[Luglio 2009] - Il Processo sommario si gioca il futuro alla prima udienza

di Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi*

Dal 4 luglio, data di entrata in vigore della riforma, per tutti i procedimenti di competenza del Tribunale in composizione monocratica, la parte che agisce in giudizio potrà scegliere se ricorrere ancora al “vecchio” schema processuale, contraddistinto da tempistiche solitamente molto lunghe, oppure se optare per il procedimento sommario, al fine di ottenere un provvedimento del Giudice in un arco di tempo “presumibilmente” molto più breve.

Il procedimento dovrà essere introdotto con ricorso ed il Giudice fisserà la data della prima udienza concedendo termine per la relativa notifica alla parte convenuta con un preavviso di almeno trenta giorni rispetto all’udienza medesima. La parte convenuta dovrà costituirsi in giudizio almeno dieci giorni prima della data d’udienza proponendo le più specifiche difese, prendendo posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicando i mezzi di prova e producendo i documenti di cui intende avvalersi.

Alla prima udienza, e fuori dai casi di incompetenza o inammissibilità dei ricorsi, al Giudice potrà prospettarsi uno dei seguenti scenari: a) la causa potrebbe rivelarsi “matura per la decisione”, con conseguente emissione del provvedimento conclusivo, mediante ordinanza provvisoriamente esecutiva; b) sulla base delle difese delle parti, potrebbe rivelarsi necessaria un’istruzione probatoria non sommaria, con conseguente “trasformazione” del processo da sommario a ordinario; c) potrebbe invece rivelarsi necessaria un’istruzione breve e sommaria, ed in tal caso il Giudice provvederà a raccogliere le prove, decidendo in seguito il giudizio.

 Ove, poi, solo le domande riconvenzionali della parte convenuta dovessero richiedere un’istruzione non sommaria, il Giudice potrà separare il giudizio “principale” da quello relativo alla riconvenzionale, decidendo il primo ed istruendo il secondo.

L’ordinanza conclusiva del procedimento sommario è appellabile entro il trenta giorni dalla sua notificazione o comunicazione. Nell’eventuale procedimento di appello possono essere ammessi solo mezzi di prova ritenuti rilevanti ovvero che la parte interessata non abbia potuto proporre in precedenza, per causa a lei non imputabile.

Una scelta prudente quella del Legislatore che, anziché ridurre la molteplicità dei riti, ha optato per un nuovo ed ulteriore rito sommario, che attribuisce al Giudice un’ampia discrezionalità per l’eventuale conversione in procedimento ordinario, introducendo così un ulteriore elemento di incertezza sulle potenzialità della novità di alleggerire i ruoli ed abbreviare  i tempi  delle cause.  E’ comunque ragionevole ritenere che almeno una parte dei procedimenti civili dovrebbe beneficiare di tempi più brevi. Occorrerà, tuttavia, che Magistrati ed Avvocati profondano il massimo impegno, per non vanificare gli aspetti positivi della riforma.

 I Magistrati dovranno evitare di fissare la prima udienza troppo distante dal deposito del ricorso e procedere alla trattazione conoscendo a fondo gli atti e i documenti di causa. Gli Avvocati, da parte loro, non dovranno abusare del nuovo strumento, ma utilizzarlo solo in presenza di fattispecie di rapida definizione:  in presenza di casi complessi e che richiedano un’ampia istruzione probatoria, si dovrebbe optare per il processo ordinario. Altrimenti si corre il rischio del deposito di un elevatissimo numerosi di ricorsi per procedimenti sommari, con effetti opposti a quelli perseguiti dal Legislatore.

I Giudici, infatti, potrebbero essere costretti a produrre un rilevantissimo, quanto inutile sforzo, necessario per esaminare, in tempi brevi, un’enorme quantità di atti e documenti, già in origine “destinati” a confluire in una diversa tipologia di processo. Non vi sarebbe, quindi, alcun effetto di razionalizzazione e smaltimento dei carichi pendenti, ma un ulteriore aggravamento di una situazione già critica. Inoltre, un utilizzo improprio del rito sommario potrebbe comportare un rilevante rischio per le i ricorrenti ed i loro legali, che potrebbero incorrere in una rapida soccombenza, ben difficilmente riparabile in appello, ove non potrebbero essere ammesse prove colpevolmente non richieste e/o fornite nell’ambito del procedimento sommario.

 Infine, va anche ricordato che la riforma, ha introdotto la possibilità per il Giudice di condannare la parte soccombente, per aver agito con mala fede o colpa grave, al pagamento, a favore di controparte, di una somma equitativamente determinata, e ciò anche indipendentemente da qualsivoglia prova di danno al riguardo. In casi estremi, quindi, potrebbe  verificarsi non solo l’ipotesi di reiezione dei ricorsi ma anche quella di condanna della parte ricorrente al pagamento sia delle spese di lite sia dell’ulteriore somma determinata secondo equità. 

Avv.ti Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi*

(Tratto dal Sole 24 Ore del 13/07/2009 – pag. 10 “norme e tributi”)
* Marco Emanuele Galanti – Fabio Meriggi
*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

Avv. Marco Emanuele Galanti

galanti

Consiglio dell’Ordine di Milano.

Iscrizione ad Albi speciali o Elenchi: Cassazione.

Settori di esercizio dell’attività professionale:

  • Appalti
  • Consulenza Legale (civile)
  • Consulenza Legale (societaria)
  • Contrattualistica
  • Diritto d’Autore
  • Diritto del Lavoro
  • Fusioni e Acquisizioni, Private Equity
  • Responsabilità Civile
  • Responsabilità Medica
  • Media e Tecnologie
  • Diritto di Famiglia

Nato a Milano in data 8 novembre 1954. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Milano dall’anno 1982 e all’Albo Speciale dei Cassazionisti dall’anno 1997.

A seguito dell’accesso al trattamento pensionistico di anzianità, alla fine dell’anno 2015 ha chiesto la cancellazione dagli Albi appena sopra indicati, continuando a svolgere attività esclusivamente in ambito consulenziale e stragiudiziale.

Membro co-fondatore dello Studio Legale Galanti Meriggi & Partners di Milano.

