicazioni di un percorso formativo ripartito in formazione teorica (sicurezza sul lavoro e disciplina del rapporto di lavoro) e addestramento specifico eventualmente supportato da procedure de e-learning.

CONTRATTO DI COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA

* Verifica dei requisiti soggettivi
* Se si tratta di co.co.co prorogate ai sensi dell’art.86 comma 1, del Dlgs. n. 276/2003, come modificato dal Dlgs. n. 251/2004 di correzione, occorre verificare che queste cessino comunque alla data del 25/10/2005 e che siano state prorogate mediante gli accordi sindacali previsti dal legislatore
* Indicazione  dell’autonomia del collaboratore nell’espletamento della propria attività
* Indicazione della corrispondenza fra la professionalità del collaboratore impiegato e l’attività da lui prestata
* Verifica di una eventuale precedente utilizzazione del lavoratore da parte del medesimo datore di lavoro; in caso affermativo è necessario evidenziare le differenze oggettive fra il precedente rapporto di lavoro e quello attuale oggetto di collaborazione
* Indicazione espressa del criterio di determinazione del corrispettivo dovuto al collaboratore
* Verifica che l’attività prestata dal collaboratore  sia necessariamente relativa al contenuto del contratto da certificare

Si segnala inoltre che è definitivamente insediata ed operativa la Commissione di Certificazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro di Milano, Via Lepetit n. 8.

Lo studio resta a Vostra disposizione per qualunque chiarimento in materia e per eventuali richieste di assistenza in merito alle procedure di certificazione.

Studio legale GGM                                                                               Lombard Consulting

[Novembre 2004] - Disposizioni correttive del decreto legislativo 10 settembre 2003, n.276, in materia di occupazione e mercato del lavoro

In attuazione dell’art. 8 co..5, legge delega 14 febbraio 2003, n.30, il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva in data 3 settembre 2004, un decreto legislativo contenente disposizioni  modificative e correttive del d.lgs. n. 276/2003.

Con i 21 articoli adottati, che  non modificano il decreto 276/2003 nelle linee essenziali  e negli obiettivi (maggiore flessibilità, miglioramento dell’efficienza, sostegno delle politiche attive per il mercato del lavoro), il Governo si è limitato ad introdurre alcune correzioni ed adeguamenti tali da consentire alla riforma di operare pienamente.

In tema di somministrazione l’art.1 prevede la possibilità che la fideiussione richiesta come garanzia dei crediti dei lavoratori impiegati e dei corrispondenti crediti contributivi degli enti previdenziali non sia più esclusivamente bancaria o assicurativa, introducendo la possibilità che venga rilasciata da intermediari iscritti nell’elenco ex art.107 d.lgs. 385/1993.

L’art. 2 modifica l’art.6 comma 2 del decreto 276/2003 consentendo lo svolgimento di attività di intermediazione ora anche alle unioni di comuni ed alle comunità montane;  per le procedure di autorizzazione il comma 2 dello stesso articolo prevede che le stesse dovranno essere oggetto di normative regionali, in attesa delle quali i soggetti precedentemente autorizzati  “…che non intendano richiedere l’autorizzazione a livello nazionale possono continuare a svolgere in via provvisoria e previa comunicazione al ministero del Lavoro e delle politiche sociali le attività oggetto di autorizzazione  con esclusivo riferimento a una singola regione…” ( art.6, co.8 nuovo testo).  I soggetti autorizzati da una singola regione non possono operare a favore di imprese con sedi legali in regioni diverse.

È stato altresì aggiunto un comma 8-bis in base al quale è esclusa la possibilità di esercitare l’attività di intermediazione in forma di consorzio.

L’art.4 interviene in relazione all’articolo 18 del decreto n. 276 inasprendo il regime sanzionatorio. Pertanto l’esercizio non autorizzato di attività di somministrazione prevede come sanzione l’ammenda di 50 euro per ogni lavoratore assunto e  per ogni giornata di lavoro, con l’eventuale aumento dell’ammenda fino al sestuplo e con la previsione dell’arresto fino a 18 mesi, nelle ipotesi di sfruttamento dei minori.

L’esercizio non autorizzato di attività di intermediazione è adesso punito con l’arresto fino a 6 mesi e con l’ammenda da 1500 a 7500 euro; se tale attività, prevista dall’articolo 4 comma 1 let. c), è svolto senza scopo di lucro la pena prevista è l’ammenda da 500 a 2500 euro. Anche in tal caso se vi dovesse essere sfruttamento dei minori è previsto l’arresto fino a 18 mesi e l’aumento dell’ammenda fino al sestuplo.

È stata fissata l’ammenda, tra 750 e 3750 euro, per esercizio non autorizzato dell’attività di ricerca e selezione del personale e di supporto alla ricollocazione professionale, se non vi dovesse essere scopo di lucro la sanzione è da 250 a 1250 euro.

Il contratto di somministrazione stipulato in violazione degli obblighi e dei divieti posti dall’articolo 20, commi 3,4,5, (Liceità del contratto), nonché delle disposizioni di cui all’articolo 21 commi 1 e 2 (Forma del contratto) comportano la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 250 ad euro 1250.

È stato inoltre introdotta un’ulteriore fattispecie, prevista dal comma 5-bis dell’art.18, per le ipotesi di appalto e distacco privi dei requisiti specificatamente  richiesti dagli articoli 29 e 30; la sanzione prevista è la stessa prevista per le ipotesi di somministrazione non autorizzata ( 50 euro per lavoratore e per giornata di lavoro con aumento dell’ammenda fino al sestuplo ed arresto fino ai 18 mesi per le ipotesi di sfruttamento dei minori).

Per il disposto dell’art.5 la nullità del contratto di somministrazione è ora ricollegata alla sola mancanza della forma scritta non essendo più necessaria l’indicazione degli elementi prima richiesti.

L’art.6 ridisegna in parte la disciplina dell’appalto (art.29), prevedendo la sussistenza dell’obbligo di solidarietà tra committente imprenditore o datore di lavoro ed appaltatore ora anche in relazione ai contratti di appalto di opere, e non più solo per i contratti di appalto di servizi. Il vincolo di solidarietà riguarda tutti gli obblighi contributivi e retributivi e termina dopo un anno dalla cessazione dell’appalto. La stessa norma fa tuttavia salva l’ipotesi che i contratti collettivi nazionali possano regolare diversamente la fattispecie in esame.

