[Aprile 2008] - Il software e il requisito di “originalità”

L’individuazione dello strumento giuridico da utilizzare per la tutela del software è stata negli ultimi anni una problematica che ha generato contrasti e divisioni sia tra gli addetti ai lavori che nell’ambito della dottrina e giurisprudenza.

Infatti, da tempo era stato aperto un acceso dibattito tra i sostenitori del brevetto quale strumento di salvaguardia dei programmi per elaboratore ed i sostenitori dell’attuale sistema di tutela basato sul diritto d’autore.

Negli ultimi anni si è, tuttavia, consolidato l’orientamento che ritiene il diritto d’autore quale unico strumento legale adeguato alla tutela dei diritti dei programmi per elaboratore e, ciò, ha trovato come ultima e ulteriore conferma la mancata approvazione del progetto di direttiva europea sulla brevettabilità del software nel luglio’05.

In Italia, l’art. 2 della Legge sul Diritto d’Autore (Legge 633/1941) sancisce la tutela dei programmi per elaboratore espressi in qualsiasi forma, unitamente al materiale preparatorio per la progettazione degli stessi, purchè originali e creativi.

Questa tipologia di protezione giuridica presuppone l’automatica tutela alla nascita dell’opera e tale caratteristica la rende più accessibile. Inoltre il diritto d’autore consente una tutela anche nei confronti di opere di carattere “funzionale”, ma limitate sotto il profilo della originalità.

Pertanto, l’orientamento ormai consolidato è più rivolto a proteggere opere in cui prevale l’aspetto pratico ed applicativo, rispetto ad opere innovative e di alto livello di qualificazione degli elementi creativi.

Proprio a tal riguardo nel 2007 la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito al principio di “originalità” del software, rafforzando il carattere meno rigoroso attribuito al diritto d’autore rispetto alla tutela brevettuale.

Infatti la Corte Suprema ha osservato che se da un lato i software devono essere “il frutto di una elaborazione creativa originale rispetto ad opere precedenti”, nondimeno “la creatività e l’originalità sussistono anche qualora l’opera sia composta da idee e nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia propria dell’opera stessa, purchè formulate e organizzate in modo personale e autonomo rispetto alle precedenti” (Cass. Civ. Sez. I n. 581 del 12/01/07).

Questa pronuncia ha quindi esteso il concetto di originalità non solo a casi in cui l’innovazione apportata sia una evoluzione significativa rispetto allo stato dell’arte, ma anche nei casi in cui “l’opera sia composta da idee e nozioni semplici ma formulate ed organizzate in modo personale ed autonomo rispetto alle precedenti”.

In forza del ricordato principio la Suprema Corte ha ritenenuto sufficiente l’adattamento “dell’architettura applicativa al caso e all’ambiente tecnologico specifico”, per considerare il software innovativo e quindi originale e come tale tutelabile.

La forte esigenza di proteggere i singoli programmi per elaboratore senza arrestare il processo di innovazione tecnologico/scientifico è sempre stata il fattore cardine, nonché l’impulso che ha mosso l’Unione Europea e l’Italia verso una tutela giuridica non brevettuale. Questo ha consentito la libera diffusione di idee, principi e algoritmi alla base dei software.

Quanto però affermato dalla Corte Suprema, oltre a confermare questo orientamento ne amplia i confini. In questo modo due programmi per elaboratore con identica architettura applicativa e caratteristiche funzionali, che si differenziano solo per alcuni profili di adattamento, possono essere considerati due software originali e non l’uno l’opera derivata dell’altro.

Per comprendere le motivazioni di tale orientamento giurisprudenziale significative sono le osservazioni fatte dalla Corte di Appello di Milano (25 febbraio 2003), successivamente richiamate dalla Corte di Cassazione. Infatti la Corte d’Appello milanese ha osservato come “tutti i prodotti software che risolvono la stessa esigenza applicativa presentano una architettura di base che è comune alla maggior parte dei sistemi di controllo dei processi industriali, tuttavia ciò non impedisce di individuare la specificità di un singolo prodotto, in quanto l’innovazione risiede nella capacità di adattare l’architettura applicativa al caso e all’ambiente tecnologico specifico”.

Alla luce di quanto sopra illustrato, è rilevante comprendere come può compiersi una valutazione comparativa tra due programmi per elaboratori onde poter individuare eventuali violazioni del diritto d’autore.

A tal fine occorre distinguere ciò che nel software rappresenta la forma espressiva da ciò che riguarda i contenuti.

La prima trova la tutela giuridica in quanto è l’elemento al quale si richiede “originalità”, mentre i contenuti sono composti da quelle idee e principi che la Corte Suprema ha individuato come non tutelabili.

Pertanto, non sembrano poter essere considerati elementi a favore della originalità del programma elementi estrinseci come la veste grafica o l’interfaccia utente. Infatti sempre più spesso si possono riscontrare sul mercato software con caratteristiche, funzioni e formati simili o addirittura identici.

Occorre quindi valutare l’originalità dei programmi per elaboratori facendo una analisi dei fattori intrinseci che li compongono, mediante l’analisi del “codice sorgente”, rappresentato da quell’insieme di istruzioni appartenenti ad un determinato linguaggio di programmazione, utilizzato per realizzare un programma per computer.

E’ proprio dall’analisi del “codice sorgente” che si potrà valutare l’opera dell’autore nel trovare soluzioni originali che personalizzino una architettura di base comune.

Pur considerando l’estensione concessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza al concetto di originalità in tema di software, non ci si può esimere dall’evidenziare il rischio insito in una dilatazione così accentuata di tale concetto, senza adeguatamente valorizzare l’ulteriore e rilevante requisito della “creatività” come elemento necessario per la tutela del software, secondo i principi del diritto d’autore.

Si può quindi configurare il rischio di ampliare la tutela giuridica a programmi per elaboratore non originali, ma derivati da altri software e diversificati da questi ultimi solo per lievi e ininfluenti modifiche. Ciò finirebbe per rivelarsi eccessivamente pregiudizievole per i diritti dell’opera originale. Il rischio è infatti quello di disincentivare nel medio-lungo termine i produttori di software e le aziende ad investire denaro e ricerca per la creazione di programmi per elaboratori innovativi. L’effetto finale sarebbe quello di inaridire un settore che fino ad oggi ha dimostrato una forte propensione alla creatività ed all’innovazione. (Pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 14/04/08)

*Marco Emanuele Galanti

*Andrea E. Cavalloni

*Studio Legale Galanti – Meriggi & Partners, Milano

[Febbario 2008] - Prescrizione congelata sulla colpa medica

Alcune recenti pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno contribuito a dirimere alcune problematiche interpretative in relazione al tema del diritto al risarcimento del danno ai pazienti, derivante da patologie di non immediata percezione e caratterizzate, quindi, da periodi, più o meno lunghi, di “latenza” (Cass. Sez. Unite: sentenza n. 581/2008 e 583/2008).

I principi enunciati dalla Corte Suprema, in tema di danni ai pazienti cagionati da trasfusioni, possono essere applicati anche a diverse fattispecie, sempre in tema di responsabilità medica, nelle quali il danno si sia manifestato esteriormente dopo un periodo consistente rispetto all’effettiva insorgenza della patologia.

Più specificamente, nelle recenti sentenze assumono particolare rilievo le conclusioni raggiunte in relazione alla decorrenza del termine di prescrizione del risarcimento del danno, con particolare riferimento alle patologie da contagio.

Chi ha contratto malattie, quali il virus dell’HIV o dell’epatite, nell’ambito di strutture sanitarie, infatti, può assumere la consapevolezza del contagio anche a distanza di anni dall’evento che lo ha determinato.

Come noto, nel nostro ordinamento si prevede che la prescrizione decennale del diritto risarcitorio in materia contrattuale inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto stesso può essere fatto valere (art. 2935 cod. civ.).

Se il termine di decorrenza della prescrizione, genericamente individuato dalla norma appena richiamata, dovesse coincidere con il giorno in cui il danneggiato è stato effettivamente contagiato mediante la somministrazione di emoderivati o di sangue infetto, i suoi diritti risarcitori potrebbero essere spesso travolti dalla prescrizione.

Al fine di evitare ingiuste compressioni dei diritti risarcitori dei pazienti, la Corte Suprema, già in passato, aveva chiarito che il momento di inizio della decorrenza della prescrizione (giorno in cui il diritto stesso può essere fatto valere) doveva coincidere con il momento in cui il danno si manifesta all’esterno, e cioè quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica (Cass. n. 12666/2003; Cass. n. 9927/2000).

La stessa Corte, con successive ed ulteriori sentenze, aveva meglio chiarito la portata di tale principio, sottolineando che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi ritenga di avere contratto per contagio una malattia in seguito al fatto doloso o colposo dei medici o della struttura sanitaria, inizia a decorrere dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (in tal senso: Cass. 21/02/2003, n. 2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).

Con le recenti sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 581/2008 e n. 583/2008), dopo essere stata ribadita l’irrilevanza, ai fini della decorrenza della prescrizione, sia del momento in cui il medico, o la struttura sanitaria, pongono in essere la loro condotta illecita sia del momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, viene per contro, e correttamente, valorizzata l’acquisizione della consapevolezza da parte del paziente di aver subito un danno e che lo stesso sia riconducibile alla condotta del medico e/o della struttura sanitaria.

Sino a quando la causa del danno non sia individuata, o individuabile, la prescrizione non può iniziare a decorrere.

L’individuazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione presuppone, quindi, una rigorosa analisi delle informazioni, alle quali il paziente abbia avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuto diligentemente attivare, e della loro idoneità a consentire allo stesso soggetto danneggiato una conoscenza completa dei dati necessari per poter richiedere giudizialmente il risarcimento del danno.

La Corte Suprema ha, inoltre, ricordato che il giudice deve anche valutare se, al momento in cui si è realizzato l’evento dannoso, i medici interessati fossero effettivamente a conoscenza di una serie di elementi ed informazioni idonei ad evitare la causazione del danno, con i conseguenti riflessi sulla valutazione della loro condotta, potendo gli stessi essere ritenuti colpevoli di non avere fornito adeguate informazioni al paziente e di non avere adottato le dovute precauzioni.

Sempre in tema di individuazione del momento in cui inizia a decorrere la prescrizione, le Sezioni Unite hanno, inoltre, sottolineato la necessità di tenere in considerazione altri due fattori di rilievo.