Esperienze significative:

- ha intrattenuto rapporti di consulenza con l’Unione Piccoli Proprietari Immobiliari, è stato collaboratore e articolista del Corriere Giuridico (edito da Ipsoa) nonché relatore in molteplici convegni sul tema della “responsabilità civile degli amministratori di società di capitali”;

- è stato autore del libro edito dal Sole 24 Ore/Pirola dal titolo “Amministratori di società di capitali e responsabilità civile”, edizioni 1997 e 1999;

- ha pubblicato, come autore/coautore, articoli e approfondimenti sul quotidiano “Il Sole 24 Ore” in tema di diritto del lavoro, societario/commerciale, fallimentare, d’autore e delle nuove tecnologie.

Nell’ambito della sua attività professionale ha consolidato una rilevante e pluriennale esperienza nella gestione di molteplici contenziosi in materia di diritto civile, d’autore, societario, della concorrenza, del lavoro, delle assicurazioni e della responsabilità civile medica e professionale.

Ha intrattenuto molteplici e pluriennali rapporti professionali con Enti operanti nel settore della sanità (Asl e Aziende Ospedaliere) e con società e gruppi sia nazionali che multinazionali operanti in diversi settori, fornendo assistenza professionale nell’ambito di operazioni straordinarie, di cessione di partecipazioni e/o di aziende nonché di consulenza operativa di supporto agli organi gestori e alla direzione del personale.

Avv. Fabio Meriggi

Consiglio dell’Ordine di Milano.

Iscrizione ad Albi speciali o Elenchi: Cassazione.

Settori di esercizio dell’attività professionale:

  • Consulenza Legale (civile)
  • Consulenza Legale (societaria)
  • Contenzioso (processo civile)
  • Contenzioso (processo societario)
  • Contrattualistica
  • Diritto d’Autore
  • Diritto del Lavoro
  • Locazione e Condominio
  • Privacy
  • Obbligazioni e Recupero Crediti
  • Responsabilità Civile
  • Responsabilità Medica
  • Successioni
  • Diritto di Famiglia

Nato a Milano il 21 novembre 1961, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Milano dall’anno 1994 nonchè all’Albo speciale degli Avvocati Cassazionisti dal 2006. Membro co-fondatore dello Studio Legale Galanti Meriggi & Partners.

Esperienze significative:

- nel patrocinio, nella gestione e nell’organizzazione del contenzioso in ambito civilistico/commerciale/societario, nel Diritto del Lavoro e d’Autore, in materia di responsabilità civile/medica e professionale nonché nel Diritto delle Locazioni e del Condominio ;

- nell’organizzazione e gestione massiva di pratiche di recupero crediti in ambito stragiudiziale e giudiziale, coordinando altri professionisti;

- nella consulenza stragiudiziale, nella predisposizione di contrattualistica di varia natura, in materia di Privacy e per la predisposizione di Modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D. Lgs. n.231/2001.

Ha prevalentemente operato a favore di primarie società di telecomunicazioni, discografiche, industriali e commerciali nonché di Aziende di Trasporti Urbani ed Aziende Ospedaliere e/o Socio Sanitarie Territoriali.

Co-autore di alcuni articoli sul quotidiano “Il Sole 24 Ore”.

Partecipazione come Relatore a Convegni sulla responsabilità professionale in ambito medico-sanitario (Legge Gelli/Bianco n. 24/2017) ed in materia di Privacy.

Iscritto all’Elenco dei delegati alle vendite nelle procedure esecutive immobiliari, presso il Tribunale di Milano.

[Giugno 2009] - La finanziaria non risponde per i vizi dei beni in leasing

di Marco Emanuele Galanti e Valentina Tafuro *

Il leasing, nel tempo assimilato da dottrina e giurisprudenza a diverse tipologie contrattuali, quali il contratto di finanziamento, la locazione ovvero la vendita con riserva di proprietà, è ancora tutt’oggi privo di una specifica e articolata disciplina civilistica.

Inoltre, si sono delineate particolari forme, come il leasing traslativo, il cui prevalente scopo è il trasferimento dei beni alla scadenza pattuita e quella del leasing di godimento ove, per contro, la principale funzione è il finanziamento al solo scopo di godimento dei beni, in quanto gli stessi alla scadenza, non conservano un apprezzabile valore residuale ai fini del riscatto (In tal senso Cass. n.13418/2008 e Cass. n.1715 del 2001).

Il contratto di leasing, in generale, è un’operazione finanziaria che, come noto, viene effettuata con il coinvolgimento di 3 soggetti: la società utilizzatrice che, con l’ausilio del fornitore e secondo le esigenze aziendali, sceglie il bene; la società finanziaria che, a seguito di un’attenta valutazione della proposta dell’utilizzatore, acquista il bene dal fornitore e lo concede in locazione finanziaria allo stesso utilizzatore, a fronte del pagamento di canoni periodici concordati e, infine, la società fornitrice che, vende il bene alla società finanziaria e lo consegna all’utilizzatore garantendogliene il godimento per tutta la durata della locazione.

Nel corso dell’esecuzione del contratto di locazione finanziaria, sia traslativo che di godimento, non di rado insorgono tra le parti problematiche relative sia alla mancata, parziale o ritardata consegna dei beni sia alla presenza di vizi e/o malfunzionamenti degli stessi.

Per quanto attiene le problematiche connesse alla consegna, è innegabile che nella quasi totalità dei casi e salvo rarissime eccezioni, la società finanziaria, prima di acquistare i beni, individuati dall’utilizzatore, si accerta che gli stessi siano stati effettivamente consegnati all’utilizzatore, al quale viene sottoposto uno specifico verbale con la sottoscrizione del quale lo stesso dichiara di accettare i beni nel loro stato di fatto e di funzionalità.

In tale contesto e in assenza di specifiche riserve nell’ambito del verbale di consegna, l’utilizzatore non potrà più opporre eccezioni attinenti alla consegna dei beni nei confronti della società di leasing, dovendo, per contro, continuare a provvedere al pagamento dei canoni dovuti in favore di quest’ultima (In tal senso Cass. n.14786/04 e Cass. n.20592/07).

Per quanto invece attiene le più numerose problematiche relative alla sussistenza di vizi dei beni concessi in leasing finanziario, si ribadisce che la società finanziaria non ha potere discrezionale in merito alla scelta dei beni che è interamente rimessa all’utilizzatore, il quale ne assume tutti i rischi (vd. art. 17 l. n.183 del 2/05/1976) e, che la stessa società finanziatrice, adempiuti gli obblighi di acquisto e di consegna dei beni e delle certificazioni ed omologazioni di legge, ove necessarie in relazione alla natura dei beni stessi, non ha più alcun ulteriore obbligo contrattuale da onorare.