È data facoltà, inoltre, al lavoratore nell’eventualità che il contratto di appalto sia stipulato in violazione dei requisiti richiesti dall’art.29 co.1 (organizzazione da parte dell’appaltatore die mezzi necessari, esercizio del potere organizzativo ed assunzione del rischio di impresa) di ottenere, tramite un ricorso giudiziale ex art.414 cpc la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la prestazione.

In tal caso la disciplina  applicabile è quella prevista dall’art.27 comma 2  (somministrazione irregolare), per cui  resta salvo il quantum pagato a titolo retributivo e contributivo dal committente. Queste disposizioni non trovano però applicazione nei confronti del committente - persona fisica in assenza di attività d’impresa o professionale.

La normativa è in parte modificata  anche per l’ipotesi di distacco. L’art.7 stabilisce, infatti, anche in questo caso la possibilità che a mezzo di ricorso al giudice del lavoro venga a costituirsi un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, allorquando non siano state rispettate le disposizioni che regolamentano l’istituto. Anche in tale ipotesi resta salvo quanto già pagato ai fini retributivi e contributivi. Tale rimedio, che non era stato previsto dal legislatore del 2003, riveste particolare  importanza.

In materia di gruppi d’impresa l’art.8 modifica il comma 2 dell’art.31, affermando che  i servizi relativi alla consulenza del lavoro da parte dei consorzi di società cooperative possono essere svolti per il tramite dei consulenti del lavoro anche se dipendenti degli stessi consorzi.

L’art.9, in relazione all’art.2112 cc (Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda) che il vincolo di solidarietà previsto tra appaltante ed appaltatore non sia più quello previsto dall’art. 1676 cc (Diritti degli ausiliari dell’appaltatore verso il committente) ma quello ora previsto dall’art 29 co.2.

Lart.10 sancisce che la possibilità di ricorrere al contratto di lavoro intermittente possa essere stabilita per predeterminati periodi della settimana , del mese o dell’anno, in base a quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro a fronte della previsione strettamente transitoria del vecchio testo dell’art. 34  che rimetteva tale facoltà al ministero del Lavoro e delle politiche sociali.

Anche nel campo dell’apprendistato sono stati apportati dei correttivi. In tal senso l’art 11 modifica parzialmente il comma 3 dell’art. 53, prevedendo quale sanzione per la mancata realizzazione delle finalità dell’istituto dovuta all’esclusiva responsabilità del datore di lavoro, in luogo dei vecchi contributi agevolati maggiorati, il versamento della differenza tra il versato e l’eventuale dovuto “…con riferimento all’inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato…” maggiorata tuttavia del 100 per cento.

Identica sanzione è stata introdotta nell’ipotesi in cui non sia stato rispettato dal datore di lavoro il progetto individuale di inserimento. (art. 55 co.5 , come modificato dall’art.12 del decreto esaminando).

La sanzione risulta di tal fatta maggiormente efficace per la tutela della finalità formativa dei due istituti.

Nel campo del contratto d’inserimento l’art.13, in tema di incentivi economici (art.59, comma3), richiama espressamente a differenza di prima il rispetto del regolamento (CE) n.2204/2002 della Commissione del 12 Dicembre 2002 (Applicazione degli artt.87 e 88 del Trattato CE relativo agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione).

Tale regolamento opera con l’obiettivo di esonerare i governi nazionali dall’obbligo di notifica alla Commissione degli aiuti di Stato che contribuiscono alla creazione di posti di lavoro e quelli all’assunzione di lavoratori svantaggiati e disabili, l’obiettivo dell’incentivo dev’essere comunque la promozione dell’occupazione.

L’art.14, aggiungendo dopo l’art 59 un nuovo 59-bis, si preoccupa della disciplina transitoria dei contratti di formazione e lavoro.  I contratti cui la norma esaminanda si riferisce sono quelli stipulati tra il 24 Ottobre 2003 ed il 31 Ottobre 2004, sulla base tuttavia di progetti autorizzati entro il 23 Ottobre 2003. Tali contratti restano disciplinati dalla normativa in vigore prima del decreto n.276/2003.

La possibilità di accedere ai benefici economici ricollegati al contratto di formazione e lavoro potrà essere applicata solo a 16.000 contratti. I datori di lavoro che volessero accedervi devono presentare entro 30 giorni dalla stipula domanda all’INPS allegando copia dell’autorizzazione ed indicando il numero dei contratti stipulati. Per i contratti già stipulati il termine di presentazione delle relative domande decorre dalla data di entrata in vigore del decreto correttivo.

Entro il 30 Novembre 2004 l’INPS provvederà all’ammissione, sempre nel numero massimo di 16.000 contratti, utilizzando come criterio di scelta quella della priorità della data di stipula del contratto, restando comunque privilegiati i contratti stipulati nell’ambito di contratti d’area o patti territoriali.

L’art.15, sostituendo l’art.68 del decreto 276/2003, prevede che i diritti derivanti dai contratti di collaborazione coordinata e continuativa riconducibili ad un progetto, programma o fase di lavoro possono essere oggetto di rinunzie e transazioni in sede di certificazione del rapporto di lavoro.

È stato modificato il limite dei compensi relativi alle prestazioni di lavoro accessorio spostandolo dai precedenti tremila agli attuali cinquemila euro, sempre nell’arco di un anno solare. ( art.16 decreto correttivo che modifica l’art.70 comma 2).

L’art. 17 modifica, sostituendo l’art.72, la disciplina del lavoro accessorio; il valore nominale dei buoni dovrà ora essere determinato con decreto del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, il quale inoltre e sempre con decreto individuerà le aree metropolitane in cui iniziare la sperimentazione.

Per la certificazione dei contratti di lavoro è stato modificato l’art.75; l’art.18 del decreto in esame prevede ora la possibilità di ottenere la certificazione per tutti i contratti di lavoro a differenza di quanto stabilito in precedenza laddove il campo di applicazione dell’istituto della certificazione era limitato alle tipologie contrattuali elencate esplicitamente.

L’art. 19 aggiunge alle abrogazioni previste dall’art.85 d.lgs. n.276/2003 l’art.11 lettera l) della legge n.25/1955. In tal modo l’apprendista non può essere adibito a lavori di manovalanza o di produzione in serie.

È stato stabilito il termine massimo di efficacia per le collaborazioni coordinate e continuative determinate in sede aziendale sulla base di accordi sindacali; l’art. 20 comma 1,  modificando l’art. 86 comma 1, stabilisce ora che le collaborazioni in questione abbiano efficacia non superiore al 24 ottobre 2005.

Sempre l’art. 20  porta novità nel campo dell’edilizia; è prevista infatti, anche nell’eventualità di variazione dell’impresa esecutrice dei lavori, la sospensione di efficacia del titolo abilitativo in assenza della certificazione della regolarità contributiva.

