[Maggio 2001] - Recesso dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova

L’art.2096 3° comma del codice civile consente a ciascuna delle parti (datore di lavoro e lavoratore) di recedere dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova senza preavviso o indennità di sorta, salvo che sia prevista una clausola di durata minima garantita.

Secondo la giurisprudenza, il datore di lavoro che recede dal contratto in pendenza di prova non è tenuto a fornire motivazione alcuna di tale atto né a dimostrare il risultato negativo dell’esperimento della prova (salvo che si tratti di lavoratori invalidi assunti obbligatoriamente, Cass. 12 giugno 2000 n.7988), salva l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore, il quale ha l’onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in prova si è risolto in tempi e con modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto, modalità per il cui accertamento assumono rilievo determinante le clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 del codice civile.

Particolare rilievo assume l’adeguatezza della durata dell’esperimento: in caso di licenziamento del lavoratore prima della scadenza del periodo di prova, il sindacato giudiziale è limitato alla verifica dell’adeguatezza temporale della durata e della mancanza di motivo illecito. Si è affermato, infatti, che qualora il recesso intervenga molto prima rispetto al termine pattuito, grava sull’imprenditore l’onere di motivare le ragioni dell’anticipata valutazione negativa della prova.

Posto che lo scopo primario del periodo di prova sia quello di valutare l’idoneità professionale del lavoratore, è stato ritenuto illegittimo il recesso qualora la prova non sia stata diretta alla verifica delle capacità per le mansioni contrattualmente previste: questo vale sia nel caso di mansioni semplicemente diverse, sia, a maggior ragione, nel caso in cui il lavoratore venga chiamato a misurarsi con mansioni superiori a quelle stabilite.

Nel giudizio di idoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni a cui il patto di prova è preordinato rientra anche la valutazione della personalità del soggetto, potendo il datore di lavoro recedere dal rapporto in prova anche e semplicemente per il comportamento complessivamente tenuto dal lavoratore ed indipendentemente dalla capacità lavorative dimostrate.

Nel caso di assunzione obbligatoria di persona invalida ai sensi della L. 2 aprile 1968 n.482, la valutazione dell’esito della prova deve prescindere da ogni considerazione indotta dalla menomazione del lavoratore medesimo, nel senso che, qualora il datore di lavoro si determini al recesso per esito negativo della prova, i motivi al riguardo enunciati dovranno risultare tali da dimostrate che un esito siffatto non sia la semplice conseguenza dello stato di invalidità.

Lo sforzo interpretativo volto a conciliare diverse e contrastanti esigenze ha creato notevoli problemi in ordine alla individuazione dello strumento sanzionatorio da utilizzare di fronte ad un atto di recesso illegittimo del datore di lavoro durante il periodo di prova. La giurisprudenza di merito ha principalmente insistito sulla necessità di applicare alla fattispecie, ove consentito (datore di lavoro con più di quindici dipendenti), l’apparato garantistico di cui all’art.18 della Statuto dei Lavoratori, che prevede la sanzione della reintegra. In alcuni casi, infatti, si è stabilito che il rapporto debba essere svincolato dal patto e divenire definitivo ab origine; in altri casi, l’estensione temporale della reintegra è stata limitata al tempo necessario per la verificazione della capacità del soggetto; in altri casi ancora, si è sostenuto che dall’illegittimità del recesso debba derivare l’automatico superamento della prova, con obbligo di ripristino del rapporto di lavoro.

Questo orientamento è stato più volte avversato dalla Suprema Corte, la quale ha sottolineato come il recesso illegittimo del lavoratore in prova non rientri in nessuna delle ipotesi previste dall’art.18 dello Statuto sopracitato, non potendosi accordare al lavoratore ingiustamente estromesso una tutela contrastante con la funzione strumentale che il patto di prova riveste: si è stabilito che il lavoratore avrà diritto alternativamente alla prosecuzione del rapporto per il periodo di prova residuo oppure al pagamento delle somme che avrebbe percepito in quel periodo (Cass., 21 gennaio 1985, n.233; Cass., 22 ottobre 1987, n.7821).

STUDIO LEGALE GGM

[Maggio 2001] - Formazione e lavoro

CIRCOLARE N.22 APRILE 2001
FORMAZIONE E LAVORO: CONSIDERAZIONI SULL’ART. 3 DELLA LEGGE 863/84

Come è noto, il contratto di formazione e lavoro, è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 863/84 ma la normativa che lo regolamenta ha subito, nel corso degli anni, modifiche ed integrazioni tra le quali acquista rilevanza quella introdotta dall’art.16 della legge 19 luglio 1994, n.451 di conversione del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299.

Tale provvedimento stabilisce che possono essere assunti i giovani che, alla data della stipulazione del contratto di formazione e lavoro, abbiano un’età compresa tra i 16 e i 32 anni (originariamente il limite era compreso tra i 15 e i 29 anni art.3 l.863/94).

Il contratto di formazione e lavoro deve essere stipulato in forma scritta prima dell’inizio o contestualmente all’inizio del rapporto, pena la nullità e conversione ab initio del contratto di formazione e lavoro in contratto a tempo indeterminato (Cass. 16 gennaio 1993, n.531).

In particolare l’art.16 della legge 19 luglio 1994, n.451, disciplina due tipi di contratto di formazione e lavoro:

contratto di tipo A: mirato all’acquisizione di professionalità intermedie, con una durata massima di 24 mesi e l’obbligo da parte del datore di lavoro di eseguire ottanta ore di formazione teorica; oppure mirato all’acquisizione di professionalità elevata con durata massima di 24 mesi e 130 ore di formazione teorica;

contratto di tipo B: mirato ad agevolare l’inserimento professionale mediante un’esperienza lavorativa che consenta un adeguamento delle capacità professionali al contesto produttivo ed organizzativo, con una durata massima di 12 mesi e con una formazione minima non inferiore a venti ore.