In primo luogo, è stata affermata la necessità di valutare il livello di diligenza adottato dal soggetto danneggiato nel richiedere, una volta emersi i sintomi della malattia, i necessari accertamenti medico-sanitari, anche diretti ad individuare le cause della sua insorgenza e, quindi, i soggetti potenzialmente responsabili dell’evento dannoso.

In secondo luogo, è stata affermata altresì la necessità di valutare il livello delle conoscenze scientifiche esistenti al momento della manifestazione “esterna” della malattia.

Riassumendo, ad avviso delle Sezioni Unite, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi ritenga di aver contratto una malattia per il fatto doloso o colposo di un medico, o della struttura sanitaria, decorre dal momento in cui la malattia stessa viene percepita quale fatto ingiusto conseguente al comportamento di detti soggetti, usando l’ordinaria, oggettiva diligenza e tenendo conto della diffusione e del livello delle conoscenze scientifiche in materia.

Il danneggiato, quindi, non deve avere solo una percezione della malattia, che lo induca a sottoporsi ad esami clinici, ma deve essere posto in grado, tenendo conto del livello di conoscenza raggiunto dalla comunità scientifica di riferimento, di ricondurre la patologia al fatto colposo o doloso dei terzi.

In altre parole, gli strumenti “tecnici” disponibili devono essere in grado di rilevare la malattia e di metterla in relazione causa-effetto con un determinato evento.

E’ da questo momento che sorge il diritto del danneggiato ad ottenere il risarcimento di tutti i pregiudizi subiti ed è, quindi, sempre da questo momento che sorge il suo obbligo giuridico di attivarsi per la tutela dei suoi diritti al fine di evitare l’estinzione di questi ultimi per intervenuta prescrizione. (Pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 25/02/08)

*Marco Emanuele Galanti

*Renato Musella

*Studio Legale Galanti – Meriggi & Partners, Milano

[Novembre 2007] - DRM e copia privata: profili normativi

Lo sviluppo negli ultimi anni delle tecnologie digitali e di internet ha radicalmente cambiato lo scenario economico-commerciale dei contenuti protetti dal diritto d’autore.

La tecnologia digitale ha reso i contenuti protetti maggiormente “fruibili” ampliandone le possibilità di utilizzo del consumatore, mentre internet ha reso possibile una più facile reperibilità e condivisione degli stessi.

Ma la maggior fruibilità e la più semplice condivisione dei contenuti protetti hanno anche incrementato esponenzialmente il fenomeno della “pirateria” a discapito dei titolari del diritto d’autore.

La Fondazione Einaudi ha pubblicato a fine maggio una ricerca condotta dall’Osservatorio Libercom nella quale emerge che un internauta italiano su 4 scarica illegalmente contenuti digitali protetti; tale ricerca è stata effettuata su un campione di 1600 internauti di età compresa tra i 15 e 54 anni e dimostra la diffusione di questo fenomeno in Italia (Il Sole 24 Ore – Nova 24 del 24/05/07).

I titolari dei diritti d’autore, preso atto del dilagante fenomeno e del conseguente danno economico che questo comporta, hanno cercato di individuare soluzioni tecnologiche che potessero arginare l’illegale fruibilità dei contenuti digitali protetti.

La soluzione più idonea ed efficace individuata è stata quella dell’utilizzo delle tecnologie DRM (Digital Rights Management) ovvero di sistemi tecnologico/legali mediante i quali i titolari del diritto d’autore possono esercitare ed amministrare tali diritti in ambito digitale, grazie alla possibilità di proteggere, identificare e tracciare tutti gli usi in rete di contenuti protetti.

L’applicazione sui contenuti digitali protetti di queste tecnologie, volte a combattere la “pirateria” ma con l’effetto di limitare la fruibilità anche ai legittimi utilizzatori, ha generato proteste e diffidenza da parte dei consumatori e delle loro associazioni, nonostante in Italia l’uso di misure tecnologiche di protezione sia consentito dall’art. 102 quater della Legge 633/1941 a seguito del recepimento della direttiva europea 2001/29/CE .

Una delle caratteristiche dei DRM che maggiormente sta suscitando malumore è l’esclusione o la limitazione della possibilità di effettuare copie digitali da parte degli acquirenti di contenuti protetti.

Tali vincoli, a volte, possono tuttavia essere in contrasto con il diritto in capo ai legittimi utilizzatori di effettuare riproduzioni private senza scopo di lucro (così detto diritto di copia privata). La contrapposizione tra la tutela del diritto d’autore per il tramite di sistemi tecnologici di protezione (DRM) e il diritto alla copia privata, viene regolamentata dall’art. 71 sexies della Legge sul Diritto d’Autore che consente la riproduzione di copia privata senza fini di lucro nel rispetto delle misure tecnologiche di protezione previste all’art. 102 quater Legge 633/1941 purchè queste ultime consentano una copia privata “anche solo analogica”. Sempre secondo l’art. 71 sexies L.D.A. la possibilità di effettuare una copia privata anche solo analogica non deve essere in contrasto con lo sfruttamento normale del contenuto protetto e non deve arrecare ingiustificato pregiudizio ai titolari del diritto d’autore.

Ma è ben noto che la tecnologia di riproduzione analogica nell’era digitale risulta obbiettivamente obsoleta sia nei mezzi di riproduzione che nei supporti e, quindi, anche la previsione normativa che legittima detta forma di copia appare non più attuale in una realtà tecnologica caratterizzata dalla digitalizzazione.

Nel contesto normativo e tecnologico appena accennato, non risultano ad oggi forniti significativi chiarimenti dalla giurisprudenza italiana in relazione al contrasto tra le misure tecnologiche di protezione ed il diritto alla copia privata.

Per contro la Corte Suprema Francese ha invece chiarito in data 28/02/06 il carattere di “eccezionalità” del diritto della copia privata, rispetto al diritto d’autore, e, quindi, ha precisato che il primo non può essere di ostacolo all’introduzione di misure tecnologiche di protezione dirette a tutelare gli autori delle opere dall’illecito e ormai generalizzato fenomeno della “pirateria”. Orientamento, peraltro, confermato di recente dalla Corte d’Appello di Parigi nella causa tra UFC Que Choisir contro Warner Music France e FNAC Store.

Ma l’affermata prevalenza sostanziale del diritto d’autore rispetto a quello della copia privata a volte mal si concilia con il compenso forfettario che l’art. 71 septies della L.D.A. riconosce ai titolari del diritto d’autore e che, come noto, viene applicato e corrisposto ogni qualvolta si acquisti apparati tecnologici per la copia di contenuti, apparati di registrazione audio e video e memorie fisse o trasferibili.

Le associazioni dei consumatori infatti hanno più volte contestato l’applicazione delle tecnologie DRM proprio in relazione al pagamento dell’appena richiamato compenso forfettario che verrebbe corrisposto nonostante il diritto alla copia privata sia non più garantito o fortemente limitato dall’utilizzo delle tecnologie di protezione.

Ma indipendentemente dalla natura che si voglia attribuire all’equo compenso garantito ai titolari del diritto d’autore per il diritto di copia privata, l’innegabile e sussistente contrapposizione tra la tutela dei diritti d’autore e il diritto alla copia privata non può certo essere superata perorando filosofie di libero e indiscriminato utilizzo di contenuti protetti.

Un approccio più realistico ben potrebbe essere quello di riconsiderare l’equo compenso nella sua entità come peraltro già previsto dall’art.71 septies comma 2 L.D.A. secondo cui la determinazione dell’equo compenso deve tener conto dell’apposizione o meno delle misure tecnologiche di protezione, nonché della diversa incidenza della copia digitale rispetto alla copia analogica.

E’ giunto il tempo che il Legislatore prenda atto dei mutamenti degli scenari per quanto riguarda i contenuti protetti e che in una logica di tutela e salvaguardia degli stessi, disciplini omogeneamente e tempestivamente l’utilizzo delle nuove tecnologie, esaltandone i benefici ma inibendone forme illecite di utilizzo.

La posta in gioco non sono gli interessi dei titolari dei diritti d’autore o gli interessi dei consumatori, ma è ben più alta: lo sviluppo culturale della nostra società.

* Marco Emanuele Galanti

* Andrea E. Cavalloni

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Settembre 2007] - Decreto “correttivo” Legge Fallimentare: revocatoria ed effetti sui rapporti giuridici preesistenti

Il Consiglio dei Ministri ha finalmente varato il tanto atteso decreto “correttivo” della Legge Fallimentare, che già era stata oggetto di rilevanti modifiche con la Legge n.80/2005 ed il Decreto Legislativo n.5/2006.

Tra le modifiche previste nel nuovo provvedimento, alcune, in tema di revocatoria fallimentare e di effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, meritano di essere segnalate.

- Per quanto attiene la revocatoria fallimentare, la normativa attualmente in vigore aveva già apportato una rilevante  restrizione dei confini di esperibilità di tale azione, e ciò anche escludendo dall’assoggettabilità alla revocatoria una serie di atti, indipendentemente dal momento del loro compimento rispetto alla data del fallimento e dalla conoscenza o meno, da parte dei terzi interessati, dello stato di insolvenza. Al riguardo, non sono mancati interventi critici di alcuni autori, che hanno ritenuto eccessive le modifiche apportate dalla Legge n.80/2005 e dal D. Lgs. n.5/2006 al previgente testo della Legge Fallimentare in relazione alla riduzione dell’area di applicabilità dell’azione revocatoria fallimentare.

Con il decreto approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre u.s. non solo non sono stati recepiti i rilievi critici appena accennati, ma sono stati previsti ulteriori correttivi, in senso restrittivo, tra i quali merita di essere segnalato quello in tema di compravendita di beni immobili.

Infatti, le norme attualmente in vigore prevedono che sono esclusi dalla revocatoria fallimentare anche le vendite, a giusto prezzo, di immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado (art.67, 2° comma della Legge Falimentare).

Nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri, invece, non viene fatto solo riferimento alle “vendite” a giusto prezzo, ma bensì anche ai “preliminari di vendita” (art.4 comma 4° lettera a del decreto correttivo).

I “preliminari” di vendita, per non essere assoggettati a revocatoria, dovranno essere trascritti presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari territorialmente competente e, pertanto, dovranno essere originariamente perfezionati mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata (o accertata giudizialmente).