Inoltre viene adesso stabilito che nelle ipotesi di instaurazioni di rapporti di lavoro nel settore edile, il datore di lavoro deve dare comunicazione il giorno antecedente alla data di instaurazione del rapporto. La mancata comunicazione comporta la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art.19 comma 3, ovvero da 100 a500 euro per ogni lavoratore assunto.

Infine l’art.21 prevede che nei giudizi instaurati ai sensi dell’art. 80 del decreto n. 276/2003              (Rimedi esperibili nei confronti della certificazione) i dirigenti, o i funzionari delegati, delle Direzioni provinciali del lavoro hanno il compito di rappresentare e difendere il ministero del Lavoro e delle politiche sociali “ senza nuovi o  maggiori oneri per il bilancio dello Stato”.

Tra le molteplici modifiche introdotte sembrano estremamente rilevanti quelle relative alla disciplina dell’appalto di opere e del distacco da cui deriva una maggiore tutela a vantaggio del lavoratore. Inoltre sembra degna di nota la volontà legislativa finalizzata a preservare il significato ontologico dell’apprendistato: la formazione. Proprio in tale ottica è da interpretarsi l’irrigidimento sanzionatorio previsto dal nuovo articolo 53 comma 3 per l’ipotesi di mancata erogazione di formazione dovuta a colpa del datore di lavoro. Lo stesso discorso vale per il mancato inserimento di cui all’art. 55 comma 5.

Da ultimo sembra il caso di sottolineare il termine di efficacia stabilito per le collaborazioni coordinate e continuative non riconducibili ad un progetto, programma o fase di lavoro, stipulate sulla base di accordi sindacali. La vecchia formulazione dell’art.86 prevedeva la possibilità che i termini di efficacia potessero essere anche superiori ad un anno, adesso invece il termine massimo per la durata delle co.co.co. determinato in sede di accordi sindacali aziendali sarà comunque il 24 ottobre 2005.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners.

La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Ottobre 2004] - Il diritto di recesso nelle S.p.A. (artt. 2437, 2437 bis, 2437 ter, 2437 quater, 2437 quinquies c.c.)

Premessa

In tema di diritto di recesso occorre innanzitutto rilevare il mutato atteggiamento del legislatore, il quale prima della riforma ha visto sempre con diffidenza tale istituto in quanto preoccupato maggiormente a garantire la stabilità e l’interezza del patrimonio sociale.

Per tale motivo il legislatore aveva previsto una disciplina del diritto di recesso comune alle s.p.a. e alle s.r.l. prevedendo tassative e non derogabili ipotesi di recesso individuabili:

-          nel vecchio art.2437 c.c. (cambiamento dell’oggetto e del tipo societario, trasferimento della sede sociale all’estero),

-          nell’art. 2343 (rilevazione di una minusvalenza superiore ad un quinto a seguito della revisione della stima del valore dei beni o crediti conferiti),

-          per le sole società quotate nell’art.131 D.lgs. 24.2.1998 n.58 – TUF – (caso di recesso dei soci dissenzienti da deliberazioni di fusione o scissione che avessero comportato l’assegnazione di azioni non quotate).

Si precisa, altresì, che sulla natura tassativa e non derogabile delle ipotesi di recesso sopra elencate si era formata un giurisprudenza costante (vd. sentenza della Cass. n.5790 del 28.10.1980) .

Con la riforma del diritto societario, invece, il legislatore ha ritenuto di dover riformare l’istituto del diritto di recesso alla luce di una maggiore autonomia statutaria e di conseguenza ha dovuto inevitabilmente aumentare le ipotesi di recesso legale e prevedere in determinati casi, che successivamente verranno  affrontati, la possibilità che lo statuto contempli altre ipotesi di recesso (sul punto sono espliciti gli articoli 3, secondo comma, lett. f,  4, nono comma, lett. d Legge delega n.366/2001).

Oltre che per questo motivo, la diffidenza nei confronti del diritto di recesso è stata superata anche perché a tale diritto è stata riconosciuta una duplice funzione, una economica e una giuridica.

La funzione economica del recesso consiste nell’assicurare al socio che abbia investito un proprio capitale  nell’impresa sociale di disinvestire lo stesso più agevolmente.

Ciò dovrebbe essere un ottimo deterrente per favorire gli investimenti in società di capitali chiuse (s.p.a. non quotate e che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e s.r.l.).

La funzione giuridica consiste nel ritenere il recesso uno strumento di tutela delle minoranze sia del singolo socio all’interno della propria società sia del socio di minoranza all’interno di gruppi di società (sul punto è chiaro l’art. 10, lett.d, Legge delega n.366/2001)

Il recesso, pertanto, garantirà al socio di minoranza uno spazio di dissenso consentendogli di liberarsi dagli abusi della maggioranza (cosiddetto diritto di exit).

Infine, è altresì evidente che con la nuova disciplina del recesso il legislatore ha inteso mediare fra gli interessi individuali del socio  da un lato e le esigenze di integrità del patrimonio sociale dall’altro.

Ipotesi di recesso nelle S.p.A. (art.2437 c.c.)

Le ipotesi di recesso previste  dall’art.2437 c.c. sono classificabili in  3 gruppi:

1.      ipotesi di recesso legale inderogabili;

2.      ipotesi di recesso legale derogabili;

3.      ipotesi di recesso statutarie.

Ipotesi di recesso legale inderogabili

Il comma primo dell’art. 2437 ha innanzitutto fatto chiarezza in merito ai soggetti legittimati ad esercitare il diritto di recesso. Questi sono i “soci che non hanno concorso alle deliberazioni” e non più solo i soci “dissenzienti”. Pertanto sono legittimati anche i soci assenti ed astenuti.

Inoltre il diritto di recesso può essere esercitato dal socio per tutte le sue azioni o per parte di esse.

Tale regola anche se contenuta nel primo comma è generale e pertanto applicabile anche nelle altre ipotesi di recesso ad eccezione del caso di recesso previsto dalla disciplina sui gruppi all’art.2497 quater, primo comma, lett. b. (pronuncia in favore del socio di condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento).

Passando ora ad analizzare quali sono le diverse deliberazioni  assembleari che comportano il diritto di recesso dei soci che non vi abbiano concorso, occorre evidenziare subito che alle lettere a, b, c del primo comma dell’art.2437 sono riprese, con sostanziali modifiche, le precedenti ipotesi di recesso contenute nel vecchio art.2437.

La lettera a, infatti, prevede non più semplicemente il “cambiamento dell’oggetto sociale”, ma “la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società”.