La formazione deve riguardare la disciplina del rapporto di lavoro, l’organizzazione aziendale, la prevenzione ambientale e l’antinfortunistica. Tutto ciò deve essere inserito in un progetto, redatto dai datori di lavoro e approvato dalla Commissione Regionale per l’impiego e la preventiva approvazione costituisce un requisito di legittimità del progetto e del successivo contratto, la cui mancanza comporta la nullità del contratto di formazione e lavoro ai sensi dell’art.1418 c.c., per violazione di norme imperative e la sua conversione in contratto a tempo indeterminato.

All’assunzione con contratto di formazione e lavoro è collegata la specifica funzione di attuazione del progetto formativo contenente i tempi e le modalità di svolgimento dell’attività di formazione e lavoro (co.3 art.3 l.863/84).

La funzione formativa opera come causa del contratto non solo nella fase di svolgimento e attuazione del rapporto ma anche nella fase costitutiva negoziale, come condizione necessaria per la pattuizione tra le parti, in modo che la funzione formativa risulti concretamente dall’assetto contrattuale. Quindi, il momento significativo e distintivo del contratto di formazione e lavoro è rappresentato dalla funzione formativa e qualora questa manchi e se c’è inadempienza da parte del datore di lavoro si avrebbe la conversione ab origine del contratto di formazione e lavoro in contratto a tempo determinato (co.9, art.3, l.863/84). E’ pacifico, infatti, che “il contratto di formazione e lavoro costituisce una species del genus contratto a tempo determinato che si caratterizza in quanto la funzione formativa, non restando esterna allo schema causale del contratto, ma integrando il classico scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, permette di ravvisare una causa giuridica mista risultante dallo scambio fra lavoro retribuito e addestramento finalizzato all’acquisizione della professionalità necessaria al lavoratore per immettersi nel mercato del lavoro” (Corte Costituzionale 8 aprile 1993 n.149).

Nell’ambito del quadro generale brevemente ricordato, particolare rilevanza deve attribuirsi alle elaborazioni giurisprudenziali in relazione all’art.3 comma 9, l.863/84.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la sanzione della conversione del rapporto contrattuale di formazione in rapporto di lavoro a tempo determinato, non consegue a qualsiasi inosservanza del progetto di formazione, bensì solo a quelle violazioni che nell’economia del rapporto, rivestono un’obiettiva rilevanza anche in relazione alle finalità perseguite dalla speciale normativa e sono direttamente ascrivibili alla condotta volontaria del datore di lavoro debitore della prestazione. (In tal senso Cass. 30 agosto 1995 n.9182).

Secondo un più recente orientamento giurisprudenziale “una divergenza, anche di non lieve entità, fra obblighi previsti dal contratto di formazione e lavoro e concreto svolgimento del rapporto non realizza inadempimento del datore di lavoro sanzionabile con la conversione dello stesso in rapporto a tempo indeterminato, ove detto svolgimento avvenga con modo tali da non compromettere la funzione del suddetto contratto, che, diversamente dall’apprendistato, tende non già alla mera acquisizione della professionalità ma all’attuazione di una sorta di ingresso guidato del giovane nel mondo del lavoro”.

In relazione alla funzione del contratto di formazione una delle finalità del contratto è quella “di aiutare il giovane lavoratore ad abbandonare la mentalità scolare per acquistare quella lavorativa” (Cass. 9 febbraio 2001 n.1907), il che presuppone l’intervento del datore di lavoro che “assicura la realizzazione pratica della formazione professionale e nel frattempo l’inserimento dei giovani nell’impresa” (Corte Costituzionale 25 maggio 1987 n.190).

Alla luce di quanto sopra appare di tutta evidenza come la disciplina legislativa non ha previsto alcuna forma tipica e vincolante per lo svolgimento dell’attività formativa, ma si è limitata ad imporne la coesistenza con quella lavorativa sulla base di progetti di parte, approvati dalle Commissioni Regionali per l’impiego. In tale quadro quindi è stata l’elaborazione giurisprudenziale ad individuare le conseguenze connesse allo scostamento tra la formazione teorica prevista nel progetto e quella effettivamente eseguita nel corso del rapporto.

Si è così realizzato nella sostanza un non lieve ridimensionamento della disciplina dell’art.3 comma 9 l.863/84 che, come già accennato, stabilisce che “in caso di inosservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi del contratto di formazione e lavoro, il contratto stesso si considera a tempo indeterminato fin dalla data dell’instaurazione del primo rapporto”.

Ciò non deve tuttavia indurre il datore di lavoro a considerare il progetto di formazione come un elemento prettamente formale da dimenticare una volta avviato il rapporto di lavoro.

Imprescindibile rimane, infatti, il rigoroso rispetto dei limiti minimi imposti dalla legge, ossia una formazione minima di ottanta ore per i contratti di tipo A e, una formazione minima di venti ore per i contratti di tipo B.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

[Aprile 2001] - Cambiale: è indispensabile un firma leggibile

La Corte di Cassazione, con sentenza n.1058/2001, è tornata a pronunciarsi sull’annosa questione collegata alla formulazione dell’articolo 8 della legge cambiaria (R.d. 14 dicembre 1993, n.1669) allo scopo di stabilire se, nel caso di obbligazione assunta da una persona giuridica, la sottoscrizione di colui che la rappresenta debba essere apposta per esteso, in conformità a quanto previsto per le persone fisiche, o se invece sia ammissibile una sua sigla dopo la denominazione della società.

La Suprema Corte preliminarmente ha affermato che, senza una sottoscrizione leggibile, il documento non è utilizzabile neppure come promessa di pagamento ex art.1988 del Codice Civile perché non è riferibile ad alcuna persona determinata. Successivamente ha affrontato il punto focale della problematica ritenendo che, anche se l’art.8 della normativa sopracitata fa riferimento alla persona fisica e non menziona le società, nel caso di sottoscrizione del legale rappresentante di quest’ultima si debba seguire il criterio formale del disposto normativo. La motivazione a tale estensione appare evidente: la prescrizione contenuta nell’art.8 della legge cambiaria ha lo scopo di identificare il soggetto obbligato e ciò comporta che, nel caso di società, sia necessario identificare la persona fisica che si obbliga in nome della società con la riconoscibilità della sua firma.