Gli effetti della trascrizione, inoltre, non dovranno essere “cessati” secondo quanto previsto dal terzo comma dell’art.2645-bis del codice civile. In particolare, dovrà essere effettuata la trascrizione dell’atto definitivo di compravendita,  o di altro atto allo stesso equipollente (quale, ad esempio, una sentenza che dichiari forzosamente, in luogo del contratto definitivo, il trasferimento della proprietà del bene), entro il termine di un anno dalla data prevista, nello stesso preliminare, per la stipulazione dell’atto definitivo e, comunque, in ogni caso, entro il termine di tre anni dalla data della trascrizione dello stesso preliminare.

La nuova disposizione appare certamente opportuna, essendosi finalmente chiariti i confini per l’assoggettabilità o meno all’azione revocatoria fallimentare, dei contratti preliminari di compravendita di beni immobili che, ovviamente, dovranno essere sempre perfezionati ad un giusto prezzo ed essere  destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.

Naturalmente, per poter beneficiare della nuova norma, le parti acquirenti di beni immobili dovranno essere particolarmente attente alle modalità di definizione del contratto preliminare,  alla sua successiva trascrizione ed ai tempi previsti per la stipulazione dell’atto definitivo di compravendita.

- Anche in tema di effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, il testo approvato dal Consiglio dei Ministri presenta modifiche di particolare interesse, tra queste, quelle dell’art.72 e dell’art.80 Legge Fallimentare.

La prima norma prevede attualmente che se un contratto è ancora ineseguito da entrambe le parti ed una di esse fallisce, il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, può dichiarare di subentrare nel contratto ovvero pretenderne lo scioglimento.

Nel decreto correttivo è stato opportunamente chiarito che la  regola “generale”, appena richiamata, non si applica ai contratti con effetti reali (ad esempio, contratti che trasferiscono la proprietà o altro diritto reale), che, a differenza di quelli ad effetti obbligatori (ad esempio, mandato, locazione etc.), determinano il trasferimento di un diritto, in via immediata e contestualmente alla loro stipulazione (art. 4 comma 6° lettera a del decreto correttivo).

Inoltre, per i casi di scioglimento del contratto ad iniziativa del curatore, il decreto correttivo prevede che l’altro contraente non potrà far valere, nello stato passivo fallimentare, relative pretese di carattere risarcitorio (art. 4 comma 6° lettera b del decreto correttivo).

Merita altresì di essere segnalata l’integrazione del testo dell’art.80 della Legge Fallimentare, inerente ai contratti di locazione di beni immobili.. Il decreto correttivo prevede che, se fallisce il locatore e la durata residua della locazione è  superiore ad un periodo di quattro anni dal fallimento, il curatore, entro un anno dell’apertura della procedura concorsuale, può recedere dal contratto.

In tal caso, il conduttore ha diritto ad un “equo indennizzo” per l’anticipato recesso che, in caso di mancato accordo, deve essere determinato dal Giudice Delegato, sentite le parti interessate.

- In attesa di pubblicazione della versione definitiva della riforma sulla Gazzetta Ufficiale, il decreto correttivo, nella sua attuale versione, indica il 1° gennaio 2008 quale data prevista per la sua entrata in vigore. Le disposizioni del decreto, salvo casi particolari, dovrebbero essere applicate a tutte le procedure per declaratoria di fallimento pendenti alla data del 1° gennaio 2008, nonché alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente a tale data.  (Pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 24/09/07)

* Marco Emanuele Galanti

* Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Luglio 2007] - Esdebitazione: problematiche interpretive ed evolutive del nuovo istituto

Introdotta nella riforma del 2006, l’esdebitazione, che concede al fallito-persona fisica la possibilità di liberarsi dai debiti rimasti insoddisfatti al termine della liquidazione dell’attivo, evidenzia alcune criticità in relazione ai confini della sua applicabilità. Il legislatore si è riferito al «fallito persona fisica», senza precisare se il beneficio possa o meno riguardare anche i «soci persone fisiche» dichiarati falliti «in estensione». In assenza di giurisprudenza, sono stati rilevati differenti orientamenti da parte dei primi commentatori.

Riflettendo sul tema, possono ravvisarsi valide ragioni a sostegno sia di una tesi restrittiva sia di una tesi estensiva. La prima pare la più aderente al dato normativo, posto che il Legislatore, se avesse inteso applicare l’istituto anche ai soci persone fisiche dichiarati falliti «in estensione», ben avrebbe potuto indicarlo nel contesto delle norme. Per contro, l’adesione alla tesi estensiva potrebbe evitare ipotetiche disparità di trattamento, che non sembrano trovare altra giustificazione rispetto ad una interpretazione letterale delle norme.

Non è poi chiaro se il Tribunale, in presenza dei requisiti richiesti dall’articolo 142 della legge fallimentare, debba o possa concedere tale beneficio. Attenendosi al dato letterale («il Tribunale… dichiara inesigibili…») si dovrebbe propendere per un automatismo, ritenendo l’ipotesi di richiesta su ricorso del debitore marginale e limitata ai casi di omessa pronuncia. Altra incongruenza è riscontrabile nel secondo comma dell’articolo 143 che stabilisce la possibilità di proporre reclamo contro «il decreto che provvede sul ricorso». La norma parrebbe escludere la possibilità di proporre reclamo allorquando l’esdebitazione sia stata concessa direttamente dal Tribunale. Ulteriore aspetto problematico è correlato al testo dell’articolo 144 della legge fallimentare secondo il quale l’esdebitazione nei confronti dei crediti non insinuati nel fallimento parrebbe potersi verificare solo nell’ipotesi di domanda del fallito e non anche nel caso di concessione del beneficio direttamente dal Tribunale.

Altra criticità è riconducibile alla circostanza che dell’esdebitazione possono beneficiare solo i soggetti il cui fallimento si sia chiuso dopo l’entrata in vigore della norma (16 luglio 2006), dando luogo a possibili disparità di trattamento con altri soggetti per i quali il fallimento si sia chiuso prima di tale data e che, paradossalmente, continuano a rispondere con tutti i propri beni delle obbligazioni insoddisfatte. Sul punto parrebbe imminente l’attuazione di una modifica da parte del legislatore finalizzata a estendere l’esdebitazione sia alle procedure fallimentari in corso alla data citata, sia a quelle chiuse prima di tale data.

Indipendentemente da tali problematiche, l’esdebitazione deve essere considerata alla luce dell’attuale testo dell’articolo 1 della legge, con cui è stata ampliata l’area dei soggetti ritenuti «piccoli imprenditori», non assoggettabili al fallimento. Ad oggi non vengono considerati piccoli imprenditori coloro che, nell’esercizio di un’attività commerciale, hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a 300mila euro o hanno realizzato ricavi lordi negli ultimi tre anni, o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare annuo superiore a 200mila euro. Sui criteri di certa individuazione di detti parametri, come anche sul soggetto tenuto a fornirne la prova, non si riscontra un orientamento univoco dei tribunali.

Ma, al di là di tali dubbi interpretativi, ci si deve chiedere quanti soggetti in concreto potranno realmente accedere all’esdebitazione. Considerando l’estensione dei soggetti non assoggettabili al fallimento, è indubbio che dell’esdebitazione possa avvalersi un numero limitato di imprenditori. In tale contesto l’istituto risulta affetto da una sorta di “rachitismo”. Sarebbe auspicabile che nell’emanando provvedimento correttivo, il legislatore chiarisca l’ambito applicativo dell’istituto in esame rendendolo maggiormente utilizzabile dall’imprenditoria meritevole. Perché, se da un lato l’esdebitazione ben potrebbe consentire l’eliminazione di alcune distorsioni derivanti dalla previgente normativa, dall’altro potrebbe trasformarsi in uno strumento per consentire a imprenditori non meritevoli e senza scrupoli di fallire senza far fronte ai debiti contratti, e ciò nel pieno rispetto della legge.

Un’ultima considerazione riguarda il riflesso che l’esdebitazione avrà nelle scelte degli istituti di credito che, consapevoli della possibilità per il fallito di ottenere tale beneficio, saranno molto più restrittivi nell’elargire finanziamenti alle imprese individuali che ben potrebbero rivelarsi a «fondo perduto». ( Tratto dal Sole 24 Ore - Giustizia del 09/07/07)

* Marco Emanuele Galanti

* Raffaele Gagliardi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Giugno 2007] - Tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ambito delle telecomunicazioni

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha recentemente adottato la delibera n.173/07/CONS di approvazione del nuovo Regolamento sulle procedure di risoluzione delle controversie tra operatori di comunicazione e utenti. La delibera (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.120 del 25/5/2007) entrerà in vigore il 24 giugno 2007, sostituendo la precedente delibera dell’Autorità n.182/02/CONS, in vigenza della quale sono sorte rilevanti problematiche di carattere interpretativo, con particolare riferimento all’individuazione delle controversie fra utenti e organismi di telecomunicazioni da sottoporre al preventivo ed obbligatorio tentativo di conciliazione avanti ai “Corecom” regionali. La vecchia delibera, infatti, conteneva una definizione estremamente ampia delle controversie da assoggettare al tentativo obbligatorio di conciliazione, facendo riferimento a qualsiasi controversia tra gli utenti e gli organismi di telecomunicazione avente ad oggetto “la violazione di un proprio diritto o interesse contemplati da un accordo di diritto privato o dalle norme in materia di telecomunicazioni attribuite alla competenza dell’Autorità” (art.3, Allegato “A”). La particolare ampiezza della definizione ha determinato criticità operative in relazione alle azioni proposte dalle società di telecomunicazione per il recupero di crediti nei confronti degli utenti, con particolare riferimento ai procedimenti a cognizione sommaria di natura monitoria (decreti ingiuntivi). Nella vigenza della vecchia delibera, ed in assenza del preventivo tentativo di conciliazione, alcuni Tribunali non emettevano a volte i decreti ingiuntivi (ad esempio, Tribunale di Genova e Tribunale di Roma) e, nel caso di opposizione da parte degli utenti, sospendevano i procedimenti in attesa dell’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione o optavano per la revoca dei decreti ingiuntivi e per l’improcedibilità e/o inammissibilità delle cause (Tribunale di Roma). Il Tribunale di Milano, per contro, ha generalmente emesso i decreti e, nei casi di opposizione da parte degli utenti,  si è da ultimo orientato a respingere le eccezioni di improcedibilità, ritenendo che il tentativo obbligatorio di conciliazione non debba essere applicato a procedimenti correlati ad una precedente fase monitoria, priva di contraddittorio tra le parti (Tribunale di Milano, Sezione XI). Con la nuova delibera n.173/07/CONS, a lungo attesa, ed in particolare con gli artt. 2) e 3) del Regolamento (Allegato A) con la stessa approvato, l’Autorità ha obiettivamente fornito rilevanti chiarimenti in materia. L’Autorità ha innanzi tutto escluso dal tentativo obbligatorio di conciliazione le controversie promosse dalle società di telecomunicazioni per il recupero di propri crediti, a condizione che l’inadempimento da parte degli utenti non sia dipeso da “contestazioni” relative alle prestazioni rese (art.2 comma 2° Allegato A). Con ciò è stato chiarito che se non vi sono contestazioni da parte degli utenti interessati, ed in presenza di ricorsi corredati da idonea documentazione, i decreti ingiuntivi dovranno essere senz’altro emessi. Per i casi di opposizione ai decreti ingiuntivi, invece, va rilevato che l’art.2) della Delibera (Allegato A) esclude chiaramente l’obbligo dell’utente di esperire il tentativo  di conciliazione potendo quest’ultimo proporre una formale opposizione giudiziale “per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali ovvero opposizione a norma dell’art.641 c.p.c.”. E’ quindi ragionevole prevedere i seguenti “scenari processuali”. Ipotizziamo che l’utente proponga opposizione fornendo la prova scritta di contestazioni antecedenti al deposito del ricorso per decreto ingiuntivo. In tal caso, ed in attesa delle prime pronunce interpretative da parte dell’autorità giudiziaria, il giudice potrebbe:

a) valutare, sia pur sommariamente (anche nel contesto della verifica dei presupposti per la concessione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo), se le contestazioni proposte dall’utente appaiano ad un primo esame fondate o meno, sospendendo il procedimento per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione nel primo caso e non sospendendolo invece nel secondo; b) sospendere il procedimento in attesa dell’esperimento del tentativo di conciliazione, indipendentemente da qualsivoglia valutazione sulla fondatezza o meno delle contestazioni; c)  adottare una linea particolarmente rigorosa (la meno aderente al dato normativo, a parere di chi scrive) revocando i decreti e dichiarando la causa improcedibile e/o inammissibile.

La soluzione indicata al precedente punto a) pare essere quella preferibile, anche al fine di evitare la “proliferazione” di contestazioni ed opposizioni strumentali e meramente dilatorie.

Nel caso di proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo fondata, invece, su contestazioni degli utenti successive alla notificazione dei decreti, l’unica possibile conseguenza, stante la previsione del già ricordato art.2) Allegato “A” della nuova delibera, dovrebbe essere quella della prosecuzione del procedimento giudiziale, dovendo essere respinta l’eccezione di improcedibilità eventualmente svolta dall’utente. Resta da considerare l’eventualità di contestazioni che vengano formalizzate dall’utente dopo il deposito del ricorso per decreto ingiuntivo ma prima della notificazione del medesimo provvedimento monitorio. In tal caso, è ragionevole ritenere che, avendo la parte creditrice richiesto l’intervento dell’autorità giudiziaria prima di ricevere le contestazioni dell’utente, non vi dovrebbe essere alcun obbligo di esperimento del tentativo di conciliazione, con conseguente possibilità, per l’utente medesimo, di far valere le proprie ragioni avanti al giudice. Conclusivamente, ed anche considerando le problematiche interpretative verificatesi in passato, l’intervento dell’Autorità non può che essere accolto con favore e soddisfazione, essendosi quanto meno in parte chiarita, nei suoi aspetti più rilevanti ed essenziali, la tematica delle controversie per le quali debba essere esperito il tentativo preventivo di conciliazione avanti ai Corecom regionali.

Avv. Marco Emanuele Galanti

Avv. Fabio Meriggi

(Tratto dal Sole 24 Ore del 18/06/07)

[Giugno 2007] - Appalti di opere e servizi - principali novità a seguito della Legge Bersani e della Finanziaria 2007

Con la legge finanziaria 2007 il governo è intervenuto nuovamente sulle norme in tema di appalto di opere e servizi previste dal D.Lgs n.276/2003 attuativo della riforma Biagi. Ricordiamo che l’appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro (ex appalto di manodopera) per l’organizzazione dei mezzi necessari e per l’assunzione del rischio di impresa da parte dell’appaltatore. In relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, anche il solo esercizio da parte dell’appaltatore  del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati può integrare il requisito essenziale della “organizzazione dei mezzi” previsto dalla norma sopra  richiamata (art.29, comma 1, del D.Lgs. n.276/2003).

Nel sistema introdotto dal D.Lgs n.276/2003, la legittimità dell’appalto, che potremo definire “appalto genuino” per distinguerlo dalla somministrazione di lavoro, non dipende più, come in passato (Legge n.1369/1960), dal possesso dei mezzi di produzione (capitali, macchine ed attrezzature) in capo all’appaltatore. Assume invece rilievo l’elemento dell’organizzazione dei mezzi, che si deve estrinsecare nell’esercizio di un reale ed effettivo potere organizzativo e direttivo da parte dell’appaltatore nei confronti del personale utilizzato. In definitiva, l’appaltatore deve essere un vero e proprio imprenditore, non un semplice intermediario. L’appalto privo dei suoi essenziali requisiti espone il committente e l’appaltatore/intermediario sia alla sanzione penale dell’ammenda che alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista per la somministrazione vietata. Al riguardo, ricordiamo che oggi la somministrazione di lavoro è lecita a determinate condizioni (artt.20 e 21 D.Lgs. n.276/2003), al di fuori delle quali la stessa è invece vietata e punita come reato (art.18 D.Lgs. n.276/2003).

L’art.29, comma 2, del D.Lgs n.276/2003 in vigore prima della legge finanziaria 2007 stabiliva che, in caso di appalto di opere o servizi, il committente, imprenditore o datore di lavoro esercente un’attività di impresa o professionale, era obbligato in solido solo con l’appaltatore, ed entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, per la corresponsione dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali dovuti ai lavoratori utilizzati nell’appalto. Tale disposizione non si applicava qualora il committente fosse una persona fisica che non esercitava un’attività di impresa o professionale (art. 29, comma 3-ter, del D.Lgs. n.276/2003).

Successivamente, con l’entrata in vigore della legge Bersani, la responsabilità solidale fra committente e appaltatore è stata estesa anche alle ritenute fiscali sui compensi dei lavoratori utilizzati nell’appalto (art.35, comma 34, della legge n.248/2006). La legge Bersani prevede anche altre rilevanti disposizioni, non ancora in vigore, in tema di: (a) responsabilità solidale dell’appaltatore con il subappaltatore per il versamento delle ritenute fiscali, dei contributi previdenziali e assicurativi dei dipendenti del subappaltatore; (b) limitazione della responsabilità solidale suddetta fino all’ammontare del corrispettivo dovuto dall’appaltatore al subappaltatore;  (c) esclusione della responsabilità solidale stessa in caso di acquisizione e verifica da parte dell’appaltatore della documentazione attestante l’esecuzione da parte del subappaltatore degli adempimenti fiscali, previdenziali ed assicurativi connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l’opera, la fornitura o il servizio affidati, con possibilità per l’appaltatore di sospendere il pagamento del corrispettivo fino all’esibizione da parte del subappaltatore di detta documentazione; (d)  possibilità del committente di  sospendere ex lege il pagamento del corrispettivo dovuto all’appaltatore fino all’esibizione della documentazione attestante l’assolvimento da parte dell’appaltatore degli adempimenti di legge connessi alle prestazioni di lavoro dipendente concernenti l’opera, fornitura o servizio affidati (art.35, commi 28,29,30 e 32, Legge n.248/2006).

Tuttavia, come già accennato, l’entrata in vigore di tali disposizioni è stata differita al momento della successiva emanazione (ad oggi non ancora avvenuta) del decreto ministeriale di attuazione.

Nel contesto normativo appena descritto è da ultimo intervenuta la legge finanziaria 2007, in vigore dal 1° gennaio 2007, prevedendo la responsabilità solidale del committente imprenditore o datore di lavoro non solo con l’appaltatore, ma anche con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, ed entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, per quanto concerne i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti per il personale impiegato nell’appalto e nell’eventuale subappalto (v. art.1, comma  911, Legge n.296/2006). Inoltre, la legge stessa è intervenuta anche sul fronte della sicurezza sul lavoro stabilendo che, sempre con decorrenza dal 1° gennaio 2007, l’imprenditore committente risponde in solido con l’appaltatore, e con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, per tutti i danni non indennizzabili dall’INAIL e, cioè, i danni che comportano un’invalidità inferiore al 6 %, il danno biologico differenziale che supera il danno biologico INAIL e l’eventuale danno morale conseguente alla violazione, di rilevanza penale, delle norme sulla sicurezza del lavoro  (art.1, comma 910, Legge n.296/2006).

Considerate le novità appena sopra richiamate, peraltro introdotte in modo poco organico, e le pesanti ripercussioni che possono derivare dalla responsabilità solidale, le imprese, che sempre più spesso ricorrono all’esternalizzazione di attività o processi aziendali (outsourcing) per esigenze  di flessibilità e di riduzione dei costi fissi, dovranno porre massima attenzione nella scelta dei fornitori, nella disciplina dei relativi rapporti contrattuali,  nella verifica dell’esecuzione degli adempimenti retributivi, contributivi, assicurativi e fiscali e nella richiesta della documentazione attestante la corretta esecuzione degli adempimenti stessi.  I mezzi a cui le imprese possono  ricorrere  per esternalizzare attività o processi produttivi sono vari: oltre all’appalto d’opera o servizi, la somministrazione di lavoro  o anche  la combinazione fra trasferimento di ramo d’azienda e appalto, nel caso in cui  l’alienante poi stipuli con l’acquirente un separato e collegato  contratto di appalto, da eseguirsi utilizzando il ramo d’azienda ceduto (art.2112, ultimo comma cod. civ.).