Il fornitore, da parte sua, dopo aver incassato il corrispettivo per la vendita dei beni dalla società di leasing, avrà l’obbligo, di solito previsto in un separato contratto con l’utilizzatore, di garantire allo stesso nel tempo il godimento dei beni, fornendogli assistenza tecnica e manutenzione.

Chiarito in linea generale il quadro dei rispettivi obblighi contrattuali, che usualmente vengono assunti dalle parti coinvolte, è opportuno ricordare che un orientamento della Corte Suprema, ha ravvisato nel leasing finanziario, sia di godimento sia traslativo, un collegamento negoziale tra il contratto di leasing e quello di fornitura, in forza del quale l’utilizzatore, pur non essendo stato parte di quest’ultimo contratto, può esercitare in nome proprio le azioni derivanti dal contratto di fornitura nei confronti del fornitore (In tal senso Cass. n.17145/06).

Il fondamento di tale orientamento del Giudice di legittimità trae origine dalla norma sul mandato senza rappresentanza di cui all’art. 1705 cod. civ. unitamente alla disciplina contenuta nella Convenzione di Ottawa in tema di leasing internazionale, ratificata dalla legge n.259/1993, in particolare l’art. 10 della stessa Convenzione, che legittima l’utilizzatore ad agire nei confronti del fornitore.

Dal collegamento negoziale tra leasing e fornitura emerge la priorità dell’acquisto del bene (fornitura) rispetto al finanziamento (leasing), essendo il primo contratto strumentale al secondo, ovvero concluso allo scopo, noto al fornitore, di soddisfare l’interesse dell’utilizzatore al godimento del bene.

Dal momento che la società finanziaria non incide sulla scelta dei beni ed il suo unico obbligo è l’acquisto e la consegna degli stessi all’utilizzatore, appare chiaro che la responsabilità connessa ai vizi e malfunzionamenti dei beni o alla loro non corretta consegna, in presenza di un verbale debitamente sottoscritto, non possa ricadere su quest’ultima.

L’utilizzatore, peraltro, in relazione alle ipotesi delineate, non rimane privo di tutela, in quanto, per effetto dell’orientamento della Corte Suprema appena ricordato e condiviso anche dalla giurisprudenza di merito in recenti pronunce, ben potrà agire direttamente nei confronti del fornitore (In tal senso Trib. Milano n.9729 del 27/08/2007 e n.782 del 20/01/2009).

Tale soluzione appare coerente e condivisibile, in quanto tesa a evitare illegittime interruzioni dei pagamenti dei canoni da parte degli utilizzatori, maliziosamente giustificate da contestazioni attinenti il mancato godimento dei beni per cause non certo opponibili alle società di leasing.

In tali casi la società finanziaria avrà indiscutibilmente il diritto di risolvere il contratto di finanziamento per inadempimento dell’obbligazione di pagamento dell’utilizzatore pretendendo, da quest’ultimo, il pagamento dei canoni non corrisposti e di quelli ancora da corrispondere a titolo di penale ove la stessa non risultasse eccessivamente onerosa.

Si segnala infine che analoghi principi sono stati estesi dalla giurisprudenza di merito anche a figure contrattuali simili a quella del leasing quale ad esempio quella del contratto di noleggio (ord. del Trib. di Milano del 3/03/2009, sez. III, R.G.71074/08 e ord. del Trib. di Milano del 29/03/2009, sez. XI, R.G.72920/08).

* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore del 6/1/2009 – pag. 7)

* Marco Emanuele Galanti - Valentina Tafuro

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Maggio 2009] - L’ingiunzione ai morosi blocca la conciliazione

di Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi *

La crescita esponenziale delle ADR (Alternative Dispute Resolution) nel settore delle telecomunicazioni, più che raddoppiate dall’entrata in funzione dei Corecom (Comitati regionali per le comunicazioni) nel 2002, aveva evidenziato la necessità di una corretta interpretazione delle norme di riferimento a seguito dei dubbi riscontrati, specialmente con riguardo alla tipologia di controversie soggette al tentativo obbligatorio di conciliazione.

La criticità si era manifestata nel recupero dei gestori di servizi telefonici nei confronti degli utenti morosi, con riferimento a procedimenti come i decreti ingiuntivi, non emessi o sospesi in attesa della conciliazione, quando non revocati, in sede di opposizione, per improcedibilità dell’azione. La recente giurisprudenza sembra aver fatto chiarezza sul punto.

Le incertezze erano state originate dalla normativa (delibera n. 182/2002/CONS), che prevedeva l’assoggettamento al tentativo obbligatorio di conciliazione di qualsivoglia violazione di un diritto o interesse contemplati da un accordo privato o dalle norme in materia di telecomunicazioni di competenza dell’Autorità. Sulla base di tale disposizione pareva legittimo desumersi l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione per ogni controversia in materia di telecomunicazioni.

L’indeterminatezza normativa veniva poi attenuata dalla delibera 173/07/CONS, nell’ambito della quale venivano escluse dal tentativo di conciliazione le sole controversie attinenti al recupero di crediti relativi alle prestazioni effettuate, qualora l’inadempimento non fosse dipeso da contestazioni relative alle prestazioni medesime.

Secondo la delibera, l’utente finale non era tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali od opposizioni a norma dell’art. 641 Cpc. La ratio del nuovo intervento era quella di evitare di sottoporre ai Corecom tutti i casi di semplici riscossioni di crediti nei confronti di utenti morosi che non avevano proposto contestazioni. Nonostante i chiarimenti, permanevano dubbi in relazione alla possibilità di ricorrere all’ingiunzione di pagamento senza il preventivo tentativo di conciliazione, anche in presenza di precedenti contestazioni da parte degli utenti.

Dubbi in via di superamento alla luce di un recente orientamento del Foro di Milano, secondo cui l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione è esclusa per tutte le azioni proposte con decreto ingiuntivo dalle società di tlc nei confronti degli utenti inadempienti. Tale indirizzo ha trovato conferma nelle ultime sentenze di merito. In tali pronunce, le eccezioni preliminari, dirette ad ottenere una declaratoria di improcedibilità dell’intero procedimento per il mancato esperimento del tentativo di conciliazione, sono state respinte.

Secondo i magistrati, essendo la conciliazione avanti il Corecom prevista per le controversie tra utenti e soggetti autorizzati, deve ritenersi che l’applicazione della normativa sul tentativo obbligatorio di conciliazione riguardi solo procedimenti caratterizzati dalla necessità di un contradditorio inter partes, e non per quelli instaurati su ricorso di una delle parti, come nel caso del monitorio, in cui il contraddittorio è differito ed eventuale (Tribunale di Milano, Sezione XI Civile, n. 3383/09, 11 marzo 2009, conforme Tribunale di Milano n. 4236/09, 30 marzo 2009).