Con tale formulazione il legislatore ha inteso rimediare agli inconvenienti riscontrati nel vigore della precedente norma. Infatti l’espressione “cambiamento dell’oggetto” è stata utilizzata in modo eccessivo fino a ricomprendere mere modificazioni formali dell’oggetto sociale oppure modificazioni sostanziali dell’attività sociale che però non davano origine a modifiche formali dell’atto costitutivo.

In questo modo si spera che sia stato risolto tale problema e pertanto il recesso può essere esercitato solo in presenza di cambiamenti formali dello statuto e sostanziali dell’attività sociale.

Per quanto riguarda l’ipotesi della deliberazione della “trasformazione della società” (prima deliberazione del cambiamento del “tipo” di società), occorre rilevare che la formulazione della norma può sollevare dubbi che oramai si ritenevano superati.

Infatti se è vero che ogni trasformazione  societaria comporta un mutamento del tipo di società non è altrettanto sicuro che un mutamento di tipo possa derivare solo dalla trasformazione. Per cui correttamente si dovrà interpretare che il diritto di recesso si potrà esercitare anche nel caso di dissenso da deliberazioni di fusione e scissione, quando queste comportino la trasmigrazione dei soci della società incorporata in una compagine sociale di tipo diverso da quella di provenienza.

Inalterata, invece, è la disposizione che prevede il diritto di recesso nel caso di trasferimento della sede sociale all’estero.

Inoltre il legislatore ha previsto ulteriori casi di recesso inderogabile.

Infatti il socio è legittimato ad esercitare il diritto di recesso nel caso in cui non ha contribuito a deliberare:

-          la revoca dello stato di liquidazione,

-          le modificazioni statutarie concernenti i diritti di voto o di partecipazione spettante ai soci,

-          le modificazioni dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso,

-          la riduzione delle cause di recesso previste dal comma secondo dell’art.2437 o dallo statuto,

Oltre a questi casi, sono previste ipotesi di recesso inderogabile nel terzo comma dell’art.2437, nell’art. 2437 quinquies c.c. per le società con azioni quotate sui mercati regolamentati e nell’art. 34, ultimo comma, Dlgs 17.1.2003 n.5 in materia societaria, bancaria, e di intermediazione finanziaria.

L’art. 2437, terzo comma, c.c. prevede nel caso di sole società non quotate in un mercato regolamentato e costituite a tempo indeterminato che i soci possano recedere senza necessità che vi sia sta una specifica deliberazione purchè diano un preavviso di almeno 180 giorni; lo statuto può, però, prevedere un termine di preavviso maggiore, comunque non superiore ad un anno.

Tale norma soddisfa una duplice esigenza, ossia da un lato quella del socio a non rimanere per sempre prigioniero della società consentendogli di recedere ad nutum e dall’altro quella della società alla stabilità patrimoniale e finanziaria imponendo al socio di recedere dando un preavviso variabile da un minimo di 180 giorni ad un massimo di un anno, a seconda della previsione statutaria.

Per le società quotate l’art. 2437 quinquies prevede l’esercizio del diritto di recesso in caso di deliberazioni che “comportano l’esclusione dalla quotazione”.

La norma ha recepito nonché esteso la portata del già citato art. 131 del TUF e sembra riferibile anche a società quotate in mercati regolamentati esteri o ai casi di trasferimento della quotazione da un mercato regolamentato all’altro o, infine, in caso di fusione con società quotata in altro mercato.

L’art. 34, ultimo comma, Dlgs n.5/2003 riconosce il diritto di recesso in favore dei soci “assenti e dissenzienti” in caso di modifiche dell’atto costitutivo introduttive o soppressive di clausole compromissorie.

Infine l’art.2437, ultimo comma, sancisce che nelle ipotesi di recesso legale inderogabili “è nullo ogni patto volto ad escluderne o renderne più gravoso l’esercizio del diritto di recesso”.

Ipotesi di recesso legale derogabili e statutarie

Tra le ipotesi di recesso legale derogabili il legislatore ha previsto all’art.2437, secondo comma c.c., quella della deliberazione di proroga del termine di durata della società e quella di deliberazione che introduce o rimuove i vincoli di circolazione dei titoli azionari.

Per quanto riguarda la prima ipotesi non vi è alcun rilievo se non quello che la stessa non opera se la società (non quotata) è a tempo indeterminato in quanto si applica il terzo comma dell’art. 2437 c.c. già esaminato nel paragrafo precedente.

Per quanto riguarda la seconda ipotesi conferma l’ammissibilità di delibere che introducono o eliminano a maggioranza clausole statutarie di gradimento o di prelazione incidenti sulla circolazione dei titoli azionari. Pertanto tale norma va coordinata con l’art. 2355 bis, secondo e terzo comma.

Il comma secondo dell’art. 2355 bis consente che nello statuto delle società azionarie vengano inserite clausole di mero gradimento solo se sia previsto il diritto del socio alienante di vendere le proprie azioni alla società o agli altri soci o di recedere. Si tratta di un’ipotesi di recesso legale derogabile, ma l’efficacia di tale clausola dipende dal fatto che il recesso (o  il diritto di vendita) sia previsto dallo statuto.

Analogamente il terzo comma prevede in caso di clausole che sottopongono a determinate condizioni il trasferimento mortis causa delle azioni che dette clausole siano efficaci solo se lo statuto prevede il diritto di vendita o di recesso in favore degli eredi del socio defunto.

Qualora si tratti di clausola di gradimento il diritto di alienazione o di recesso è destinato a venire meno in presenza della manifestazione del gradimento all’ingresso degli eredi nella società.

Infine la novità di maggior rilievo è quella contenuta nel quarto comma dell’art.2437 il quale sancisce che “lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso”.

Si tratta quindi delle cosiddette ipotesi di recesso statutarie consentite solo alle società non quotate (società chiuse) in quanto nelle società quotate (società aperte) l’interesse del socio al disinvestimento è sufficientemente tutelato dal fatto stesso dell’esistenza di un mercato regolamentato che gli consente di cedere le proprie azioni.

Termini e modalità di esercizio (art. 2437 bis c.c.)

L’art. 2437 bis c.c. disciplina i termini e le modalità di esercizio del diritto di recesso prevedendo che il socio che non abbia concorso alla deliberazione può esercitare il diritto di recesso mediante lettera raccomandata da spedire entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera stessa che lo legittima indicando le sue generalità, il domicilio per le comunicazioni inerenti al procedimento, il numero e la categoria delle azioni per le quali il diritto di recesso viene esercitato.