Visti e considerati i rischi a cui il committente si espone in caso di non corretto adempimento degli obblighi retributivi, contributivi, assicurativi e fiscali da parte dei suoi ausiliari (appaltatore ed eventuale subappaltatore),  è ipotizzabile che acquisti maggiore appeal per le imprese il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (destinato  cioè a soddisfare esigenze stabili) da parte di agenzie del lavoro autorizzate, anche per le garanzie patrimoniali e finanziarie che le stesse devono per legge offrire. Tale contratto può essere infatti utilizzato per l’affidamento di varie attività accessorie, estranee rispetto al core business dell’impresa, ad esempio i servizi di pulizia, custodia e portineria, i servizi di trasporto di macchinari e merci, di gestione di call-center, di gestione, ricerca e selezione del personale, ecc.

Mentre, in caso di ricorso al contratto di appalto, l’esigenza del committente di tutelarsi nei confronti dell’appaltatore, e dell’eventuale subappaltatore, può essere soddisfatta mediante la previsione di specifiche e articolate clausole di garanzia che attribuiscano al committente il diritto di verificare periodicamente l’adempimento degli obblighi di legge, di condizionare il pagamento del corrispettivo dovuto all’appaltatore alla previa dimostrazione della corretta esecuzione degli adempimenti stessi, e che prevedano appositi rimedi e cautele in caso di inosservanza dei suddetti obblighi.

ADDENDUM  RESPONSABILITA’ SOLIDALE

Come accennato nell’articolo pubblicato in questa pagina, la novità più rilevante introdotta dalla  legge finanziaria 2007 in tema di appalto di opere e servizi consiste nell’estensione all’intera filiera produttiva, compreso l’eventuale subappaltatore,  quale ausiliario dell’appaltatore, della responsabilità solidale del committente per il versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali e assicurativi obbligatori dovuti sia dall’appaltatore che dal subappaltatore per i loro dipendenti. La responsabilità solidale comporta che, in caso di azione diretta da parte dei dipendenti dell’appaltatore e/o del subappaltatore,  ovvero degli enti impositori, previdenziali o assistenziali, azione da esercitarsi entro il termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell’appalto,  il committente possa essere chiamato a rispondere per l’intero di dette omissioni, senza alcun limite.

In tal caso il committente che adempia all’obbligazione solidale in luogo dell’appaltatore o del subappaltatore, ha a sua volta azione di regresso verso questi ultimi per ottenere il rimborso della parte da ciascuno dovuta, riferita alle prestazioni di lavoro dei propri dipendenti impiegati nell’esecuzione dell’opera o servizio affidati.

E’ quindi necessario che il committente pretenda adeguate tutele a livello contrattuale per i possibili inadempimenti dell’appaltatore e/o del subappaltatore.

ADDENDUM SOMMINISTRAZIONE

Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato,  destinato a soddisfare esigenze stabili (c.d. staff leasing)  può in molti casi costituire una valida alternativa rispetto all’appalto per affidare all’esterno attività o processi aziendali non costituenti il core business dell’impresa.

Tale contratto ha il vantaggio innanzitutto di poter essere perfezionato esclusivamente con agenzie per il lavoro, che per poter svolgere l’attività di somministrazione di manodopera devono possedere specifici requisiti giuridici e finanziari (art.5 Dlgs 276/2003) ed essere iscritte ad un apposito albo. La somministrazione di manodopera a tempo indeterminato,  possibile per lo svolgimento delle attività e di servizi previsti dall’art.20, comma 3, del Dlgs 276/2003 (fra cui, lo ricordiamo, servizi di consulenza e di assistenza nel settore informatico; servizi di pulizia, custodia e guardiania; servizi di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci da e per lo stabilimento;  gestione di archivi e magazzini; attività di consulenza direzionale, gestione, ricerca e selezione del personale,  di marketing e di gestione di call-center; per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti;  per installazioni o smontaggio di impianti e macchinari), consente all’impresa utilizzatrice di dirigere il lavoro del personale somministrato, dal momento che il lavoratore somministrato è soggetto al potere direttivo, organizzativo e di controllo dell’utilizzatore (art.20, comma 2, Dlgs 276/2003) e non già di un terzo, come invece avviene nell’appalto. Inoltre,  in caso di cessazione del contratto  di somministrazione fra agenzia per il lavoro e impresa utilizzatrice, il lavoratore somministrato, dipendente dell’agenzia somministrante, ha diritto di ricevere da quest’ultima un’indennità mensile di disponibilità nei periodi in cui rimane in attesa di essere assegnato ad altro utilizzatore, oltre ad aver maggiori possibilità di ricollocazione nell’ambito della clientela dell’agenzia somministrante.

Avv. Marco Emanuele Galanti e Avv. Paolo Poli*

* Studio Legale Galanti Meriggi & Partners di Milano

(Tratto da “Il Sole 24 Ore” del 04/06/07)

[Maggio 2007] - Il contratto a termine: principi generali e recenti novita’

Una pur sintetica trattazione della tematica del rapporto di lavoro a tempo determinato non può prescindere da alcune brevi considerazioni concernenti la Direttiva comunitaria 1999/70/CE, che, come noto, e sotto l’aspetto normativo, è stata, indubbiamente, il principale punto di riferimento per la modifica nel nostro ordinamento della regolamentazione del lavoro a tempo determinato.

La Direttiva comunitaria, pur volendo configurare un modello alternativo e non subalterno all’istituto del contratto a tempo indeterminato, fissa un punto fermo in materia di lavoro a termine, confermando, peraltro, che i contratti a tempo indeterminato continuano ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro. Tale principio è stato inoltre più volte ribadito anche dalla giurisprudenza, secondo cui l’apposizione del termine al rapporto di lavoro subordinato costituisce deroga al principio generale in forza del quale i rapporti di lavoro, per loro natura, sono a tempo indeterminato (In tal senso Cass. 21/5/2002 n. 7468 e Corte d’appello Milano 9/1/2006).

La Direttiva comunitaria ha affermato, inoltre, il principio di non discriminazione, equiparando i lavoratori a tempo determinato a quelli a tempo indeterminato, precisando altresì che i primi non possono essere, per nessuna ragione, trattati in modo meno favorevole rispetto ai secondi.

Il presupposto che la Direttiva richiede per l’apposizione del termine ad un rapporto di lavoro è la presenza di condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.

La scelta operata dal legislatore italiano nel recepire la Direttiva comunitaria, con il decreto legislativo 368/2001, è stata quella di meglio specificare l’ambito delle “condizioni oggettive” delineate dalla Direttiva, elencando quattro ampie ipotesi che legittimano il ricorso al contratto a termine.

Più specificamente, e contrariamente rispetto alla vecchia disciplina del contratto a termine dettata dalla legge n. 230 del 18 Aprile 1962, che prevedeva la possibilità del ricorso al contratto a termine solo in caso di attività  o finalità particolarmente tipizzate (esigenze sostitutive, attività stagionali, opere e servizi definiti e predeterminati a carattere straordinario e occasionale etc.), il decreto legislativo 368/2001 consente l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo.

Le quattro ragioni appena ricordate costituiscono indubbiamente delle categorie generali, che, necessariamente, il datore di lavoro dovrà, obbligatoriamente in forma scritta, meglio precisare nei loro confini all’atto dell’instaurazione del rapporto a tempo determinato, posto che lo stesso datore ha uno specifico obbligo di motivare formalmente le ragioni del ricorso a tale tipologia di contratto ( art. 1, comma 2, D. lgs. 368/2001).

In linea generale, le ragioni del ricorso al contratto a termine devono fare riferimento a delle esigenze tali da non poter essere soddisfatte con l’impiego del personale dipendente già presente né con l’assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato (In tal senso Circolare ministeriale n. 42 del 1° Agosto 2002).

L’assenza e/o l’incompletezza formale delle indicazioni relative alle ragioni legittimanti il ricorso al contratto a termine o la loro non rispondenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, determinano, avendo l’art. 1, comma 1 natura imperativa, la nullità dell’apposizione del termine e la conversione in contratto a tempo indeterminato (In tal senso Corte d’Appello di Bari 20/7/2005; Trib. Milano 9/4/2004).

Se con la disciplina del decreto legislativo 368/2001 il datore di lavoro ha acquisito la facoltà di invocare ragioni diverse e apparentemente più ampie rispetto a quelle tassativamente previste dalla precedente legge 230/1962, questo non ha comportato, tuttavia, una minore tutela del lavoratore. Il controllo sull’operato del datore, e quindi sulla effettiva e concreta sussistenza, formale e sostanziale, delle ragioni che hanno formalmente e sostanzialmente giustificato il ricorso al lavoro a tempo determinato è sempre possibile in via giudiziale. Ciò trova conferma nell’ampia e particolarmente rigorosa elaborazione giurisprudenziale, secondo cui le ragioni oggettive che il datore di lavoro ha l’obbligo di indicare, pena la nullità della clausola di apposizione del termine, devono essere specificate in modo chiaro, al fine di evitare eventuali abusi e raggiri attraverso comportamenti fraudolenti. Nonostante la formula elastica scelta dal legislatore riguardo le ragioni che legittimano il ricorso al lavoro a tempo determinato, non è sufficiente fare riferimento alla semplice e tautologica riproposizione di dette ragioni e, in caso di contestazione da parte del lavoratore, l’obbligo del datore si estende alla prova della loro esistenza e consistenza (In tal senso Trib. Milano 31/10/2003, Trib. Milano 25/11/2004).

Sempre secondo la giurisprudenza formatasi sul decreto legislativo 368/2001, è necessario descrivere la particolare realtà attinente alle esigenze dell’impresa alle quali si è inteso sopperire con la stipulazione di un contratto a termine, non costituendo specificazione della ragione ai sensi di legge, ad esempio, il mero riferimento all’esigenza di provvedere alla sostituzione del personale assente con diritto alla conservazione del posto, nemmeno ove integrato dal richiamo all’inquadramento di detto personale assente e all’area di riferimento. Occorre invece che la specificazione raggiunga un livello tale da consentire al giudice di verificare il collegamento causale tra assenza e assunzione, esponendo, ad esempio, indicazioni circa la struttura, le dimensioni del luogo di lavoro e le esigenze specifiche di sostituzione del personale relativo allo stesso luogo (In tal senso Trib. Milano 14/10/2004).