In base a tale orientamento verrebbe garantito il diritto degli utenti di manifestare le proprie ragioni, ben potendo quest’ultimi formulare eccezioni e contestazioni davanti all’autorità giudiziaria, in sede di opposizione. La soluzione adottata dal Tribunale di Milano risulta logica e condivisibile, soprattutto se si considera che assoggettare al tentativo di conciliazione qualsivoglia controversia tra società di telecomunicazioni e utenti, comporterebbe un afflusso abnorme di istanze ai Corecom, determinandone la sostanziale paralisi. Un orientamento contrario incentiverebbe le contestazioni mosse da intenti strumentali e dilatori, con una ricaduta negativa sulla qualità del lavoro svolto da tali organi e sui tempi di risoluzione delle controversie.

* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore del 4/5/2009 – pag. 6)

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Aprile 2009] - L’ingiunzione UE parte a metà

di Marco Emanuele Galanti e Renato Musella *

Nel dicembre 2008 è entrato in vigore il Regolamento n. 1896/2006, emanato dalla Comunità Europea in data 12 dicembre 2006, che, attraverso l’introduzione del procedimento di ingiunzione europeo, assicura alle imprese ed ai consumatori un nuovo strumento giuridico per la tutela sommaria dei propri diritti di credito.

Per la prima volta vengono introdotte delle norme processuali europee uniche, applicabili in tutti gli Stati della Comunità Europea, ad eccezione della Danimarca, che tenteranno di assicurare alle piccole e medie imprese, ed ai consumatori, uno strumento rapido e semplice contro i ritardati pagamenti.

Il procedimento di ingiunzione europeo non va a sostituirsi alle procedure previste dagli Stati membri, ma va ad integrare il quadro degli strumenti processuali dei singoli ordinamenti nazionali a disposizione di imprese e cittadini.

Nell’ambito delle controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale, a prescindere dall’entità credito, sarà infatti possibile scegliere se adire l’autorità giudiziaria per il recupero dei propri crediti, utilizzando gli strumenti giuridici nazionali ovvero l’ingiunzione europea, uno strumento armonizzato in tutta Europa e contraddistinto, sulla carta, da una indubbia semplicità ed economicità.

La procedura per l’ottenimento   decreto ingiuntivo europeo si basa sulla compilazione di una modulistica standard, allegata al Regolamento stesso, e non prevede, in linea teorica, l’obbligatorietà dell’intervento di un avvocato.

La domanda di ingiunzione viene proposta direttamente dalla parte utilizzando un apposito modulo (Allegato A del Regolamento medesimo) e deve contenere gli elementi necessari all’individuazione della controversia, nonché il suo carattere transfrontaliero.

Il ricorrente deve limitarsi ad indicare uno o più mezzi di prova a sostegno della propria domanda, senza necessità di produrre la relativa documentazione.

E’, quindi, sufficiente la mera elencazione dei fatti costitutivi del proprio diritto di credito e delle prove, per ottenere il decreto ingiuntivo.

Si tratta, di fatto, di un’“autocertificazione” della propria pretesa creditoria da parte del ricorrente, il quale, sempre all’interno della modulistica, dovrà dichiarare di fornire in coscienza ed in fede informazioni veritiere, riconoscendo che le dichiarazioni deliberatamente false e mendaci saranno punite in base alla legge proprio Stato membro d’origine.

Al riguardo, si rileva che, nell’ordinamento giuridico italiano, le parti del giudizio hanno il solo obbligo di rispettare un generico dovere di lealtà, ma non sono obbligate, per legge, a dire la verità. Ove il ricorrente indichi nel modulo circostanze false, o comunque non veritiere, potrebbe incorrere solo in una condanna ex art. 96 cod. proc. civ., per temerarietà della lite, nell’eventuale giudizio di opposizione in cui dovesse risultare soccombente.

Compilato il modulo contenente la richiesta di ingiunzione, il ricorrente deve procedere al suo deposito, che, in base all’attuale organizzazione dei nostri uffici giudiziari, dovrà per forza avvenire in forma cartacea, anche a mezzo posta raccomandata, senza l’obbligo di deposito in cancelleria.

Tuttavia, ad oggi, si sono manifestate molteplici problematiche organizzative per la maggior parte degli uffici giudiziari italiani relativi alle procedure di ricezione delle domande di ingiunzione europea.

Il Tribunale di Milano, ad esempio, richiede che il deposito del ricorso per decreto ingiuntivo europeo, anche qualora pervenga a mezzo raccomandata, segua l’iter previsto per il ricorso per decreto ingiuntivo ordinario e, pertanto, venga iscritto a ruolo.

Ma non solo. Alcuni Tribunali italiani richiedono anche il pagamento del contributo unificato, nonostante il Regolamento non preveda il pagamento di alcuna imposta di bollo. Una volta depositato il ricorso, il giudice ne esamina il contenuto. Trattasi di un controllo esclusivamente formale, senza alcuna valutazione di merito, neppure sommaria, diretto a verificare la regolarità e la coerenza dei dati riportati nel modulo di richiesta.

In caso di verifica positiva, il giudice emette il relativo ordine di pagamento entro 30 giorni dalla presentazione della domanda, utilizzando un apposito modulo standard, nel quale informa il convenuto che può pagare il ricorrente oppure può opporsi all’ingiunzione nel termine di 30 giorni dalla notifica, decorso il quale l’ingiunzione diverrà esecutiva.

La notificazione dell’ingiunzione di pagamento dovrebbe avvenire a cura della cancelleria dell’autorità giudiziaria competente.

Tuttavia, anche in questo caso le già ben note problematiche organizzative che affliggono gli uffici giudiziari italiani renderanno di difficile applicazione tale previsione, con la conseguenza che la notifica, nella maggior parte dei casi, sarà a cura del ricorrente.

A seguito della notifica dell’ingiunzione di pagamento, il convenuto può presentare opposizione direttamente all’autorità giudiziaria che ha emesso il decreto nei 30 giorni successivi, utilizzando un modulo standard, consegnato unitamente all’ingiunzione di pagamento europea.