Se il fatto che legittima il recesso è diverso da una deliberazione tale diritto è esercitato con le modalità anzidette entro 30 giorni dalla conoscenza del fatto medesimo da parte del socio. Si pone in quest’ultimo caso un problema di provare il momento esatto in cui il socio viene a conoscenza del fatto che lo legittima a recedere.

La conseguenza immediatamente collegata all’esercizio del diritto di recesso è quella del congelamento delle azioni del socio recedente, il quale non può cedere dette azioni, ma deve depositarle presso la sede sociale (secondo comma, art. 2437 bis).

Da tale congelamento delle azioni, sorgono comunque delle problematiche relative soprattutto alla possibilità da parte del socio recedente di esercitare i suoi diritti corporativi (es. partecipazione all’assemblea e diritto di voto, impugnazione di delibere assembleari o consiliari, esercizio dell’azione di responsabilità) nel periodo compreso tra la sua dichiarazione di recesso e il termine di effettiva liquidazione delle somme allo stesso spettanti.

Ai primi commentatori appare difficile poter negare al recedente l’esercizio di tali diritti dato che il suo status di socio non è ancora definitivamente venuto meno e ciò potrebbe anche non verificarsi dato che, come previsto nell’ultimo comma dell’art.2437 bis, il recesso potrebbe perdere la sua efficacia se la società, entro 90 giorni, revoca la delibera che ha dato impulso a tale azione o delibera lo scioglimento della società stessa o se i creditori sociali propongono opposizione.

Piuttosto che negare tali diritti al socio che manifesta la volontà di recedere, occorrerà valutare di volta in volta l’eventuale posizione di conflitto di interessi in cui lo stesso potrebbe venirsi a trovare nel caso in cui partecipi a deliberazioni successive rispetto a quella che ha motivato la sua dichiarazione di recesso.

Criteri di determinazione del valore delle azioni e procedimento di liquidazione (artt. 2437 ter, 2437 quater c.c.)

Prima di analizzare i singoli criteri di determinazione del valore delle azioni è importante evidenziare che il legislatore ha opportunamente sostituito il riferimento al bilancio dell’ultimo esercizio come parametro per tale determinazione al fine di evitare liquidazioni penalizzanti per il socio recedente, rischio, peraltro, molto consistente nella prassi.

Per le società per azioni non quotate il legislatore ha previsto che “il valore delle azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione contabile, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni” (art.2437 ter, secondo comma, c.c.).

Per quanto riguarda, invece, le società quotate “il valore di liquidazione delle azioni quotate su mercati regolamentati è determinato facendo espresso riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione ovvero la ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso” (art. 2437 ter, terzo comma, c.c.).

Una questione da chiarire per le s.p.a., soprattutto per le non quotate, è quella di stabilire il momento di riferimento della valutazione delle azioni del socio recedente ovvero il termine entro cui il socio deve essere informato del valore delle azioni onde poter valutare consapevolmente la convenienza o meno a recedere.

La questione riguarda soprattutto i casi di recesso non legittimati da una deliberazione bensì da un fatto.

Infatti nel caso in cui il recesso dipenda da una deliberazione il momento di riferimento per la determinazione del valore delle azioni è stato individuato dal legislatore nel quindicesimo giorno anteriore alla data fissata per l’assemblea in cui verrà votata la deliberazione legittimante il recesso (art. 2437 ter, quinto comma c.c).

Per quanto riguarda invece i casi di recesso diversi da una deliberazione il legislatore non ha previsto un analogo riferimento normativo.

In presenza, quindi, di tale lacuna normativa, i primi commentatori, facendo leva sulla disposizione del comma IV dell’art.2437 ter che prevede la derogabilità per mezzo dello statuto dei criteri legali di determinazione del valore delle azioni, hanno ipotizzato che sarebbe opportuno che lo statuto contenga disposizioni idonee ad ovviare a tale problema.

Più  concretamente hanno sostenuto che lo statuto potrebbe prevedere, al manifestarsi di un fatto diverso da una deliberazione che legittima il recesso, che il socio possa richiedere agli amministratori, entro 15 giorni dal momento in cui ne viene a conoscenza, la determinazione del valore delle azioni.

In alternativa, lo statuto potrebbe prevedere un obbligo degli amministratori a determinare il valore delle azioni al verificarsi di un fatto che legittima il recesso nonché ad informare i soci in modo che venga determinato con certezza il momento da cui decorrono i 30 giorni per l’esercizio del diritto di recesso e della contestuale contestazione di cui all’art. 2437 ter, sesto comma c.c.

Oltre a tali problemi, ad avviso dello scrivente, occorre evidenziare che per quanto riguarda le società per azioni non quotate la determinazione del valore delle azioni e la sua contestazione, se non verranno disciplinate statutariamente con modalità e termini diversi da quelli previsti dal legislatore, obbligheranno gli amministratori a redigere e ed a far conoscere ai soci, entro 15 giorni prima dell’assemblea fissata, una situazione patrimoniale ad hoc ogni qual volta una deliberazione possa dar luogo, anche solo potenzialmente, ad un motivo di recesso.

È evidente che il sistema così strutturato potrà dare origine a numerosi problemi di carattere pratico in quanto renderà più oneroso e complicato il lavoro degli amministratori delle società per azioni non quotate prima di ogni assemblea.

Si è già anticipato che i criteri legali di determinazione del valore delle azioni, sono derogabili statutariamente.

In tale ipotesi il legislatore ha reintrodotto come parametro il bilancio, il quale presumibilmente dovrà servire a indicare solo gli elementi patrimoniali di esso suscettibili di rettifica ai fini della liquidazione della quota nonché altri elementi utili per tale valutazione.

Se ne deduce che nei casi di criteri statutari occorrerà specificare i limiti su cui si baserà la liquidazione e probabilmente tali criteri tenderanno ad esser più rigidi di quelli previsti dal legislatore.

Inoltre, dopo aver già anticipato che il socio recedente può contestare la determinazione del valore fatta dagli amministratori, si precisa per completezza che tale contestazione può essere proposta, contestualmente alla dichiarazione di recesso, con un’azione stragiudiziale ex art.1349 c.c.

Il valore di liquidazione, pertanto, verrà determinato entro 90 giorni dall’esercizio del diritto di recesso tramite relazione giurata di un esperto nominato, su istanza della parte più diligente, dal Tribunale.

Nel caso di mancata determinazione del valore di liquidazione o di determinazione errata o iniqua da parte dell’esperto, si potrà procedere con la contestazione giudiziale vera e propria.