La Suprema Corte sembra quindi condividere l’orientamento interpretativo che coglie nell’art.8 l.c. una prescrizione di rigore formale operante per ogni sottoscrizione cambiaria sia della persona fisica che si obblighi in proprio, sia della persona fisica che si obblighi, quale rappresentante, in nome altrui. In questa occasione la Cassazione ha precisato che nel negozio rappresentativo l’identificazione del soggetto obbligato avviene necessariamente attraverso l’identificazione della persona fisica che si obbliga in suo nome con la propria firma autografa “riconoscibile”. Tale orientamento fonda le sue motivazioni sull’impossibilità di attribuire idoneità identificante e funzione di spendita del nome alla riproduzione meccanica, che avviene solitamente con “timbro”, della ragione sociale o della denominazione della società, al di sotto della quale venga apposta una firma indecifrabile.

La Corte di Cassazione ha concluso affermando che l’art.8 l.c. riflette l’esigenza, insita nel carattere di letteralità e autonomia del titolo cambiario, di un requisito formale minimo per ogni sottoscrizione apposta sul titolo da colui che si obbliga in nome proprio oppure in nome altrui.

Alla luce delle riflessioni sopra esposte, coloro i quali intendano vedere soddisfatti i propri crediti attraverso l’uso della cambiale, dovranno accertarsi che la sottoscrizione apposta sul titolo di credito sia leggibile e per esteso, per evitare così spiacevoli sorprese in sede giudiziale.

STUDIO LEGALE GGM & Partners

[Aprile 2001] - Domain names: un aggiornamento

Si segnalano due importanti novità relative ai nomi di dominio registrati in Italia (quelli caratterizzati dal suffisso “.it”).

La prima riguarda l’assemblea Straordinaria tenutasi il 16 marzo scorso presso la sede Centrale del CNR a Roma, nella quale la Naming Authority Italiana, l’organismo che stabilisce le regole per la registrazione dei nomi a dominio, ha dato il via al suo programma di rinnovamento interno e nei rapporti con le istituzioni e le altre realtà della Comunità Internet in Italia.

Si ricorda che l’autorità di registrazione italiana ovvero la Registration Authority (R.A.) è demandata allo IAT (Istituto per le applicazioni telematiche) del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) con sede a Pisa. Allo IAT, costituito con provvedimento del 15 ottobre 1997 del Presidente del CNR, è stato affidato il compito di assegnare i nomi di dominio per il livello (Top Level Domain) “.it”, e di tenere i relativi registri. Le disposizioni che regolano l’attività dell’autorità di registrazione sono stabilite invece dalla Naming Authority Italiana (N.A.), organismo costituito da esperti del settore accademico e commerciale, e costituiscono la cd. “Regole di Naming”. Questi due enti sono autonomi l’uno dall’altro: il primo svolge funzioni operative (R.A), il secondo funzioni normative (N.A.) [1].

Nel comunicato stampa rilasciato a seguito dell’assemblea della Naming si legge: “In questi anni la Naming Authority ha visto modificarsi rapidamente, così come accade comunemente per le realtà legate ad Internet, la propria composizione interna: da una formazione dapprima puramente accademica, poi integrata dai soggetti del mondo Internet Commerciale e dai rappresentanti del settore giuridico, ora accoglie sempre più al suo interno anche le istanze del resto della comunità Internet, con particolare riguardo al mondo dell’utenza finale e dei nuovi canali di comunicazione multimediale, e rinnova al tempo stesso, la volontà di collaborazione con le pubbliche istituzioni per una migliore Internet governance nazionale.”

Il nuovo Comitato Esecutivo ha assunto anche il compito di modificare entro il ristretto tempo di pochi mesi lo Statuto della Naming Authority per adeguarla ad una ancora maggiore rappresentatività della comunità Internet italiana. Un dato importante contenuto nel comunicato corregge comportamenti ascrivibili alle passate gestioni della NA: “Tra le principali indicazioni, la creazione di uno staff interno, con compiti sia di supporto all’ordinaria amministrazione che di relazioni con l’esterno, l’educazione del pubblico tramite la diffusione delle informazioni corrette sui nomi a dominio e sulle loro problematiche, nonché una maggiore presenza ed attenzione verso gli organi di informazione.”

La seconda novità riguarda il protocollo d’intesa siglato, e pubblicato in questi giorni, tra InfoCamere e l’Istituto per le applicazioni telematiche del CNR (IAT).

InfoCamere, la società di informatica che gestisce i sistemi informativi delle Camere del Commercio, e lo IAT, organismo responsabile dell’assegnazione dei domini Internet con suffisso “.it” hanno sottoscritto detto protocollo finalizzato a semplificare il processo di assegnazione dei nomi a dominio Internet delle imprese italiane.[2] Pertanto, d’ora in poi, i due enti potranno confrontare i dati in loro possesso: in questo modo, da una parte, lo IAT potrà identificare con certezza le imprese che intendono registrare nomi a dominio (contribuendo così a prevenire possibili contese sulla scelta dei nomi), dall’altra, InfoCamere potrà annotare automaticamente nel REA (Repertorio Economico e Amministrativo collegato al Registro delle Imprese) i nomi a dominio assegnati alle imprese, secondo quanto previsto dalla normativa vigente.

I contenuti del protocollo si possono così riassumere:

1)      previsione di un collegamento telematico tra i data base di due enti;

2)      InfoCamere metterà a disposizione dello IAT l’accesso ai propri sistemi informativi per la determinazione delle priorità sull’uso dei nomi - siano essi ragioni sociali di imprese, marchi o brevetti ove se ne presentasse la necessità - nonché per la sicura identificazione delle imprese che intendono registrare i nomi di dominio;

3)      i nomi a dominio registrati verranno acquisiti da InfoCamere per l’iscrizione nel Registro delle imprese e nel REA (repertorio delle notizie economiche e amministrative), secondo le disposizioni contenute nel decreto del Ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato del 7 agosto 1998.

Il protocollo d’intesa è stato perfezionato in attuazione della normativa statale che prevede lo scambio di informazioni tra le pubbliche amministrazioni, ai fini della semplificazione amministrativa, anche con il collegamento dei rispettivi archivi informatizzati (vedi Testo Unico sulla documentazione amministrativa, in particolare l’art.43). Il trattamento dei dati personali oggetto dello scambio di informazioni è regolato dalla legge 675/96, art.20, comma 1, lett.b), ed e).