Per quanto concerne i requisiti minimi dell’atto di opposizione, il convenuto deve indicare, oltre agli elementi indispensabili per l’individuazione del procedimento cui l’atto si riferisce, solo la dichiarazione che egli si oppone al consolidarsi dell’ingiunzione e che contesta il credito, senza riferimento alcuno alle ragioni per cui l’opposizione è proposta. Questa previsione lascia obiettivamente perplessi, soprattutto alla luce del fatto che, come già detto in precedenza, non è stata prevista nel Regolamento alcuna sanzione per le opposizioni infondate.

Nel caso in cui l’opposizione sia presentata tempestivamente, il procedimento prosegue secondo le norme di procedura civile ordinaria e vi è, quindi la conversione del rito europeo con quello ordinario interno; se, invece, il ricorrente lo abbia esplicitamente richiesto al momento della presentazione della domanda di ingiunzione europea, il procedimento si estingue ex lege in caso di opposizione.

Nell’ordinanza di conversione del rito, che deve essere comunicata al ricorrente, il giudice dovrebbe fissare la prima udienza di comparizione delle parti e trattazione, e, qualora il ricorrente abbia proposto personalmente il ricorso, il giudice, rilevato il difetto di rappresentanza tecnica, dovrebbe assegnare allo stesso un termine per costituirsi in giudizio mediante un difensore, oltre ad un termine per integrare la propria domanda originaria e produrre la documentazione necessaria.

Il giudice, nella stessa ordinanza, da notificarsi al debitore, dovrebbe, infine, assegnare un termine a quest’ultimo per costituirsi nelle forme di cui agli artt. 166 e 167 cod. proc. civ.

L’ingiunzione di pagamento europea, dichiarata esecutiva, è riconosciuta ed eseguita in tutti gli Stati membri della Comunità Europea, ad eccezione della Danimarca, senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che, salvo casi eccezionali, sia possibile opporsi al suo riconoscimento, anche se, poi, nella fase esecutiva, continuano a trovare applicazione le norme dello Stato in cui essa deve avvenire.

Per la prima volta la dichiarazione di esecutività di un provvedimento giudiziario resa in uno Stato membro avrà immediatamente valore in tutto il territorio europeo.

E’ evidente che il Regolamento costituisce il primo passo per la costruzione del diritto civile europeo, che consenta ai cittadini europei di poter avere una tutela giudiziaria uniforme nello spazio unico europeo.

Il procedimento di ingiunzione, per quanto in apparenza semplice, ha già presentato e presenta molteplici problematiche operative ed interpretative che andranno necessariamente risolte nell’ottica della costruzione del procedimento civile europeo.

* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore del 6/4/2009 – pag. 9)

* Marco Emanuele Galanti - Renato Musella

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Marzo 2009] - Un “patto” per chi lascia senza portare via affari

di Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi *

Il patto di non concorrenza torna di grande attualità. In un momento contraddistinto da una sensibile contrazione dei consumi di prodotti e servizi e da un innegabile incremento della mobilità dei dipendenti che rivestono, nell’ambito delle imprese, posizioni di rilievo nel settore commerciale, assume particolare importanza il tema del mantenimento delle quote di mercato acquisite.

La mobilità tra imprese concorrenti di personale qualificato addetto alle rete commerciale, in ogni settore, ed in particolare in quello della commercializzazione di prodotti e servizi, anche finanziari, può determinare vere e proprie fughe di clientela, con innegabili e negative ripercussioni sui fatturati.

Si ripropone quindi, con grande attualità, il tema della disciplina della concorrenza e, più specificamente, quello dei limiti alla concorrenza che possono essere imposti dalle imprese ai propri dipendenti, che svolgono la loro attività in posizioni strategiche e di rilievo nel settore commerciale, per il periodo successivo alla cessazione del loro rapporto di lavoro.

Il contesto normativo e giurisprudenziale è oggi in grado di offrire agli operatori un quadro sufficientemente chiaro e delineato in materia.

Mentre nel corso del rapporto di lavoro il lavoratore subordinato, indipendentemente dalla qualifica rivestita all’interno dell’organizzazione aziendale, è tenuto ad osservare l’obbligo di fedeltà e di non agire in concorrenza col datore di lavoro, secondo quanto previsto dall’art.2105 cod. civ.,   dopo la cessazione del rapporto di lavoro la concorrenza dell’ex dipendente può essere limitata soltanto mediante la stipula di uno specifico patto di non concorrenza, la cui disciplina è contenuta nell’art.2125 cod. civ.

Più in particolare, il patto di non concorrenza deve rivestire, a pena di nullità,  i seguenti requisiti:

- risultare da atto scritto (forma scritta ad substantiam);

- determinare limiti di oggetto, di luogo e di tempo all’obbligo di non concorrenza;

- attribuire al dipendente un corrispettivo per l’assunzione dell’obbligo medesimo.

La durata del patto, per quanto concerne i dirigenti, non può superare i cinque anni, mentre per le altre categorie di lavoratori la durata massima è di tre anni. Poiché la norma indica solo la durata massima del patto, il compito di circoscrivere il vincolo assunto dal dipendente in riferimento agli elementi normativi essenziali appena sopra richiamati è rimesso alla determinazione delle parti, salvo il controllo giudiziale di conformità al modello legale.

Soccorre al riguardo l’elaborazione giurisprudenziale, secondo cui il patto di non concorrenza può riguardare una qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto (in tal senso, App. Milano 17 marzo 2006; Trib. Torino 16 gennaio 2006; Trib. Ravenna 24 marzo 2005; conf. Cass. 10 settembre 2003 n.13282).

Il patto di non concorrenza è valido purché i vincoli di oggetto e di luogo lascino in concreto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita e sia previsto il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore (in tal senso: Trib. Torino 16 luglio 2007; Trib. Milano 12 luglio 2007; Tribunale di Milano 27 gennaio 2007; Cass. 4 aprile 2006 n.7835). L’ampiezza del vincolo deve essere tale da non comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita.

Inoltre, la validità del patto di non concorrenza dipende anche dalla indicazione di specifici e congrui limiti territoriali (al riguardo, Trib. Ravenna 24 marzo 2005 ha ravvisato l’autonomia del requisito dell’individuazione del confine territoriale, ai fini della valutazione sulla validità, o meno, del patto di non concorrenza). Il corrispettivo del patto di non concorrenza deve essere congruo rispetto al sacrificio richiesto e necessariamente determinato, o comunque chiaramente determinabile nel suo ammontare, al momento della stipulazione del patto (in tal senso, Tribunale Milano 19/3/2008 e Tribunale Milano 13/8/2007).