Il legislatore, infine, ha previsto all’art. 2437 quater, il procedimento di liquidazione della quota.

Innanzitutto gli amministratori offrono in opzione agli altri soci e, se vi sono obbligazioni convertibili, ai possessori di queste in concorso con i soci, le azioni del socio recedente in proporzione al numero delle azioni possedute e sulla base del rapporto di cambio.

L’offerta in opzione è depositata presso il registro delle imprese entro 15 giorni dalla determinazione definitiva del valore di liquidazione e nel termine non inferiore di 30 giorni dal deposito di tale offerta deve essere esercitato il diritto di opzione. Inoltre chi esercita il diritto di opzione e fa contestuale richiesta ha diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni rimaste non optate.

Le azioni o parti di azioni del recedente non acquistate dai soci possono essere collocate dagli amministratori presso terzi acquirenti.

In caso di mancato acquisto delle azioni o da parte dei soci o di terzi, la società stessa provvede al rimborso in favore del socio recedente provvedendo essa stessa all’acquisto di dette azioni utilizzando le riserve disponibili.

In assenza di utili e di riserve disponibili, deve essere convocata l’assemblea straordinaria per deliberare o la riduzione del capitale sociale, riduzione a cui i creditori sociali possono opporsi entro 3 mesi dall’iscrizione della delibera nel registro delle imprese (terzo comma art. 2445 c.c.), o lo scioglimento della società.

Nel caso in cui l’opposizione venga accolta la società si scioglie (ultimo comma art.2437 quater c.c.), mentre se il tribunale non ritiene fondato il pericolo di pregiudizio per i creditori o la società ha prestato idonea garanzia, dispone che la riduzione abbia luogo nonostante l’opposizione (quarto comma art.2445 c.c.).

Pur se la norma nulla dice al riguardo si dovrà ritenere inoperante il recesso nei casi di mancato collocamento delle azioni ed eventuale scioglimento della società.

Lo studio resta a disposizione per qualsiasi chiarimento e approfondimento sulle tematiche affrontate nella presente circolare.

Studio Legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners

LombardConsulting

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Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners e dello studio LombardConsulting. La circolare è destinata unicamente ai clienti degli studi e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[Ottobre 2004] - Della direzione e coordinamento di società (artt. 2497 - 2497 septies c.c.)

Con l’introduzione degli articoli relativi alla disciplina dei gruppi societari il legislatore ha finalmente preso atto di una pratica ampiamente diffusa nel panorama delle imprese moderne al fine di assicurare una maggiore tutela ai soci di minoranza o comunque non coinvolti direttamente nella gestione della società nonché dei creditori sociali che, a seguito di attività esercitate in conflitto di interesse, possano assistere al venir meno dell’integrità del patrimonio della società debitrice

1. Definizione di gruppo

Il legislatore si è tenuto a distanza dal dare una definizione di gruppo (per il motivo che, come ha precisato la relazione di accompagnamento al d.lgs 6/2003, è chiaro da un lato che le innumerevoli definizioni di gruppo esistenti nella normativa di ogni livello sono funzionali a problemi specifici ed è altrettanto chiaro che qualunque nuova nozione si sarebbe dimostrata inadeguata all’incessante evoluzione della realtà sociale, economica e giuridica)  preferendo concentrare la propria attenzione sui soggetti che esercitano l’attività di direzione e coordinamento.

Si è preferito, quindi, dare priorità al fatto dell’esercizio di una attività di controllo indipendentemente dal titolo e dagli strumenti giuridici utilizzati con l’unica presunzione di direzione e coordinamento (presunzione comunque semplice e quindi soggetta alla possibilità di prova contraria) nei casi di:

-  società o enti tenuti al consolidamento dei loro bilanci;

-  società legate da vincolo di controllo ai sensi dell’art. 2359 e quindi:

-  società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

- società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti ad esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

-  società che sono sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Al di la delle ipotesi sopra menzionate l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento esula dalla nozione di controllo in senso tecnico ma aprono lo spiraglio a fattispecie diverse ove la partecipazione nella società soggetta potrebbe essere minoritaria, indiretta o, addirittura, inesistente.

All’interno degli articoli che disciplinano la direzione ed il coordinamento di società, pertanto, qualora si voglia utilizzare il termine gruppo, si dovrà essere consapevoli dell’assoluta labilità dei confini che tale riferimento di comodo ha.

2.        Ambito di operatività.

L’art. 2497 cod. civ., così come propostoci dal legislatore, risulta assolutamente indeterminato (non è chiaro se volutamente o meno) e solo in futuro prassi e dottrina potranno in qualche modo circoscrivere l’ambito di applicazione di tale norma e dare risposte allo stato non desumibili dalla lettera.

Tale vaghezza, infatti, pervade l’intera norma tanto che, al fine, ne rischia di essere invalidata l’effettiva possibilità di utilizzo, o, al contrario, di poter essere causa di frattura tra i soci che con qualsiasi pretesto possono appellarsi ad essa bloccando o comunque disturbando l’attività sociale.

2.1 Soggetti coinvolti

Nell’individuare i soggetti che esercitano l’attività di direzione e coordinamento, il legislatore, nella versione definitiva del testo, ha scelto di riferirsi solo a società ed enti.

E’ a loro che potrà essere imputata la responsabilità per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale.

E però vero che  il coinvolgimento di persone fisiche, ed in particolare viene da pensare agli effettivi beneficiari economici di società comunque sotto la loro influenza dominante, è comunque garantito dal secondo comma dell’art. 2497 che sancisce la responsabilità solidale di chiunque (e quindi anche di soggetti diversi da società o enti) abbia preso parte al fatto lesivo ossia abbia causato, permesso deciso azioni in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale.

2.2 Definizione di direzione e coordinamento

Poste le ragioni dell’assenza di una definizione di gruppo sopra descritte, è altresì vero che non è definito neanche cosa si intenda per direzione né per coordinamento lasciando aperta la porta ad ogni possibile ipotesi.

Ancorché siano stati previsti i meccanismi presuntivi di cui si è accennato sopra non è possibile determinare l’equazione controllo = direzione e coordinamento.

Il controllo formale, infatti è solo uno degli elementi (e come detto in precedenza, neanche necessario) che possono portare a rivelare la presenza di una situazione di direzione e coordinamento ma nulla più di questo Il legislatore ha espressamente previsto che direzione e coordinamento e influenza dominante non siano sinonimi: ma quindi cosa è direzione e cosa è coordinamento?