Il fatto che l’intesa sia stata siglata dal direttore dello IAT, che, come già detto, è l’ente al quale spetterebbe solo l’iscrizione e il controllo dei nomi di registro con il suffisso “.it” ha immediatamente suscitato aspre polemiche e reazioni negative all’interno della Assemblea della Naming, che in tale circostanza si è vista prevaricata dallo IAT. Inoltre, l’intesa tra due pubbliche amministrazioni, in attuazione di norme di legge, è estraneo alla tradizione dell’autogoverno della rete che si esprime nella Naming Authority.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte si evidenzia che se da una parte non vi è alcun dubbio che l’accordo mira ad impedire le speculazioni di chi registra un dominio altrui per poi rivenderlo all’azienda che ne è titolare (sopperendo in questo modo alla mancata approvazione dell’ormai tristemente noto disegno di legge Passigli), dall’altra è altrettanto innegabile che una posizione del genere si pone in netto contrasto con le scelte operate dagli altri Paesi occidentali e persino con le nostre regole di Naming.

Si ricorda che negli Stati Uniti, e fino ad oggi anche in Italia, l’assegnazione dei nomi di dominio è svincolata da controlli e regolamentata dal solo principio del “first come first served” per il quale il nome viene assegnato a chi per prima lo domanda, senza alcun tipo di indagine. La nuova procedura prevede invece un controllo ex ante mirante a selezionare i nomi da registrare su Internet, rischiando in questo modo di diventare una procedura troppo burocratica in netto contrasto con i principi che da sempre hanno caratterizzato lo sviluppo della Rete.

Studio Legale GGM & Partners

[1] Per maggiori informazioni sui ruoli e le funzioni della Ragistration Authority e della Naming Authority, nonché per la versione aggiornata delle regole di Naming, si consulti l’indirizzo www.nic.it.

[2] La versione integrale di tale protocollo si può trovare  sul sito www.interlex.it

[Marzo 2001] - Ferie non godute: grosse novità

Con sentenza n.2569/2001 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la validità del principio della “irrinunciabilità delle ferie”, già più volte ribadito anche dalla Corte Costituzionale, secondo il quale il lavoratore che, per motivi a lui non imputabili, non abbia potuto usufruire del periodo di riposo maturato e non praticato, ha diritto “all’effettiva fruizione delle stesse”.

La questione era stata sollevata da un lavoratore dipendente che si era visto negare tale possibilità dal Tribunale di Milano. Secondo il Tribunale, infatti, il diritto al godimento reale delle ferie si consuma se non fruito nell’anno di riferimento. Pertanto il diritto alle ferie si tramuta “automaticamente e irreversibilmente in diritto all’indennità sostitutiva trascorso il predetto periodo”.

Secondo la Cassazione tale decisione risulta essere in netto contrasto con il quadro normativo vigente e pertanto non può essere condivisa. I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che “il diritto alla fruizione effettiva del periodo feriale, non goduto nell’anno di riferimento per fatto imputabile al datore di lavoro, trova il suo fondamento nell’articolo 2058 c.c. che disciplina il risarcimento in forma specifica”. Pertanto devono, altresì, considerarsi nulle tutte le clausole collettive che, a fronte di tale evento, prevedano in via esclusiva l’indennità sostitutiva. Unica eccezione a tale principio deriva dalla concreta impossibilità del datore di far recuperare i giorni di riposo al lavoratore solo in caso di imprescindibili e comprovate esigenze aziendali. In definitiva, alla luce del nuovo orientamento della Cassazione, il lavoratore ha innanzitutto diritto al risarcimento in forma specifica. Tale diritto può tramutarsi in diritto al risarcimento per equivalente, solo ed esclusivamente, quando risulti eccessivamente oneroso per il datore di lavoro.

La decisione della Cassazione è senz’altro maturata da un’attenta analisi delle norme costituzionali (art.36) e del codice civile (art.2109) che tutelano il diritto al riposo configurandolo come un diritto irrinunciabile, nonché dalla crescente valorizzazione sociale che i lavoratori attribuiscono al tempo libero, considerato ormai come strumento di realizzazione e garanzia della dignità umana.

Studio Legale GGM

[Marzo 2001] - Cessione d’azienda: novità

Con decreto legislativo n. 18 del 2 febbraio 2001 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 43 del 21 febbraio 2001) il legislatore ha modificato l’art.47 della legge 428/1990, stabilendo che nei trasferimenti d’azienda il cedente e l’acquirente devono informare le rappresentanze sindacali “almeno 25 giorni prima che si sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che si sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti”. La normativa, così come modificata, si applica solo ed esclusivamente alle imprese sia cedenti che cessionarie che occupino complessivamente più di quindici dipendenti e anche nel caso in cui il trasferimento riguardi una ramo d’azienda. La nuova disposizione precisa i due parametri che delimitano la decorrenza dell’obbligo di informazione, già previsto dalla direttiva UE 98/50, individuandoli nell’atto di trasferimento o nell’intesa vincolante. Ma proprio quest’ultimo parametro lascia molto perplessi in quanto, dal punto di vista giuridico, potrebbe provocare non poche difficoltà interpretative circa il momento effettivo del perfezionamento di un’intesa vincolante e quindi riaprire il dibattito all’interno della dottrina e della giurisprudenza circa il momento in cui sorge l’obbligo di informazione. È opportuno ricordare che la direttiva UE 98/50 all’art.6 stabilisce che il cedente “è tenuto a comunicare (…) ai rappresentanti dei suoi lavoratori in tempo utile prima dell’attuazione del trasferimento”, mentre il cessionario “è tenuto a comunicare (…) ai rappresentanti dei suoi lavoratori in tempo utile e in ogni caso prima che i suoi lavoratori siano direttamente lesi dal trasferimento nelle loro condizioni di impiego e di lavoro”; il legislatore italiano sembra, dunque, essere andato oltre le direttive generali previste dall’art.6 della direttiva UE 98/50, costringendo cedente e cessionario ad aprire la fase di consultazione sindacale almeno 25 giorni prima che si sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante. La norma prevede tempi stretti e ben precisi per la conclusione della procedura sindacale e, comunque, la consultazione si deve ritenere conclusa se, trascorsi 10 giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo. Il mancato rispetto dell’obbligo di comunicazione previsto dall’art.2 del decreto legislativo n.18/2001 costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art.28 della legge n.300/70.