La valutazione sulla congruità del corrispettivo non può essere correlata a criteri generalizzati ed aprioristici ma deve essere invece attuata tenendo presenti le peculiarità di ciascun caso concreto. Il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato alla scadenza del patto ovvero alla cessazione del rapporto.

Sussistono incertezze in giurisprudenza, in relazione alla possibilità o meno di erogare il corrispettivo del patto, in costanza di rapporto (in senso affermativo, Tribunale Milano 27 gennaio 2007, Tribunale Milano 21 luglio 2005; in senso negativo, Tribunale Milano 19/3/2008, Tribunale Milano 13/8/2007).

Il patto di non concorrenza può essere sciolto solo per volontà di entrambe le parti, salvo l’inserimento di una clausola che preveda la facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, recesso che tuttavia può essere esercitato solo prima della cessazione del rapporto di lavoro (in tal senso, Cass. 16 agosto 2004 n.15952, App. Milano 12/4/2001 e Tribunale Milano 25/7/2000).

Va ancora rilevato che il patto di non concorrenza contiene spesso la previsione dell’applicazione di una penale, a carico del lavoratore, per il caso di sua violazione. La penale, se quantificata in modo eccessivo, può essere ridotta da parte del giudice. Al riguardo, in ambito giurisprudenziale è stato precisato che la valutazione della congruità o meno della penale deve tenere conto delle concrete ripercussioni della violazione del patto sull’equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta” (in tal senso, Cass. 4/4/2006 n.7835).

Da ultimo va ricordata la possibilità, per il datore di lavoro che abbia subito la violazione del patto di non concorrenza, di ricorrere all’autorità giudiziaria, anche in via d’urgenza, al fine di ottenere l’inibitoria allo svolgimento delle prestazioni lavorative presso il nuovo datore di lavoro. In relazione ai presupposti necessari per la concessione dell’inibitoria, e con particolare riferimento alla configurabilità del cosiddetto “periculum in mora”, sono ravvisabili due contrapposti orientamenti giurisprudenziali: un primo orientamento, meno rigoroso, ritiene sufficiente la prova della violazione del patto di non concorrenza; un secondo orientamento, più rigoroso, richiede anche la prova di un pregiudizio, ovvero di una perdita irreversibile di competitività sul mercato” (nel primo senso, Tribunale Milano 17/12/2001; nel secondo senso: Tribunale Milano 20/12/2002 e Tribunale Milano 16/7/2001).

* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore del 23/3/2009 – pag. 7)

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

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[Febbario 2009] - La responsabilità grave delle strutture sanitarie per l’operato dei medici

di Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi *

La responsabilità delle strutture sanitarie per l’operato dei medici è stata oggetto di ampia elaborazione giurisprudenziale. Se appaiono chiari i confini di tale responsabilità per gli enti pubblici, lo stesso non può dirsi per le strutture sanitarie private nel cui ambito, di solito, il paziente intrattiene due rapporti contrattuali: uno con il medico e l’altro con la struttura sanitaria. Vi sono poi casi più sfumati, nei quali il paziente intrattiene rapporti solo con il medico di fiducia che, direttamente, individua e contatta la struttura. In questi casi, le eventuali responsabilità del medico devono estendersi anche alla struttura privata? Sembrerebbe di no, considerando che l’errore del medico prescelto non dovrebbe coinvolgere la clinica privata, se questa ha correttamente effettuato le prestazioni di sua competenza. Gli stessi rilievi dovrebbero valere, a maggior ragione, nel caso di scelta della struttura privata ad opera del medico di fiducia del paziente e della sua diretta attivazione per programmare il ricovero ed effettuare l’intervento.

In realtà, la giurisprudenza delinea un quadro diverso. Con la sentenza 9556/02 della Cassazione, è stato affermato che il rapporto tra casa di cura e paziente consiste nella messa a disposizione di personale medico ausiliario e paramedico e nell’apprestamento dei medicinali e delle attrezzature necessarie, anche finalizzate ad affrontare eventuali complicanze. Più in particolare, secondo la Corte, nei “risch#i d’impresa” della clinica rientrerebbe anche quello della distribuzione delle competenze dei vari operatori, inclusi i medici non facenti parte dell’organizzazione aziendale, e quindi anche quello di eventuali danni derivanti dal loro operato.

Successivamente si è consolidato un orientamento ancor più chiaro nel configurare una responsabilità solidale della clinica. La Corte ha affermato che nel ricovero del paziente in una struttura, pubblica o privata, si configura un rapporto contrattuale tra le parti indipendentemente dall’esistenza di specifiche pattuizioni scritte al riguardo. Sulla base di tale premessa, per i danni causati dal medico è stata configurata una responsabilità solidale della struttura sanitaria. Più specificamente, tale responsabilità 2,5 a è stata ricondotta all’articolo 1228 del Codice civile secondo il quale «salva diversa volontà delle parti, il debitore che… si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro» (in tal senso Cassazione 13953/07).

Detti principi sono stati fatti propri dalle Sezioni Unite che hanno ritenuto irrilevante il fatto che il paziente si sia rivolto a una struttura del Ssn, convenzionata, privata, o a un medico di fiducia che abbia effettuato l’intervento presso quest’ultime. In questi casi è stata configurata la responsabilità contrattuale della struttura interessata (Cassazione S.U., 577/08).

Ne discende, quindi, un quadro particolarmente severo nei confronti delle strutture private e, nelle decisioni della Cassazione, non sembra esservi spazio per deroghe o eccezioni, nemmeno in presenza di casi-limite quale quello del medico di fiducia che  individui autonomamente la casa di cura privata ove effettuare l’intervento, senza avere con essa un rapporto di stabile collaborazione, e concordi direttamente con la stessa il ricovero e l’utilizzo delle strutture e del personale necessari.

In tale contesto, e ricordando che nel citato articolo 1228 viene fatta salva un’eventuale, «diversa volontà delle parti», occorre valutare se la responsabilità solidale della struttura privata, per l’operato del medico di fiducia del paziente, possa essere esclusa o attenuata, ricorrendo a specifici accordi. Pur essendo possibile ricorrere a pattuizioni scritte, la loro validità in un eventuale contenzioso sarebbe comunque da verificare. Al riguardo e come affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza 915/99), sia pur in diversa fattispecie, potrebbe essere ravvisata un’illegittima compressione del diritto costituzionalmente garantito alla salute.