Senza imbarcarsi in lunghe dissertazioni in merito, per direzione si intende, tradizionalmente, il vertice delle funzioni organizzative di una azienda; parrebbe, quindi, di poter essere in presenza di un’attività di direzione in presenza di una serie rilevante di atti decisionali sistematici ed imposti da soggetti diversi rispetto all’organigramma interno.

Rimane peraltro il dubbio nel caso in cui la direzione possa scomporsi nelle sue più classiche forme: generale, amministrativa, finanziaria, … se sia sufficiente una sola di queste forme a definire la direzione ai sensi della norma in oggetto o deve intendersi un qualche cosa di più generico (e quindi anche più indefinibile)

Il coordinamento in sé pone minori problemi di definizione.

Esso può riferirsi a chi esercita direttamente l’attività di direzione o anche a chi la svolga nell’interesse altrui (la norma lo prevede).

Si porranno, però, problemi sull’effettivo esercizio e sulla sua dimostrabilità in caso di inesistenza di impegni formali di previsione o esclusione.

Anche in questo caso a prassi e giurisprudenza toccherà fare la propria parte.

2.3 Principi di corretta gestione

La norma in questione, infine, è stata inserita nell’ordinamento al fine di tutelare i soci non direttamente coinvolti nella gestione della società da fatti che violino i corretti principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale.

Tale condizione, infatti, è essenziale per l’ammissibilità dell’azione ma, come già lamentato per altri versi, il legislatore non ha dato una impronta chiara in merito lasciando nell’indeterminatezza il concetto.

Anche in questo caso prassi e giurisprudenza dovranno segnare le linee guida interpretative con il rischio di vedere piegare la norma su interessi particolari a seconda degli attori e senza alcuna certezza precostituita.

3.      Pubblicità

L’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, per quanto poco definibile essa sia, è soggetta a obblighi di pubblicità e trasparenza.

In particolare tali obblighi, a carico dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento, sono:

-          Obbligo di indicazione negli atti e nella corrispondenza della società del soggetto che esercita l’attività di direzione e coordinamento;

-          Iscrizione, a carico degli amministratori della società soggetta a direzione e coordinamento, della società o ente che la esercita presso un apposita sezione del registro delle imprese (ma non è previsto un termine entro cui tale adempimento debba avere luogo né le eventuali sanzioni relative all’inadempimento);

-          I dati essenziali del bilancio della società o ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento (ma anche qui manca una precisa indicazione in merito all’essenzialità) devono essere riportati nella nota integrativa della società che ne è soggetta.

Nella relazione sulla gestione, inoltre, gli amministratori devono indicare i rapporti intercorsi con chi esercita l’attività di direzione e coordinamento e con le altre società soggette nonché l’effetto dell’impresa ed i suoi risultati (sulla cui difficoltà di applicazione pratica, soprattutto in realtà di non grande dimensione, lasciamo intendere). La relazione sulla gestione, inoltre, dovrà riportare le ragioni e gli interessi e le motivazioni, analiticamente dettagliate, che hanno portato a decisioni della società soggetta ad attività di direzione e coordinamento quando influenzate dal soggetto che la esercita.

4.        Effetti

La pubblicità prescritta costituisce un primo baluardo a tutela degli interessi dei soci di minoranza e, in generale, di tutti quei soggetti non direttamente coinvolti nell’amministrazione della società.

Il mancato esercizio delle forme di pubblicità non impedisce comunque agli interessati il diritto all’azione di responsabilità così come disciplinata dall’art. 2497 cod. civ.

La norma, infatti, prevede la responsabilità della società o dell’ente che esercita attività di direzione e coordinamento  nei confronti:

-          dei soci per il pregiudizio arrecato alla redditività alla redditività ed al valore della partecipazione;

-          dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio sociale.

L’azione risarcitoria nei confronti di chi esercita l’attività di direzione e coordinamento, peraltro, incontra un limite nel terzo comma dell’art 2497 cod. civ. che prescrive come questa possa essere esperita solamente se socio o creditore non siano stati soddisfatti dalla società soggetta all’attività stessa.

In pratica si dovrà attendere una sentenza passata in giudicato prima di poter partire all’attacco del vero responsabile del depauperamento sociale e, con i tempi della giustizia a cui ormai siamo abituati, il rischio è quello di non poter vedere soddisfatta la propria richiesta se non dopo lungo tempo.

Il socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento ha, in taluni casi, possibilità di recedere dalla società vedendo in tal modo liquidata la propria partecipazione.

In particolare l’art. 2497 quater attribuisce tale possibilità:

- quando la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento ha deliberato (modificando così facendo il livello di rischio dell’investimento):

·    una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale (si tratta, in pratica, delle cosiddette trasformazioni eterogenee di cui agli artt. 2500 septies e octies cod. civ.);

·    una modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta a direzione e coordinamento (anche se in questo caso sorgeranno notevoli problemi interpretativi  e potrebbe essere difficile la possibilità di prova in merito all’alterazione delle condizioni economiche e patrimoniali in assenza di un esplicito riferimento normativo)

-          quando a favore del socio (intendendosi solo un determinato socio e non genericamente uno tra i soci di minoranza) sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 (la norma, in tale caso, prevede che il diritto di recesso debba essere esercitato per l’intera partecipazione escludendo, pertanto, un esercizio parziale);

-          all’inizio ed alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento quando ne deriva un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento (salvo che non si tratti di società quotate o quando sia promossa un’o.p.a. )

5.        Finanziamenti nell’attività di direzione e coordinamento

La riforma del diritto societario ha posto una particolare attenzione alle operazioni di finanziamento infra-gruppo.

In tema di finanziamento delle srl il legislatore ha inserito, all’art. 2467 cod. civ., un’apposita norma che viene richiamata in toto all’interno del capo IX in tema di direzione e coordinamento delle società.

In sostanza viene previsto che i rimborsi dei finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essa sottoposti siano postergati rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuti nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, dovranno essere restituiti.

6.        Considerazioni conclusive

L’impianto normativo in tema di direzione e coordinamento ha il merito di introdurre nella nostra legislazione degli strumenti di tutela, organicamente raccolti nel capo IX, per chi, soci di minoranza e creditori, ha stretti rapporti con la società ma non può influire direttamente sulla sua gestione.

La disciplina dettata in materia, peraltro, non esaurisce le fattispecie e le problematiche che nella pratica possono verificarsi e, per la costante vaghezza nei termini, esiste il rischio che l’auspicata tutela degli interessi esterni possa trovare numerosi ostacoli sulla propria strada.

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[Settembre 2004] - Amministrazione nelle S.r.l. (artt. 2475, 2475 bis, 2475 ter, 2476 c.c.)