La disciplina del contratto a termine, introdotta con il D. lgs. 368/200, pone, quindi, a carico del datore di lavoro, l’onere non soltanto di specificare a monte le ragioni del ricorso al contratto a termine, ma anche a valle, quando cioè le stesse vengano contestate, di dimostrarne la loro esistenza concreta. E’ stata dichiarata la nullità del termine in un’ipotesi in cui, pur ammettendo come fatto notorio il maggior flusso postale nel periodo natalizio, nulla era stato dedotto per dimostrare gli effetti di tale aumento nella sede in cui il lavoratore era stato assunto (In tal senso Trib. Milano 13/11/2003). Un’ulteriore ipotesi in cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’apposizione del termine con il conseguente accertamento della sussistenza di un ordinario rapporto a tempo indeterminato, è quella concernente la motivazione, addotta dal datore nella lettera di assunzione che, oltre ad essere stereotipata e ripetitiva, faceva riferimento a una pluralità di ragioni alternative.

L’alternatività delle ragioni giustificatrici vanificherebbe l’esigenza di specificità e, tutt’al più, il datore dovrebbe dimostrare e specificare congiuntamente tutte le ragioni previste, con riferimento a esigenze precise e dettagliate (In tal senso Trib. Milano 31/10/2003).

L’unica valutazione sottratta al controllo del giudice è quella inerente al merito della scelta, che rimane insindacabile poiché le scelte organizzative del datore di lavoro fanno capo al principio cardine in materia, quello della libertà dell’iniziativa economica privata, garantito costituzionalmente (art. 41 Cost.).

Riguardo la durata dei contratti a termine, il decreto legislativo 368/2001, in esecuzione di quanto previsto alla clausola 5 della direttiva comunitaria 1999/70/CE, che imponeva l’obbligo di prevedere una durata massima totale dei contratti a tempo determinato, stabilisce un termine massimo complessivo di tre anni e di cinque anni per i dirigenti (art. 4, comma 1 e art. 10, comma 4 del D. lgs. 368/2001).

In riferimento alla possibilità di rinnovare detti contratti o rapporti a termine, la Direttiva imponeva agli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, l’introduzione di misure relative a ragioni obiettive per giustificare il loro rinnovo nonché la determinazione del numero possibile dei loro rinnovi.

Il legislatore italiano, in applicazione di criteri ragionevoli e concordati con le parti sociali, ha innanzitutto ammesso, all’art. 4 del decreto 368/2001, la possibilità di una sola proroga del contratto a tempo determinato, sino al raggiungimento di una durata massima complessiva per l’intero rapporto di tre anni (cinque per i dirigenti), a condizione che ci sia, oltre al consenso delle parti, anche una ragione oggettiva che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto era stato stipulato. Sul punto, in una delle peraltro rare pronunce giurisprudenziali, si è precisato che le ragioni oggettive legittimanti la proroga devono consistere in circostanze sopravvenute rispetto al momento della stipulazione del contratto a termine originario. Deve, pertanto, ritenersi nulla la proroga motivata da ragioni già presenti ab inizio; nel caso di specie la durata del rapporto era stata determinata per un periodo inferiore all’aspettativa obbligatoria per maternità della lavoratrice sostituta e, alla scadenza, il contratto era stato prorogato con la motivazione del mero protrarsi dell’assenza (In tal senso Trib. Milano 31/3/2006).

La Direttiva 1999/70/CE obbligava gli Stati membri, sempre previa consultazione con le parti sociali, a stabilire a quali condizioni i contratti a tempo determinato dovessero considerarsi “successivi” ed a quali condizioni gli stessi dovessero essere ritenuti a tempo indeterminato.

L’art. 5 del decreto legislativo 368/2001 ha introdotto un “periodo di tolleranza” oltre la scadenza originaria del termine, durante il quale la prosecuzione del contratto è ancora ritenuta legittima; più in particolare, fino al decimo giorno successivo alla scadenza del termine originario il datore di lavoro ha l’obbligo di corrispondere il 20% in aggiunta alla retribuzione, mentre per ciascun giorno ulteriore la percentuale aggiuntiva diventa del 40% (art. 5, comma 1 del D.lgs. 368/2001).

Superato il periodo di 20 giorni (se l’originario contratto aveva durata inferiore a sei mesi) o 30 giorni (se invece l’originario contratto era superiore a sei mesi), il contratto si trasforma, ex nunc, in contratto a tempo indeterminato (art. 5, comma 2 del D. lgs. 368/2001).

Questa previsione mitiga il tenore tassativo della vecchia legge 230/1962 che prevedeva, in caso di continuazione del rapporto oltre la scadenza, la trasformazione in contratto a tempo indeterminato sin dalla data della prima assunzione.

Sono altresì previsti nella disciplina vigente, al fine di definire la “successione” di contratti, intervalli temporali (10 o 20 giorni a seconda della durata del primo contratto) che devono obbligatoriamente trascorrere prima di una nuova assunzione a termine e che, se non rispettati, generano la patologia della conversione del contratto a tempo indeterminato. Il dies a quo della conversione si calcola dalla data del secondo contratto stipulato, quando gli intervalli sopraindicati non vengono rispettati, mentre nel caso di due assunzioni a termine, senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ex tunc (art. 5, commi 3 e 4 del D. lgs. 368/2001).

Obiettive problematiche emergono dalla successione di contratti a termine, pur nel rispetto sia dei limiti complessivi di durata di ciascun contratto sia degli intervalli temporali previsti dalla legge, appena ricordati.

In linea teorica, potrebbe essere realizzata una successione sine die dei contratti a tempo determinato che, nella gran parte dei casi, configurerebbe una prassi diretta a raggirare fraudolentemente le prescrizioni sia della Direttiva che della legge vigente.

A tal proposito, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, con una recente sentenza, ha considerato che il potere discrezionale degli Stati di determinare il carattere “successivo” dei contratti a termine, non è illimitato, ritenendo non conforme alle finalità della normativa europea la legislazione nazionale che consideri “successivi” i contratti separati da un lasso temporale pari o inferiore a venti giorni lavorativi (In tal senso Corte di Giustizia C.E., sentenza 4/7/2006 C-212/04).

In conclusione, dalla breve analisi normativa e giurisprudenziale proposta, emerge l’inopportunità di qualsivoglia intervento restrittivo sulle ragioni legittimanti il ricorso al lavoro a tempo determinato, ma piuttosto la necessità di interventi mirati e chiari, diretti ad evitare una fraudolenta e illimitata reiterazione di detti rapporti. (Pubblicato sul Sole 24 Ore - Norme & Tributi in data 07/05/07)

Avv. Marco Emanuele Galanti

Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Marzo 2007] - Cumulabilità del ruolo di amministratore con quello di dipendente di società di capitale

La compatibilità tra la qualità di amministratore di società di capitali e di dipendente della medesima società è una tematica particolarmente complessa che nel tempo ha trovato diverse soluzioni nell’ambito giurisprudenziale.

Il fenomeno della coincidenza in capo ad un medesimo soggetto della duplice veste di amministratore e lavoratore subordinato ricorre ormai spesso, specie nelle imprese di rilevanti dimensioni, dove accade che la posizione di lavoro dirigenziale si affianchi all’attribuzione di incarichi di amministrazione.

L’atteggiamento della giurisprudenza più risalente nel tempo era di recisa negazione della possibilità di cumulare un incarico di amministratore con un rapporto lavorativo subordinato all’interno di una stessa società.

Nel corso degli anni ’50 tale indirizzo veniva tuttavia modificato dalla Suprema Corte, la quale affermava la non condivisibilità dell’aprioristica e indiscriminata negazione del cumulo ma la necessità di un esame caso per caso.

Negli anni seguenti si è andato affermando e consolidando l’orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla dottrina, che ammette in linea di principio la coincidenza in capo al medesimo soggetto della veste di amministratore e di lavoratore dipendente della società. Tale principio è stato anche ribadito da recenti sentenze della Suprema Corte, secondo cui non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo amministrativo e di gestione e quella di lavoratore subordinato (In tal senso Cass. 17 Novembre 2004 n. 21759).

L’esame della casistica giurisprudenziale, peraltro molto ampia, evidenzia che deve sussistere  una duplice condizione per la cumulabilità.

La prima condizione prevede la necessità di poter distinguere le mansioni correlate al rapporto di lavoro subordinato da quelle invece proprie della carica sociale; l’altra concerne la dimostrazione in concreto dell’esistenza della subordinazione.

Con riferimento alla prima condizione la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima ove sia accertato lo svolgimento di mansioni diverse dalle funzioni gestorie proprie della carica sociale rivestita. (In tal senso Cass. 11 Novembre 1993 n. 11119 e Cass. 12 Gennaio 2002 n. 329).

La seconda condizione prevede che la qualità di amministratore di società di capitali è cumulabile con quella di lavoratore dipendente allorquando sia individuabile la formazione di una volontà imprenditoriale distinta, tale da determinare la soggezione dell’amministratore ad un potere disciplinare e direttivo esterno. Tale situazione, a titolo esemplificativo non è stata accertata nel caso di amministratori che di fatto erano assoggettati al potere del Presidente del Consiglio di amministrazione, il quale prendeva decisioni senza mai interpellare gli altri membri del Consiglio che svolgevano la loro attività lavorativa nel rigoroso rispetto di orari di lavoro prestabiliti e secondo analoghe modalità rispetto agli altri lavoratori subordinati. Conseguentemente la qualifica formale di amministratori a detti soggetti costituiva uno “schermo” avente evidenti finalità elusive dell’obbligo contributivo e assistenziale proprio del lavoro subordinato (In tal senso Cass. 14 Gennaio 2000 n. 381). Il caso appena esaminato costituisce tuttavia un’esemplificazione limite che non esclude, come vedremo di seguito, la possibilità di cumulo degli incarichi in casi in cui l’assoggettamento al potere disciplinare e direttivo è molto più attenuato.

Nella casistica giurisprudenziale è ormai pacifica l’esclusione della configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato con la società, quando l’amministratore riveste la qualifica di amministratore unico. L’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione comporta infatti, ed in linea generale, l’impossibilità di configurare in capo all’amministratore un assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare altrui, requisito, come già detto, indispensabile per la qualificazione del rapporto in termini di subordinazione (In tal senso Cass. 24 Maggio 2000 n. 6819). Va per completezza ricordato che è comunque necessario accertare che l’amministratore unico eserciti effettivamente i relativi poteri in modo autonomo e non sia soggetto a determinazioni altrui figurando solo formalmente come unico amministratore (In tal senso Cass. 5 Settembre 2003 n. 13009).