Se è comprensibile la finalità di costituire la più ampia tutela giuridica in un ambito tanto rilevante, va tuttavia considerato che un’applicazione generalizzata e incondizionata delle conclusioni della Cassazione, che non tenga conto della peculiarità di ciascun caso e dell’impossibilità, per le strutture private, di poter prevenire danni al paziente per l’operato di un soggetto terzo da quest’ultimo prescelto, potrebbe dare origine a decisioni e conseguenze inique.

È quindi auspicabile che sul tema intervenga un’ulteriore elaborazione giurisprudenziale al fine di delineare un quadro più chiaro delle specifiche aree di responsabilità che tenga conto dei contenuti e delle dinamiche che caratterizzano i rapporti contrattuali intercorrenti tra le parti e, in special modo, della stretta correlazione tra il danno subito dal paziente e la sua effettiva causa.

* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore del 9/2/2009 – pag. 7)

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

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[Novembre 2008] - Vaglio di costituzionalità per la norma anti-precari

di Marco Emanuele Galanti e Paolo Poli *

La cosiddetta “norma antiprecari” (art.4 bis del decreto legislativo n.368/2001), introdotta dal comma 1 bis dell’art.21 della legge 6 agosto 2008 n.133 (in vigore dal 22/8/2008), di conversione con modifiche del decreto legge n.112/08 relativo alla “manovra d’estate”, dopo aver sollevato accese polemiche nei mesi scorsi, verrà sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, a seguito delle ordinanze di remissione di recente pronunciate dalle Corti di Appello di Bari e di Genova.

Nella sua formulazione originaria la norma antiprecari prevedeva l’applicazione in via stabile del principio secondo cui, in caso di violazione delle disposizioni relative all’apposizione ed alla proroga del termine (art.1,2 e 4 del D.Lgs. 368/2001), al lavoratore sarebbe spettato un indennizzo economico da 2,5 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, in luogo della conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato.

In sede di conversione in legge la suddetta disposizione è stata modificata, limitandone sensibilmente la portata, con l’introduzione di una norma transitoria (art.4-bis del D.Lgs 368/2001) di applicazione limitata ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione (22/8/2008) e fatte salve le sentenze passate in giudicato, che configura in buona sostanza una “mini sanatoria”.

Tale norma, come prevedibile, ha sollevato da subito dubbi di costituzionalità, di cui la stessa  giurisprudenza di merito si è fatta portavoce. In particolare, si segnala che la Corte di Appello di Bari ha sollevato la questione di costituzionalità della norma transitoria in esame (v. articolo pubblicato su Il Sole 24Ore del 27/9/2008), sospettata di violare il principio di uguaglianza e di ragionevolezza e di creare una notevole disparità di trattamento in situazioni identiche, a seconda che l’irregolarità del contratto a termine venga dedotta nell’ambito di un giudizio instaurato prima o dopo l’entrata in vigore della disposizione stessa.

Ulteriori dubbi di legittimità costituzionale sono stati di recente sollevati dalla Corte di Appello di Gevova (ordinanza del 26/9/2008) in riferimento alla violazione sia del principio di uguaglianza (art.3 Cost), che - e qui sta la novità - del principio secondo cui la potestà legislativa dello Stato deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale (art.117 Cost). Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, da parte della Corte genovese si è evidenziata una possibile violazione dell’art.6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4/11/1950 (resa esecutiva con L. 4 agosto 1955 n.848), laddove impone al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di controversie in corso.

La condivisibile esigenza di semplificazione e di riduzione del contenzioso che la norma antiprecari in esame dovrebbe conseguire rischia quindi di essere vanificata per effetto della possibile ed eventuale pronuncia di incostituzionalità della stessa, riconducibile alla disparità di trattamento che la stessa prevede, sottraendo al contenzioso i soli giudizi in essere ad una certa data.

Si è persa quindi l’occasione per introdurre in via stabile nel nostro ordinamento una differente disciplina a livello normativo delle conseguenze derivanti dalla violazione delle norme sul contratto a termine: prevedendo  in caso di contratto a tempo determinato con clausola del termine e/o  proroga illegittima (ad esempio per omessa o insufficiente giustificazione del termine e/o della proroga) un congruo indennizzo per il lavoratore,  al posto della conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato allo stato riconosciuta dalla giurisprudenza (v. di recente Cass. 21/5/2008 n.12985);  viceversa, riservando la sanzione della conversione del rapporto ai casi di violazione delle disposizioni tendenti a prevenire gli abusi derivanti dalla successione di contratti a termine (ad esempio in caso di reiterate assunzioni a termine del medesimo lavoratore, in cui può sorgere il sospetto di un abuso dell’istituto in questione).

Sarebbe pertanto auspicabile che il legislatore si sforzasse di cercare, nel confronto con le parti sociali, una convincente sintesi, per dare un assetto chiaro e definitivo alle norme sul rapporto di lavoro a termine,   nell’ottica della semplificazione e della certezza delle regole, al fine di ridurre per quanto possibile le problematiche di tipo interpretativo ed applicativo e, per tale via, anche il contenzioso.

* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners

(Tratto dal Sole 24 Ore del 3/11/2008 – pag. 7)

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

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[Aprile 2008] - La responsabilità degli amministratori privi di delega nella S.p.A.

La riforma del diritto societario, introdotta con il Decreto Legislativo 17/1/2003 n.6, ha profondamente innovato la disciplina relativa alla responsabilità degli amministratori di società di capitali. In particolare, per quanto concerne le società per azioni, in presenza di un organo amministrativo collegiale e di uno o più amministratori delegati (o di un comitato esecutivo), sono stati meglio delineati i criteri per determinare gli obblighi, e le conseguenti aree di responsabilità, degli amministratori muniti di delega e di quelli privi di delega. La disciplina previgente imponeva, anche agli amministratori sprovvisti di delega, un obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione della società. In caso di danni arrecati alla società per atti o omissioni degli amministratori provvisti di delega, quindi, l’area di rischio per gli amministratori “deleganti” era molto vasta, essendo correlata alla cosiddetta “culpa in vigilando”.