Con la riforma del diritto societario il legislatore ha modificato sostanzialmente la disciplina della società a responsabilità limitata, disciplina che è del tutto autonoma da quella delle società per azioni.

In particolare il modello organizzativo previsto dal legislatore per la società a responsabilità limitata riserva ampio spazio all’autonomia dei soci, i quali, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, nominano tra di essi uno o più amministratori (art.2475, I comma,  c.c.).

Nel caso in cui l’amministrazione venga affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione. Tuttavia l’atto costitutivo può prevedere, come per le società in nome collettivo, che l’amministrazione venga affidata disgiuntamente a ciascun socio o congiuntamente a più soci. In tal caso il legislatore rinvia espressamente  all’art.2257 c.c. (diritto di opposizione del socio amministratore alle operazione che gli altri amministratori intendono compiere) e all’art.2258 c.c. (i soci amministratori a cui spetta l’amministrazione congiunta devono deliberare il compimento delle operazioni della società all’unanimità o, se diversamente convenuto, a maggioranza.).

Una novità assoluta rispetto alla vecchia normativa è rappresentata dalla deroga al principio della collegialità per l’adozione delle decisioni relative alla gestione societaria. Infatti è statuito che, in caso di costituzione del consiglio di amministrazione e se l’atto costitutivo lo prevede, possono essere adottate delle decisioni relative alla gestione dell’impresa “mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto”. Occorre, comunque, in tal caso che dai documenti sottoscritti dagli amministratori risultino con chiarezza l’argomento oggetto della decisione e il consenso alla stessa (art.2475, IV comma c.c.).

Tale deroga al principio della collegialità, ad avviso dei primi interpreti, non potrebbe estendersi a tutte le decisioni relative alla gestione dell’impresa e in particolare le decisioni in tema di redazione del progetto di bilancio, di progetti di fusione e scissione e di aumento di capitale, che in ogni caso sono di competenza del consiglio di amministrazione (art.2475, V comma c.c.), non potrebbero essere assunte con il metodo della consultazione scritta e del consenso espresso per iscritto.

Un’altra novità si trova anche nella norma in tema di rappresentanza della società, in cui, a differenza delle s.p.a. (art.2384 c.c.), non è previsto che il potere di rappresentanza debba essere attribuito agli amministratori espressamente dallo statuto o dalla deliberazione di nomina, ma il potere di rappresentanza spetta agli amministratori per il solo fatto di ricoprire tale funzione (art.2475 bis, I comma c.c.).

Chiarito ciò, occorre altresì precisare che si tratta, come per le s.p.a., sempre di un potere di carattere generale, i cui limiti devono risultare dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina e anche se pubblicati non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano agito a danno della società (art.2475 bis, II comma c.c.).

Completamente nuova è anche la disciplina in tema di conflitto di interessi degli amministratori, per i quali, a differenza della disciplina delle s.p.a., non è previsto l’obbligo di informare gli altri amministratori e il collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, gli stessi abbiano in una determinata operazione societaria.

Ad ogni buon conto, i primi interpreti non escludono che tale obbligo possa essere previsto statutariamente al fine di garantire una gestione più trasparente della società.

Analizzando la norma in tema di conflitto di interessi non si può inoltre non evidenziare che il legislatore ha ritenuto opportuno disciplinare distintamente l’incidenza del conflitto di interessi sui contratti conclusi dagli amministratori e sulle decisioni adottate dal consiglio di amministrazione.

Per quanto riguarda i contratti possono essere annullati su domanda della società se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo (art.2475 ter, I comma c.c.).

Per quanto riguarda le decisioni, invece, qualora cagionino un danno patrimoniale (anche potenziale) alla società, possono essere impugnate entro tre mesi dagli amministratori e, se esistente, dal collegio sindacale o da un revisore (art.2475 ter, II comma c.c.).

Infine occorre esaminare la nuova disciplina in tema di responsabilità degli amministratori e controllo da parte dei soci, in cui chiaramente si manifesta il principio dell’autonomia dei soci.

Infatti il legislatore, oltre ad avere riconosciuto ai soci che non partecipano all’amministrazione il diritto di avere dagli amministratori notizie circa lo svolgimento degli affari sociali e di consultare anche tramite professionisti di loro fiducia i libri e i documenti sociali, ha attribuito a ciascun socio sia il potere di promuovere l’azione di responsabilità sociale nei confronti degli amministratori che nell’ambito della gestione di impresa abbiano agito in violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge o dall’atto costitutivo cagionando danni alla società stessa sia la facoltà di chiedere, in caso di gravi irregolarità gestionali, un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi (art.2476 comma I, II, III c.c.).

I soci in questo caso agiscono come sostituti processuali della società stessa, in quanto con tale azione fanno valere in nome proprio un diritto altrui. A conferma di ciò è sufficiente rilevare che il legislatore ha espressamente previsto che in caso di accoglimento della domanda giudiziale proposta dai soci, a questi ultimi spetterà soltanto il rimborso delle spese di giudizio e quelle sostenute per l’accertamento dei fatti, mentre il risarcimento dei danni spetterà alla società stessa. Inoltre sempre alla società, e se l’atto costitutivo non prevede diversamente, il legislatore ha attribuito il diritto di rinunciare e transigere l’azione di responsabilità proposta dai soci contro gli amministratori, purchè vi sia il consenso di una maggioranza di soci che rappresenti almeno i due terzi del capitale sociale e non si oppongano tanti soci che rappresentino almeno il decimo del capitale sociale (art.2476 comma IV, V c.c.).

Si precisa, altresì, che tale azione giudiziale è finalizzata all’accertamento di una responsabilità degli amministratori di natura contrattuale e solidale. Tuttavia la responsabilità non si estende automaticamente agli amministratori che dimostrino di essere esenti da colpa e che, a conoscenza del compimento di un atto dannoso, abbiano fatto constare il proprio dissenso (art. 2476 comma I c.c.).

Tale tipo di responsabilità si estende oltre che agli amministratori anche ai soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi (art.2476 comma VII c.c.).

Infine l’azione sociale promossa dai soci non pregiudica il diritto al risarcimento dei danni spettante al singolo socio o al terzo, i quali sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori (art.2476 comma VI c.c.).

In questo caso i singoli soci o i terzi hanno diritto di promuovere un’azione individuale a tutela dei propri diritti e finalizzata all’accertamento di una responsabilità extracontrattuale degli amministratori.

Lo studio resta a disposizione per qualsiasi chiarimento e approfondimento sulle tematiche affrontate nella presente circolare.

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