Il decreto legislativo 18/2001 prevede, inoltre, sostanziali modifiche dell’art.2112 del Codice Civile. In particolare, viene precisato (al comma 5 del nuovo testo) che l’oggetto del trasferimento d’azienda è rappresentato da “un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. Il legislatore in questo caso supera la nozione di azienda dettata dall’art.2555 del Codice Civile: la novità consiste proprio nella configurabilità di trasferimento d’azienda anche nell’ipotesi di un’attività esercitata senza scopo di lucro.

Un’ulteriore modifica è stata apportata dalla nuova formulazione del comma 3 dell’art.2112 del Codice Civile che, conformandosi alle recenti pronunce giurisprudenziali[1], conferma l’obbligo del cessionario dell’azienda, o di un suo ramo, di applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salva l’ipotesi di sostituzione automatica del contratto collettivo della cedente ad opera di quello applicato dall’impresa cessionaria. Tuttavia, tale ultima previsione lascia un margine d’incertezza nel punto in cui si precisa che “l’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello” ed è prevedibile che tale incertezza darà luogo a molteplici contenziosi interpretativi. Inoltre, l’art.1 del decreto legislativo n.18/2001 stabilisce che, ferma restando la facoltà da parte dell’alienante di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’impresa non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Tale disposizione, che peraltro era già prevista dal comma 4 dell’art.47 della legge 248 del 1990, viene così ricondotta alla sede propria dell’art.2112 del Codice Civile. La novità introdotta dalla norma, in questo caso, consiste nella possibilità per il lavoratore di rassegnare le dimissioni per giusta causa ex art.2119 del Codice Civile, qualora intervengano sostanziali modifiche delle condizioni di lavoro nei tre mesi successivi al trasferimento.

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[1] Vedi Sentenza del Tribunale di Milano n.1612 del 24/02/96 e Sentenza della Cassazione Civile n.9545 del 08/09/99.

[Marzo 2001] - Firma elettronica e firma digitale

La rapida evoluzione tecnologica e il carattere globale di Internet hanno reso necessario un approccio aperto da parte delle autorità europee alle varie tecnologie e ai relativi servizi. Di qui il proliferare di iniziative europee  in tema di commercio elettronico, che ormai si susseguono dall’aprile del 1997[1], data in cui la Commissione europea presenta una prima comunicazione in materia. Strettamente collegato al tema del commercio elettronico, perché destinato all’autenticazione dei dati, è quello delle firme elettroniche. La funzione principale della sottoscrizione in forma elettronica è, tecnicamente prima che giuridicamente, quella di assicurare l’autenticità oggettiva e la veridicità del contenuto del documento sottoscritto, oltre a quella di garantire la riferibilità soggettiva. La situazione di divergenza tra gli Stati membri sulle norme in materia di riconoscimento giuridico delle firme elettroniche e di accertamento di prestatori di servizi di certificazione, rappresentava un grave ostacolo all’uso delle comunicazioni elettroniche. Per rafforzare la fiducia nelle nuove tecnologie e la loro accettazione generale è scesa nuovamente in campo Bruxelles che, con la direttiva europea n.93/99 ( pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee L 13 del 19 gennaio 2000), definisce il quadro giuridico per il riconoscimento in tutta l’Europa delle firme elettroniche. La direttiva chiarisce le specifiche e i requisiti minimi che le firme elettroniche e i servizi di certificazione devono rispettare, nell’ottica di assicurare un livello minimo di sicurezza e di garantire il corretto funzionamento del mercato interno. Gli elementi principali della direttiva sono:

-  riconoscimento giuridico della firma elettronica;

- libera circolazione nel mercato interno dei prodotti e dei servizi legati alle firme elettroniche;

-  responsabilità del fornitore dei servizi di certificazione in merito a validità e contenuto dei certificati, attestanti la validità e l’autenticità della firma elettronica,  forniti al pubblico;

-  disciplina della certificazione al pubblico dell’identità del firmatario;

-  riconoscimento delle firme elettroniche a prescindere dalla tecnologia usata;

- previsione di meccanismi di cooperazione con i Paesi terzi (extra CEE), sulla base del mutuo riconoscimento ovvero di accordi bilaterali o multilaterali.

A partire dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, gli Stati membri dispongono di diciotto mesi  per recepire il contenuto della direttiva. È bene tenere presente che la direttiva non è diretta ad armonizzare le normative nazionali sui contratti, in particolare in materia di conclusione ed esecuzione dei contratti, o altre formalità concernenti l’apposizione della firma digitale. I criteri armonizzanti relativi agli effetti giuridici delle firme elettroniche dettati dalla direttiva manterranno difatti un quadro giuridico coerente in tutta la Comunità, ma sarà il diritto nazionale a stabilire i differenti requisiti per la creazione di una firma sicura, giuridicamente equivalente alla firma autografa e a definire i campi giuridici in cui possono essere impiegati documenti elettronici e firme elettroniche. Al fine di contribuire all’accettazione generale dei metodi di autenticazione elettronici, l’Unione europea ha invitato gli Stati membri a garantire che le firme elettroniche possano essere utilizzate come prove nei procedimenti giudiziari  in tutti gli Stati membri, nonché ad assicurare che i prestatori di servizi di certificazione osservino la legislazione nazionale in materia di protezione dei dati e della vita privata degli individui. La rivoluzione tecnologica non si limiterà a investire unicamente  il mondo delle imprese, ma alla firma elettronica farà largo ricorso anche il settore pubblico nell’ambito delle amministrazioni nazionali  e comunitarie.