Con la riforma vi è stata un’indubbia restrizione del rischio di coinvolgimento degli amministratori sprovvisti di delega, nel senso sopra prospettato. La consapevolezza di tale restrizione, ove non sorretta da una sufficiente conoscenza delle previsioni e della portata delle nuove norme, potrebbe dar luogo, nella prassi, a comportamenti certamente non in linea con i criteri dettati dal Legislatore. E’ già stato peraltro riscontrato che i membri di consigli di amministrazione, sforniti di deleghe “operative”, mantengono - a volte - in tale sede, un contegno passivo, limitandosi a prendere atto delle relazioni periodiche degli organi delegati, nell’erronea convinzione che l’assenza di delega ed una superficiale valutazione di alcuni aspetti della gestione dell’attività della società, siano sufficienti a porli al riparo da qualsivoglia rischio. Ma detto convincimento è purtroppo smentito dalla realtà dei fatti stante la possibilità, per gli amministratori sforniti di delega e poco attenti e puntuali, di essere coinvolti in azioni risarcitorie anche di rilevantissimo contenuto economico. Venendo, in estrema sintesi, a trattare la nuova disciplina, va subito rilevato che norme fondamentali, in tema, sono contenute nell’art.2381 cod. civ. (commi 3°, 5° e 6°). Per quanto riguarda il consiglio di amministrazione, è previsto che esso: a) determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; b) può impartire direttive agli organi delegati o addirittura avocare a sé una o più operazioni rientranti nella delega; c) sulla base delle informazioni ricevute, deve valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; d) deve esaminare, se elaborati, i piani strategici, industriali e finanziari della società; e) deve valutare, sulla base delle relazioni degli organi delegati, il generale andamento della gestione. In merito agli organi delegati, è invece previsto che gli stessi: a) curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa; b) riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e comunque almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per dimensioni e caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate. In linea generale, infine, è stabilito che gli amministratori (tutti gli amministratori, siano essi muniti o privi di delega) devono necessariamente agire “in modo informato” e che ciascun amministratore, privo di delega, può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società (art.2381 ultimo comma cod. civ.). In tale contesto normativo, deve essere attentamente valutata la posizione dei membri del consiglio di amministrazione che siano sforniti di delega, al fine di determinare quando essi possano ritenersi immuni da responsabilità per danni che siano derivati da azioni e/o omissioni degli organi delegati. Il quadro delinato dal Legislatore della riforma è chiaro nel sottolineare la rilevanza dei flussi informativi tra organi deleganti ed organi delegati, così come è chiaro nell’escludere che un amministratore possa trincerarsi, sic et simpliciter, dietro l’assenza di delega per poter evitare che possano essergli imputati profili di responsabilità. Ciascun amministratore sfornito di delega è quindi tenuto ad attivarsi in modo adeguato, e con la necessaria frequenza, proprio al fine di ottenere che gli organi delegati forniscano al consiglio di amministrazione tutte le necessarie informazioni sulla gestione della società. Ciò non significa, naturalmente, che tale diritto/dovere debba essere esercitato in modo automatico e generalizzato, dovendosi invece far riferimento, a titolo esemplificativo e valutando caso per caso, alla complessità delle attività ed operazioni delegate o alla natura dell’attività esercitata dalla società interessata. Per escludere la responsabilità degli amministratori privi di delega, pertanto, potrebbe non essere sufficiente l’aver preso conoscenza delle relazioni periodiche degli organi delegati sul generale andamento della gestione, sulla sua prevedibile evoluzione o sulle operazioni di maggior rilievo. In primo luogo, perché la periodicità di tali relazioni potrebbe essere tale (ad esempio, semestrale) da determinare un’esigenza di acquisire informazioni in un periodo intermedio; in secondo luogo, perché le relazioni degli organi delegati potrebbero di per sé presentare lacune tali da non consentire un’adeguata informazione a favore degli amministratori privi di delega. Qualora, dall’acquisizione delle informazioni, possano essere ravvisati profili di censura sull’operato degli organi delegati, l’amministratore privo di delega che dissenta da tale operato, dovrà necessariamente esprimere tale dissenso, in modo tempestivo ed in sede consiliare, esigendo la relativa verbalizzazione scritta. Quest’ultima necessità viene peraltro confermata dal Legislatore che ha significativamente stabilito che gli amministratori sono solidalmente responsabili, nei confronti della società per danni alla stessa arrecata, se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto tutto quanto potevano per impedirne il compimento o attenuarne le conseguenze dannose (art.2392 2° comma cod. civ.).

Va altresì ricordato che le sostanziali differenze, tra la previgente e l’attuale disciplina normativa in tema di responsabilità degli amministratori privi di delega, sono state peraltro confermate dai primi orientamenti giurisprudenziali. In particolare, è stata sottolineata l’introduzione del nuovo criterio direttivo dell’”agire informato”, nell’ambito di un alleggerimento complessivo degli oneri, e delle conseguenti responsabilità, degli amministratori privi di delega, ma è stato anche chiaramente evidenziato che tale alleggerimento non deve far dimenticare che l’”agire informato” costituisce, non solo un potere, ma anche un preciso dovere dell’amministratore sfornito di delega (in tal senso: Cassazione n.23838 del 19/6/2007).

Nel valutare l’operato degli amministratori privi di delega, in presenza di atti od omissioni degli amministratori delegati che arrechino danno alla società, dovrebbe quindi accertarsi, caso per caso, se i primi si siano o meno adeguatamente attivati per acquisire ogni informazione utile, in relazione a particolari fasi della gestione ovvero ad uno o più specifiche operazioni. In caso negativo, ben potrà essere configurata la loro responsabilità. In caso affermativo invece, si dovrebbe verosimilmente valutare se gli amministratori delegati abbiano o meno riferito in modo completo ed esaustivo, al consiglio di amministrazione, quanto a loro richiesto. E, qualora ciò non sia avvenuto, si dovrebbe ancora valutare se le carenze o omissioni o inesattezze delle relazioni degli amministratori delegati avrebbero potuto essere o meno riscontrate dagli amministratori privi di delega, adottando una diligenza consona alla “portata” degli incarichi ed alle specifiche competenze di ciascuno di quest’ultimi. Qualora le carenze, omissioni od inesattezze imputabili agli amministratori delegati non potevano essere obbiettivamente riscontrate, la responsabilità degli amministratori sforniti di delega dovrebbe, in linea teorica, essere esclusa. Si tratta, evidentemente, di valutazioni estremamente delicate e certamente non facili, in considerazione delle diversissime e variegate fattispecie che potrebbero verificarsi in concreto. Spetterà naturalmente alla giurisprudenza di merito, come già avvenuto nel vigore della previgente disciplina, meglio delineare i criteri utili alla valutazione dell’operato degli amministratori privi di delega, per determinare quando possa essere effettivamente configurata una loro responsabilità per non avere agito “in modo informato”. (Pubblicato su “Il Sole 24 Ore del 21/04/08)

* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi

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