Inoltre, di regola, è esclusa la coesistenza di un rapporto di lavoro subordinato con una carica di Presidente del Consiglio di amministrazione, salva l’ipotesi in cui la stessa carica venga attribuita ai soli fini di rappresentanza. In tale ipotesi non si esclude a priori la possibilità del cumulo degli incarichi (In tal senso Cass. 7 Marzo 1996 n. 1793). Tuttavia, la subordinazione del Presidente è stata esclusa nei casi in cui non è stata fornita la prova concreta dell’assoggettamento del medesimo ad un potere direttivo e disciplinare esercitato da altro organo sociale (In tal senso Cass. 29 Gennaio 1998 n. 894 e Cass. 19 Gennaio 2004 n. 11978).

Delineati, se pur brevemente, i casi più ricorrenti di incompatibilità degli incarichi, si ritengono opportune alcune considerazioni in relazione alle ipotesi di cumulabilità della carica di amministratore e lavoratore subordinato nell’ambito dei Consigli di amministrazione di società di capitali.

Di sicuro non tutti i componenti del Consiglio di amministrazione possono essere nello stesso tempo dipendenti della società: la direzione e il controllo sull’amministratore-dipendente sono garantiti proprio dalla collegialità dell’organo gestorio, mentre nell’ipotesi descritta verrebbe meno la distinzione tra soggetto controllante e soggetto controllato.

Sempre in tema, il caso più frequente risulta essere quello dell’amministratore di una società che svolge presso la stessa anche attività lavorativa in qualità di direttore generale o dirigente. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha confermato la natura subordinata del rapporto di lavoro di un Direttore Generale all’interno di una società, che impartiva quotidianamente ai dipendenti istruzioni sulla gestione tecnica e amministrativa della società, e che, come Consigliere di amministrazione, era assoggettato alle direttive del Consiglio di amministrazione, che assumeva tutte le decisioni finali, definiva i programmi di attuazione e gestione e ratificava l’operato del Direttore Generale (In tal senso Cass. 26 Settembre 2005 n. 18759). Non si riscontrano quindi, in linea generale, problemi di compatibilità degli incarichi nel caso del semplice consigliere di amministrazione non investito di particolari deleghe, di poteri gestori e di rappresentanza della società. (In tal senso Cass. 13 Giugno 1996 n. 5418).

La posizione più delicata è tuttavia quella dell’amministratore delegato.

Si può configurare di solito una coesistenza di rapporti tra il ruolo di amministratore delegato e quello di dipendente quando l’attività dell’amministratore delegato sia soggetta ad un organo esprimente la volontà imprenditoriale, esterno a lui, che eserciti poteri di controllo, comando e disciplina tipici del datore di lavoro e quando sostanzialmente la delega è marginale, limitata ad alcuni poteri di ordinaria amministrazione (In tal senso Cass. 12 Novembre 1990 n. 10900). Per contro, si è esclusa la possibilità di coesistenza dei rapporti nel caso di un  consigliere delegato la cui delega comprendeva poteri amplissimi di ordinaria e straordinaria amministrazione e nei confronti del quale non era stato provato l’esercizio di un potere di supremazia gerarchica e disciplinare. (In tal senso Cass. 8 Febbraio 1999 n. 1081). La coesistenza dei ruoli di amministratore e di dipendente è un fenomeno di particolare rilevanza all’interno dei gruppi.

La giurisprudenza di legittimità riconosce, in linea generale e ove sussistono particolari condizioni, la compatibilità tra la qualifica di amministratore e la qualifica di lavoratore subordinato nell’ambito dei gruppi.

Il caso più ricorrente è quello dei dirigenti di società controllanti che, nell’ambito del rapporto dirigenziale, vengono chiamati a svolgere funzioni di amministratore nelle società controllate.

In tali casi l’elaborazione sia della giurisprudenza che della dottrina consigliano un’adeguata disciplina del rapporto dirigenziale, in cui venga opportunamente e adeguatamente regolamentata la problematica attinente agli eventuali compensi dovuti al dirigente per l’espletamento delle funzioni di amministratore delle controllate, funzioni la cui onerosità è presunta ex lege, ai sensi e agli effetti dell’art. 1709 c.c. (onerosità del mandato).

Più in particolare è sicuramente opportuno che non ci si limiti nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato-dirigenziale a prevedere la cumulabilità dei ruoli ma anche a regolamentare la corresponsione, o meno dell’ulteriore compenso dovuto per la prestazione di amministratore.

Nel caso di assorbimento del compenso per la carica di amministratore nella retribuzione prevista per il rapporto dirigenziale, ovvero di non riconoscimento di alcun compenso, dovranno essere previste adeguate ed espresse forme di rinuncia a tale compenso (In tal senso Cass. 8 Novembre 2000 n. 14502).

In generale il cumulo dei rapporti viene attuato allo scopo di consentire al consigliere di amministrazione di fruire del trattamento previdenziale assicurato ai lavoratori subordinati, connesso per legge alla qualifica.

Non si può inoltre dimenticare la vasta casistica delle problematiche di natura previdenziale, correlate al disconoscimento da parte dell’I.N.P.S. del rapporto di lavoro dipendente in casi in cui non vi sia  una regolare costituzione  del rapporto dirigenziale, con conseguente annullamento della contribuzione, ovvero il rifiuto di eseguire la prestazione previdenziale.

L’ente previdenziale esclude la riconoscibilità di rapporto di lavoro subordinato e la conseguente assoggettabilità agli obblighi assicurativi nelle ipotesi in cui la carica amministrativa ricoperta non consente per la sua stessa natura la subordinazione. E’ questo il caso, come già accennato, del Presidente, dell’amministratore unico e in alcuni casi del consigliere delegato.

In uno specifico caso, l’Istituto previdenziale aveva ricevuto i versamenti contributivi senza nulla opporre alla società debitrice, comportamento equivalente a convalida tacita del rapporto. L’I.N.P.S. aveva successivamente annullato il rapporto assicurativo-contributivo ritenendo mancanti gli elementi tipici per la configurazione di un rapporto subordinato, avendo il dipendente ampi poteri all’interno del Consiglio di amministrazione e mancando altre figure gerarchicamente sopraordinate. La Corte di Cassazione ha precisato che, in linea generale, il rapporto contributivo ha natura pubblicistica e che l’I.N.P.S. ha il potere, quale P.A., di annullare d’ufficio in sede di autotutela, con efficacia ex tunc, il provvedimento di ammissione adottato “ab origine” in contrasto con la normativa vigente. Nel caso suddetto, il contrasto derivava dal difetto del presupposto della subordinazione (In tal senso Cass. 8 Febbraio 2000 n. 1399).

Secondo l’I.N.P.S., la valutazione riguardo il riconoscimento o meno del rapporto subordinato va fatto caso per caso, verificando la presenza di tutti i requisiti necessari, propri del rapporto di lavoro subordinato, sulla base di elementi quali:

- la percezione di una retribuzione di misura predeterminata il cui pagamento avvenga mediante uno dei sistemi previsti dalle norme in vigore per i lavoratori subordinati, retribuzione soggetta al regime fiscale applicato alla generalità dei lavoratori dipendenti;

- l’esistenza certa ed effettiva di controllo e di direzione da parte di organi sulla attività lavorativa del socio dipendente;

- le origini del rapporto di amministrazione in capo all’interessato, anche in relazione ai poteri attribuitigli dallo statuto o dall’atto costitutivo, o dagli altri organi sociali che lo abbiano chiamato in carica.

Trattasi nella sostanza di criteri, in linea di massima, analoghi a quelli adottati dalla giurisprudenza e già ricordati, che ammettono la configurabilità del cumulo degli incarichi in presenza di una subordinazione dell’amministratore, certa ed effettiva, ad un potere decisionale e disciplinare esterno.

Avv. Marco Emanuele Galanti

Studio Legale GGM & Partners

(Tratto al Sole 24 Ore –Norme e tributi del 26/01/2007)

[Gennaio 2007] - Licenziamento disciplinare del dirigente e relative garanzie procedimentali

Il licenziamento del dirigente d’azienda ha natura disciplinare se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole. In caso di licenziamento disciplinare del dirigente si applicano in linea generale le garanzie procedimentali dettate dall’art.7 della legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei lavoratori). Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, le garanzie suddette si applicano solo al dirigente appartenente alla media e bassa dirigenza (“dirigente minore” o “pseudo dirigente”),  escluso il dirigente apicale (“top manager” o “alter ego”) collocato al vertice dell’organizzazione aziendale (Cass. Sezioni Unite, 29 maggio 1995 n.6041; Cass. 8 novembre 2005 n.21673; Cass. 13 maggio 2005 n.10058). Si segnala tuttavia che la Corte, in una recente sentenza ha ritenuto applicabili dette garanzie a prescindere dalla specifica posizione del dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale (Cass. 2 marzo 2006 n.4614). In tale sentenza si superano quindi i dubbi interpretativi derivanti dalla distinzione, agevole in teoria ma non certo nella pratica, fra dirigenti di vertice dell’azienda (dirigenti apicali) e dirigenti appartenenti alla media e bassa dirigenza (dirigenti minori), distinzione frutto di una interpretazione giurisprudenziale che non trova alcun riscontro nella nozione unitaria di dirigente prevista sia dall’art. 2095 c.c. che dalla contrattazione collettiva di settore. La procedura garantistica prevista dall’art.7 della legge n.300/70 prevede la contestazione per iscritto, tempestiva e specifica oltre che immutabile dei fatti addebitati. La contestazione deve essere preventiva, stante l’impossibilità per il datore di lavoro di irrogare il licenziamento  prima di aver contestato l’addebito e di aver sentito l’interessato a sua difesa. Il dirigente, ricevuta la contestazione, ha l’onere di presentare al datore di lavoro, entro cinque giorni dal ricevimento della stessa, le proprie difese e giustificazioni, sia in forma scritta che orale, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale, chiedendo eventualmente, nell’ambito delle proprie giustificazioni scritte e nel termine a difesa suddetto, di essere sentito personalmente a discolpa. Ricevute le giustificazioni e comunque trascorsi 5 giorni dalla contestazione in assenza di giustificazioni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento disciplinare. Nelle more della procedura di contestazione disciplinare, il datore di lavoro può sospendere cautelarmente il dirigente: la sospensione cautelare non è un provvedimento disciplinare e non comporta la sospensione della retribuzione. La violazione delle garanzie suddette non comporta la nullità del licenziamento, ma l’impossibilità di tenere conto dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini della valutazione della sua giustificatezza e, quindi, dell’esclusione del diritto del dirigente all’indennità sostitutiva di preavviso e all’indennità supplementare (Cass. 13 maggio 2005 n.10058; Cass. 19 dicembre 1997 n.12902). Nella prassi molto spesso non è agevole stabilire con sicurezza se il dirigente ricopra o meno una posizione apicale; in tali casi è sicuramente opportuno che il licenziamento disciplinare venga in ogni caso comunicato nell’osservanza delle garanzie procedimentali di cui all’art.7 della legge n.300/70, a prescindere dalla posizione ricoperta dal dirigente nell’organizzazione aziendale.