Come sottolineato in precedenza, il legislatore comunitario lascia agli Stati membri il compito di regolamentare in dettaglio l’utilizzo della firma elettronica. L’Italia, in anticipo rispetto a molti altri Paesi europei, ha provveduto a questo compito con i seguenti provvedimenti:

-  la legge 15 marzo 1997 n.59 art.15 (meglio conosciuta come legge Bassanini) che, per la prima volta, afferma il principio della piena validità del documento informatico, rinviando alla fonte regolamentare il compito di fornire le condizioni tecniche e giuridiche  che soddisfano il requisito di certezza  nell’attribuzione di ogni documento al suo autore;

-  il Dpr 10 novembre 1997 n.513, che dà in parte attuazione alla predetta disciplina;

- il Dpcm 8 febbraio 1999, che fissa le regole sulla validità dei contratti on line e sulla certificazione della firma elettronica.

È opportuno ricordare che la firma elettronica rappresenta un genus di cui la firma digitale è una species. La firma digitale è definita come il risultato della procedura informatica basata su un sistema a chiavi asimmetriche a coppia, una pubblica e una privata, che consente al sottoscrittore tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento elettronico. Le norme del codice civile riguardanti l’efficacia, anche probatoria, degli atti e dei documenti redatti su carta, prescrivono delle condizioni di forma, al solo scopo di rendere validi e rilevanti gli effetti che le informazioni contenute su supporto cartaceo producono. Utilizzando questa chiave di lettura si comprende l’importanza delle regole che il legislatore italiano ha reso completamente disponibili nel corso del 1999, relative ai criteri da seguire per la formazione, l’archiviazione e la trasmissione  di documenti con strumenti informatici e telematici. Come già anticipato, il procedimento informatico in grado di generare, apporre e verificare una firma digitale  è un meccanismo di crittografia a chiavi asimmetriche. Chi intende firmare elettronicamente un documento in formato elettronico, deve disporre di una “coppia di chiavi di cifratura”, una pubblica e una privata, correlate tra loro. La coppia è generabile da un software specifico. Dal documento da firmare si deve ricavare un’impronta di qualche centinaio di bit con un algoritmo di compressione. L’impronta del documento è quindi cifrata con la chiave privata, conosciuta solo dal sottoscrittore, ottenendo un altro insieme di bit che costituisce la firma digitale. La firma digitale, così ricavata, non è unica anche utilizzando la stessa chiave privata ma varia al variare del documento firmato, costituendo, quindi, una sorta di “sigillo elettronico” dello stesso documento. Per verificare l’autenticità del documento occorre che la firma digitale, il documento elettronico e l’algoritmo per produrre la sua impronta siano disponibili al momento della verifica, anche se possono essere veicolati da messaggi diversi. La verifica consiste nel decifrare, tramite la chiave pubblica, la firma digitale e nel confrontare il risultato ottenuto con l’impronta del documento. Se i due insiemi di bit coincidono, si può essere certi dell’integrità del documento. Infatti, anche la modifica di un solo bit determina un diverso valore dell’impronta che non coinciderà più con la decodifica della firma digitale. Solo il possessore della chiave privata accoppiata con la chiave pubblica utilizzata per la verifica può aver firmato e quindi generato il documento scambiato. È necessario però che qualcuno certifichi l’identità del soggetto titolare della coppia di chiavi. Questo compito è demandato a speciali enti – le “Autorità di certificazione” – che hanno anche il compito di garantire l’unicità della coppia di chiavi e la loro validità e di gestire speciali registri, consultabili per via telematica, contenenti le chiavi pubbliche dei soggetti titolari delle stesse chiavi. Senza l’Autorità di certificazione tutto il processo descritto diventa impraticabile. Le regole tecniche e i requisiti organizzativi per dare piena attuazione  al regolamento sono appunto stati definiti dal Dpcm 8 febbraio 1999. Con il sistema delle chiavi asimmetriche è anche possibile garantire la riservatezza delle informazioni scambiate. Come già anticipato, la firma elettronica non ha nulla a che vedere con una “firma” riprodotta digitalmente, ma è uno strumento che consente di riconoscere a chi riceve un messaggio per via telematica chi è l’autore del messaggio. In altre parole, la firma elettronica consente uno scambio d’informazione con controllo automatico della genuinità della fonte di origine del messaggio stesso. Si comprende facilmente come lo sviluppo dello specifico strumento consente di effettuare, con lo strumento della telematica, transazioni che in precedenza dovevano essere concluse solo di persona e con l’incontro effettivo delle parti contraenti.

Si ritiene opportuno evidenziare la battuta d’arresto che il documento informatico ha subito, in Italia, a seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, in data 25 agosto 2000, del Testo Unico sulla documentazione amministrativa. Tale provvedimento legislativo dovrebbe mettere definitivamente ordine nel caotico settore delle carte, dei fascicoli, dei faldoni che ingombrano spesso disordinatamente gli uffici pubblici, e regolare una volta per tutte lo scambio di documenti all’interno dell’amministrazione e tra questa e i cittadini. Infatti, il Testo Unico disciplina la formazione, la trasmissione e l’archiviazione dei documenti, lo scambio degli stessi tra le diverse amministrazioni, l’accesso da parte dei cittadini, il protocollo e via discorrendo. Tuttavia, il Testo Unico dà per scontato l’uso della carta d’identità elettronica e, naturalmente, della firma digitale, che è l’elemento essenziale per l’efficacia legale dei documenti. Una lettura non superficiale del testo rivela incongruenze e lacune che potrebbero sortire effetti opposti a quelli sperati. Il primo elemento, e forse il più rilevante, che salta all’occhio è il recepimento, con poche ma non trascurabili differenze, dell’intero testo del D.P.R. 513/97, abrogato dall’art.75. La conseguenza sembra gravissima: le regole tecniche (Dpcm 8 febbraio 1999) previste dall’art.13 del D.P.R.513/97, sono automaticamente abrogate, ma non sostituite in alcun modo né fatte salve da altre disposizioni. In questo modo si verifica un vuoto normativo tale da rendere inoperante tutto il sistema della firma digitale, fino all’emanazione delle nuove regole previste dall’art.8 del Testo Unico, per le quali, per di più, non si detta un termine certo. La situazione è talmente disarmante da portare ad una riflessione:  “o chi ha scritto questo testo non sa nulla di firma digitale, o si tenta di affossarla deliberatamente”[2]. Nonostante la battuta d’arresto, i lavori diretti alla creazione delle infrastrutture idonee alla diffusione della sottoscrizione elettronica non sembrano fermarsi. Infatti, l’Unappa (Unione nazionale professionisti pratiche amministrative), che rappresenterà lo sportello periferico di Infocamere per quanto riguarda la firma digitale, ha firmato con Infocamere una convenzione che riconosce all’Unione il ruolo di tramite per tutte le questioni attinenti alla sottoscrizione elettronica. Probabilmente per veder “decollare” la firma elettronica in Italia bisognerà attendere la fatidica data del 19 luglio 2001, entro la quale il nostro Legislatore dovrà procedere all’emanazione di una normativa di recepimento della direttiva 1999/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche.

STUDIO LEGALE G.G.M.

[1] Il 15 aprile 1997 la Commissione ha presentato al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni una comunicazione intitolata “Un’iniziativa europea in materia di commercio elettronico”, relativa ad un’iniziativa europea in materia di commercio elettronico; l’8 ottobre 1997 la Commissione ha presentato al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni una comunicazione intitolata “Garantire la sicurezza e l’affidabilità nelle comunicazioni elettroniche”.

[2] Vedi Cammarata M., Così si distrugge il documento informatico, pubblicati il 14/09/2000 sul sito www.interlex.it

[Febbraio 2001] - Addetti ai videoterminali

NEWS N.7 del 09.02.2001

Addetti ai videoterminali: la legge comunitaria 2000 estende la tutela per tutti i lavoratori

L’art.21 della legge comunitaria 2000 introduce  rilevanti novità per quanto attiene alla tutela della salute dei lavoratori addetti ai videoterminali, in attuazione dei principi affermati nella sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 12 dicembre 1996.

Per effetto delle modifiche apportate  al D.Lgs 626/94, tutti i lavoratori  che utilizzano un’attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali (in precedenza per almeno quattro ore consecutive giornaliere) sono soggetti a sorveglianza sanitaria.

Detta sorveglianza consiste in visite periodiche di controllo, con cadenza biennale per i lavoratori classificati come idonei con prescrizione e per quelli che abbiano compiuto il 50° anno di età; quinquennale negli altri casi.

Tutti i posti di lavoro in cui vi sono lavoratori addetti all’uso dei videoterminali  devono essere sottoposti a valutazione del rischio specifico, con riguardo ai rischi per la vista e per gli occhi, ai problemi di postura e di affaticamnento fisico e mentale, alle condizioni ergonomiche e di igiene del lavoro, più specificamente indicate nell’allegato VII del D.Lgs 626/94.

[Febbraio 2001] - Intenet: protezione del consumatore

CIRCOLARE N. 15 FEB 2001

INTERNET: PROTEZIONE DEL CONSUMATORE NELLA COMUNITA’
Regolamento (Ce) n.44/2001

Già nel 1968 gli Stati membri della Comunità Europea avevano concluso la Convenzione di Bruxelles concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale in vista della creazione del mercato comune e per facilitarne il funzionamento. Successivamente, tale Convenzione è stata modificata dalle convenzioni di adesione degli Stati che si sono aggiunti alla Comunità, adottando, tra l’altro, un protocollo di interpretazione e includendo alcune deroghe.[1] Nella realtà dei fatti, però, la Convenzione è stata ratificata solo da alcuni Stati membri con la conseguenza che per più di trent’anni non è entrata formalmente in vigore in Europa. Il 16 gennaio scorso, con il Regolamento n.44/2001, il Consiglio Europeo ha dato il via al cosiddetto processo di “comunitarizzazione” della Convenzione introducendola nell’ordinamento comunitario. Le nuove competenze dell’Unione europea in materia di giustizia e affari interni, infatti, danno al Consiglio la facoltà di adottare (all’unanimità su proposta della Commissione e dopo consultazione del Parlamento europeo, secondo quanto stabilito dall’art. 65 del Trattato) le norme miranti a facilitare la creazione di uno “spazio europeo della giustizia” dove la libera circolazione delle decisioni riguardanti le controversie in materia civile e commerciale sia garantita e applicata in maniera trasparente.

Il nuovo Regolamento è una norma direttamente applicabile ed entrerà in vigore in tutto il territorio europeo nel marzo del 2002: tale scelta legislativa è dipesa dalla volontà della Commissione di stabilire omogeneamente, con un atto giuridico comunitario cogente e direttamente applicabile, le norme riguardanti una materia così importante per la libertà, la sicurezza e la giustizia di tutti i cittadini europei evitando allo stesso tempo i tempi lunghi che una direttiva avrebbe comportato per il recepimento della normativa nei singoli Stati.

Il nuovo regolamento riprende in generale le disposizioni della Convenzione di Bruxelles concernenti la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Allo stesso tempo prevede alcuni aggiornamenti in determinati settori tra cui:

·        i contratti di assicurazione;

·        i contratti individuali di lavoro;

·        i contratti conclusi dai consumatori.

In particolare nella IV sezione del regolamento intitolata “Competenza in materia di contratti conclusi dai consumatori” all’art.15 è espressamente previsto che la competenza in materia di contratti conclusi da una persona, il consumatore, per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale è disciplinata dal regolamento:

a)      qualora si tratti di una vendita a rate di beni mobili materiali;

b)      qualora si tratti di un prestito con rimborso rateizzato o di un’altra operazione di credito, connessi con il finanziamento di una vendita di tali beni;

c)      in tutti gli altri casi, qualora il contratto sia stato concluso con una persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette, con qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri nell’ambito di dette attività.

Proprio in virtù da quanto previsto al punto c) dell’art.15 risulta evidente che la nuova normativa disciplina anche i contratti conclusi tramite Internet, costituendo pertanto un precedente giuridico di fondamentale importanza per il nuovo fenomeno del commercio elettronico.

In particolare il regolamento prevede espressamente  che nel caso in cui vi siano delle controversie tra un fornitore di beni o servizi domiciliato in un altro Stato membro ed il consumatore, quest’ultimo ha la facoltà di scegliere se ricorrere contro l’altra parte nello Stato del suo domicilio o in quello del domicilio del fornitore (1° comma dell’art.16). Il secondo comma dell’art. 16 invece prevede che l’azione proposta contro il consumatore può essere proposta solo davanti ai giudici dello Stato membro nel cui territorio è domiciliato il consumatore.