Il licenziamento è ingiurioso quando, per la forma e le modalità della sua adozione e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, rappresenta un atto ingiurioso, cioè lesivo del decoro, della dignità e/o dell’onore del dirigente licenziato (Cass. 13 giugno 2005 n.12642; Cass. 14 maggio 2003 n.7479). Quindi, il licenziamento ingiurioso non è correlato alla motivazione dello stesso, ma bensì alla sua forma di adozione e di comunicazione. Ove il licenziamento rappresenti di per sé un atto ingiurioso, al dirigente spetta il risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa ex art.1226 c.c. (Trib. Milano 30 giugno 2003), purché il dirigente dimostri di aver subito  conseguenze pregiudizievoli, lesive sul piano sociale o morale (Trib. Milano, 31 ottobre 2001; Pret. Milano 31 maggio 1999). Il licenziamento ingiurioso può determinare due diverse forme di risarcimento del danno: quella relativa alla lesione dell’onore e del decoro; e quella, economicamente più rilevante, relativa alla lesione della reputazione e consistente nella conoscenza che i terzi abbiano avuto dei motivi di licenziamento (Cass. 1 aprile 1999 n.3147).

La categoria generale del licenziamento per motivo illecito comprende il licenziamento discriminatorio ed il licenziamento ritorsivo o per rappresaglia. Per licenziamento discriminatorio si intende quello intimato per ragioni di credo politico e fede religiosa, di razza, di lingua, di sesso (oltre che per  motivi di affiliazione o attivismo sindacale). Il licenziamento ritorsivo è invece da correlarsi a casi in cui il datore di lavoro receda dal rapporto di lavoro per reazione, rispetto a fatti o comportamenti del dirigente che risultino essere del tutto leciti e/o giustificati (esempio: licenziamento per ritorsione all’azione giudiziaria proposta dal dirigente). L’onere della prova circa l’esistenza del motivo discriminatorio, ritorsivo o comunque illecito di licenziamento grava sul dirigente e può essere assolto mediante una serie di elementi che, valutati complessivamente anche in relazione a comportamenti antecedenti o successivi all’atto di recesso, presentino tali caratteristiche di contraddittorietà, pretestuosità e slealtà da far intuitivamente ritenere discriminatorio il licenziamento (Trib. Genova, 17 novembre 1988). Il licenziamento discriminatorio, ovvero fondato su un motivo illecito,  ritorsivo o di rappresaglia, è affetto da nullità e comporta, anche per i dipendenti aventi qualifica di  dirigenti, le conseguenze previste dall’art.18 della Legge n.300/70 (reintegra nel posto di lavoro, risarcimento del danno, opzione per il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra). Non sono frequenti nella prassi i casi di declaratoria di nullità del licenziamento del dirigente e di conseguente applicazione della tutela reale prevista all’art.18 della legge n.300/70, stante l’obbiettiva difficoltà di fornire adeguata prova della sussistenza di motivi illeciti, ritorsivi o discriminatori.

L’impugnazione del licenziamento da parte del dirigente può avvenire mediante ricorso al collegio arbitrale previsto dalla contrattazione collettiva, ovvero, in alternativa, in via giudiziaria. Il ricorso al collegio arbitrale è soggetto al termine di decadenza di 30 giorni, decorrenti dalla data di ricevimento della comunicazione scritta di licenziamento (art.22 CCNL dirigenti aziende industriali e art.33 CCNL dirigenti aziende del terziario). L’azione giudiziaria di impugnazione del licenziamento, non è invece sottoposta ad alcun termine di decadenza, e può quindi essere esercitata entro il normale termine di prescrizione (quinquennale trattandosi di azione di annullamento ex art.1442 c.c.), in quanto il termine di decadenza di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento, previsto dall’art.6 della legge n.604/66,  è inapplicabile al dirigente (Cass. 15 febbraio 1995 n.1641; Cass. 10 aprile 1990 n.3023).

In caso di recesso del datore di lavoro o del dirigente  da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e salvo la ricorrenza di una giusta causa di recesso in tronco (art.2119 c.c.), la parte che recede deve dare all’altra il preavviso nel termine e nei modi previsti dalla contrattazione collettiva (art.2118 c.c.). In caso di licenziamento del dirigente, i termini di preavviso sono i seguenti:

- per i dirigenti delle aziende industriali (art.23 CCNL): 8 mesi per il dirigente con anzianità di servizio non superiore a 2 anni; un ulteriore mezzo mese per ciascun anno di anzianità ulteriore, sino ad un massimo di altri 4 mesi, per un totale di 12 mesi di preavviso complessivi.

- per i dirigenti delle aziende del terziario (art.33 CCNL) i termini di preavviso sono: 6 mesi fino a quattro anni di servizio; 8 mesi da più di quattro a otto anni di servizio; 10 mesi da più di otto a dodici anni di servizio; 12 mesi oltre i dodici anni di servizio.

Viceversa, in caso di dimissioni da parte del dirigente, i termini di preavviso vengono ridotti e sono i seguenti:

- il dirigente industriale dimissionario deve dare al datore di lavoro un preavviso pari ad 1/3 di quello previsto in caso di licenziamento (art.23 CCNL dirigenti aziende industriali);

- il dirigente del terziario dimissionario è tenuto al rispetto dei seguenti termini di preavviso (art.31 CCNL dirigenti aziende del terziario):  2 mesi  fino a 2 anni di anzianità; 3 mesi da due a cinque anni di anzianità; 4 mesi oltre cinque anni di anzianità.

Secondo l’orientamento prevalente (ma non univoco) in giurisprudenza, al preavviso si attribuisce “efficacia reale”, ossia si ritiene che il rapporto di lavoro prosegue a tutti gli effetti durante il periodo di preavviso e che, pertanto, durante il periodo stesso permangono tutte le reciproche obbligazioni delle parti, fra cui vengono in particolare rilievo l’obbligo di fedeltà e di non agire in concorrenza col datore di lavoro ex art.2105 c.c. (Cass. 6 febbraio 2004 n.2318; Cass. 30 agosto 2004 n.17334). Dalla natura reale del preavviso consegue che, per effetto della permanenza del vinculum iuris, il dirigente può fruire di eventuali miglioramenti retributivi, o di altro genere, introdotti nel frattempo dalla contrattazione collettiva e che la decorrenza del preavviso è sospesa in caso di malattia  e di infortunio del dirigente.

L’art.23 del CCNL dirigenti aziende industriali prevede che il computo dell’indennità sostitutiva di preavviso avvenga sulla base della retribuzione che il dirigente avrebbe percepito lavorando durante il periodo di mancato preavviso. Nel caso in cui al dirigente siano stati riconosciuti nel corso del rapporto premi, partecipazioni agli utili o provvigioni, soccorre la disposizione dell’art. 2121 c.c., secondo cui il calcolo dell’indennità di mancato preavviso deve essere fatto computando la media degli “emolumenti” degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato.

L’art.33 del CCNL dirigenti aziende del terziario prevede che l’indennità sostitutiva di preavviso va computata sulla retribuzione di fatto, comprensiva di tutti gli elementi fissi e della media del variabile degli ultimi tre anni (o del minor tempo di servizio prestato) per gli eventuali elementi variabili.

Qualora il licenziamento del dirigente risulti ingiustificato, ossia risulti privo del requisito della giustificatezza esaminato nel precedente articolo pubblicato su questo quotidiano il 23 ottobre 2006, la contrattazione collettiva prevede il diritto del dirigente al pagamento, a titolo risarcitorio, dell’indennità supplementare. L’indennità supplementare, graduabile in relazione agli elementi che caratterizzano il singolo caso (durata del rapporto, motivazioni del recesso e peculiarità del caso concreto), è compresa fra un numero minimo e massimo di mensilità di preavviso, variabile a seconda del contratto collettivo applicabile. Per il dirigente industriale l’indennità supplementare varia fra un minimo pari al corrispettivo del preavviso individuale maturato, maggiorato dell’importo equivalente a due mesi del preavviso stesso, ed un massimo pari al corrispettivo di 22 mesi di preavviso (art.19 CCNL dirigenti aziende industriali). L’indennità inoltre è automaticamente aumentata avendo riguardo all’età del dirigente licenziato, nelle misure previste dal relativo CCNL

Per il dirigente del terziario l’indennità supplementare varia fra un minimo pari alle mensilità di preavviso spettanti al dirigente in caso di licenziamento ed un massimo pari al corrispettivo di 18 mesi di preavviso (art.29 CCNL dirigenti aziende del terziario). L’indennità supplementare è automaticamente aumentata a favore del dirigente con età compresa fra 53 e 64 anni, purché con anzianità di servizio superiore a dieci anni, nelle misure previste dal relativo CCNL.

Il datore di lavoro ed il dirigente ben possono prevedere,  sia nei  contratti individuali di lavoro che in pattuizioni separate, speciali condizioni che assicurino al dirigente un trattamento migliorativo ai sensi dell’art.2077 c.c. Frequente  è la previsione secondo cui, in caso di dimissioni ovvero di licenziamento del dirigente successive ad mutamento dell’assetto proprietario e/o di controllo della società datrice di lavoro, il dirigente riceva un indennizzo fissato in anticipo dalle parti, in misura anche superiore alla sommatoria dell’indennità di mancato preavviso e dell’indennità supplementare, salva, ovviamente, la ricorrenza di ipotesi di messa in liquidazione o di assoggettamento del datore di lavoro a procedure concorsuali,  oltre che di recesso per giusta causa ex art.2119 c.c.

Avv. Marco Emanuele Galanti

Studio Legale GGM & Partners

(Tratto al Sole 24 Ore –Norme e tributi del 30/10/2006