Il regolamento (art.17) prevede altresì delle deroghe a tali disposizioni solo nei casi in cui vi sia una convenzione:

a)      posteriore al sorgere della controversia, o

b)      che consenta al consumatore di adire un giudice diverso da quelli indicati nel regolamento (ad esempio un arbitrato), o

c)      che stipulata tra il consumatore e la sua controparte aventi entrambi il domicilio o la residenza abituale nel medesimo Stato membro al momento della conclusione del contratto, attribuisca la competenza ai giudici di tale Stato membro, sempre che la legge di quest’ultimo non vieti siffatte convenzioni.

La scelta legislativa di adottare disposizioni più favorevoli a favore del consumatore deriva dalla necessità di dover assicurare una maggior tutela al soggetto che agendo al di fuori della propria attività professionale risulta essere innegabilmente la parte più debole del contratto. Tale scelta di principio applicata al commercio elettronico ha immediatamente sollevato un forte dibattito tra le istituzioni europee ed alcune parti interessate.

Infatti, se da una parte si rende necessaria assicurare una maggior tutela al consumatore che acquista in Rete, dall’altra vi è il serio rischio da parte delle aziende che praticano il commercio on-line di poter essere chiamate in giudizio da un qualsiasi tribunale nel territorio della UE.

Questa circostanza potrebbe in futuro condizionare fortemente le imprese interessate al commercio elettronico e portare a minori investimenti di capitali nel nuovo mercato. Inoltre, davanti alla seria possibilità di dover affrontare eventuali procedimenti all’estero con le conseguenti spese legali, i soggetti più danneggiati risulterebbero essere quelle piccole e medie imprese che, non avendo i mezzi e la struttura necessaria, si troverebbero nell’impossibilità di proporre i propri prodotti in Rete.

A questo proposito è stato precisato che la disciplina comunitaria deve essere applicata solo nei casi di utilizzazione attiva di Internet, e cioè solo quando l’offerta di determinati beni e servizi risulti inequivocabilmente rivolta ai consumatori di un determinato Paese e non per la mera circostanza che quel sito sia raggiungibile da un determinato Paese. Ne deriva che gli operatori commerciali possono esercitare la facoltà di restringere le proprie offerte, attraverso dei “disclaimers” (avvertenze), solo ai consumatori domiciliati in alcuni Stati membri. In tale maniera non solo risulta più facile stabilire quali norme devono essere applicate in caso di contestazione, ma si ha la certezza di richiamare solo ordinamenti giuridici di cui si è già a conoscenza.

Si ricorda che il Regolamento CE n.44/2001 entrerà in vigore solo nel marzo del 2002 e che la Commissione sta già svolgendo tutta una serie di attività (lancio di progetti pilota, consultazioni tra le parti interessate e dibattiti con i Governi dei Paesi membri) per trovare metodi alternativi di risoluzione delle controversie legate al commercio elettronico che possano meglio adattarsi alle esigenze di questa particolare disciplina.

In ogni caso, considerata la complessità e la costante evoluzione della materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Studio Legale GGM

[1] Il 16 settembre 1998 tra gli Stati membri e gli Stati EFTA viene conclusa anche la Convenzione di Lugano concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Detta convenzione è parallela alla convenzione di Bruxelles.

[Febbraio 2001] - Accordo quadro Ces, Unice e Ceep

CIRCOLARE N.16 FEBB. 2001

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DIRETTIVA RELATIVA ALL’ACCORDO QUADRO CES, UNICE E CEEP SUL LAVORO A TEMPO DETERMINATO: QUANDO SARA’ RECEPITA IN ITALIA?

L’art. 139 del Trattato che istituisce la Comunità Europea (paragrafo 2) disciplina che le parti sociali possono richiedere congiuntamente che gli accordi a livello comunitario siano attuati da una decisione del Consiglio per proposta della commissione.

La direttiva 99/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 attua l’accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 tra UNICE (Unione delle confederazioni dell’industria e dei lavoratori d’Europa), CEEP (Centro europeo dell’impresa pubblica) CES (Confederazione Europea dei sindacati).

Nell’accordo sono previste le condizioni d’occupazione dei lavoratori a tempo determinato compreso quelli stagionali, con l’esclusione dei lavoratori assunti tramite agenzia interinale.

L’accordo intende migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il rispetto del principio di non discriminazione, nonché prevenire gli abusi risultanti dall’utilizzazione dei contratti.

A tal proposito, l’accordo prevede che gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e tenendo conto delle esigenze dei settori e/o categorie dei lavoratori, introducano delle norme che:

- giustifichino i rinnovi dei contratti a tempo determinato;

- indichino la durata massima dei successivi contratti e il numero dei rinnovi.

Inoltre nella clausola n.7 del presente accordo è stabilito che i datori di lavoro facilitino l’accesso dei lavoratori a tempo determinato, nella misura del possibile, ad opportunità di formazione così da migliorare le competenze professionali, lo sviluppo della carriera e la mobilità occupazionale.

“Gli Stati membri e/o le parti sociali possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite dall’accordo” (clausola otto).

Questo è il contenuto della direttiva che deve essere recepita entro il 10 luglio 2001.

In Italia le parti sociali si sono incontrate per pervenire ad un accordo ma la prima riunione che si è tenuta il 31 gennaio 2001 è stata rinviata per consentire ulteriori approfondimenti sull’argomento.

Sembra che vi siano stati dei disaccordi tra Confindustria, CISL e UIL da una parte e la Cgil dall’altra riguardante, la durata massima dei successivi contratti a tempo determinato e il numero dei rinnovi.

Posto che ciò può implicare un ritardo sul recepimento della direttiva, poiché in cinque mesi deve essere stipulato prima l’accordo tra le varie parti sociali e successivamente tale accordo deve essere attuato dal Governo, l’Esecutivo attuerà la direttiva anche in mancanza di un accordo.

STUDIO LEGALE GGM