[Dicembre 2001] - Le nuove regole sui contratti a tempo determinato

D. Lgs. N. 368 del 6 settembre 2001

Con  l’entrata in vigore della riforma del contratto a tempo determinato, introdotta dal D. Lgs. n. 368/01, in attuazione della direttiva 1999/70/CE, le aziende potranno operare all’interno di un rinnovato quadro legislativo per stipulare accordi a termine. La legge n. 230/62 che costituiva precedentemente la disciplina di riferimento del contratto a termine è abrogata.

La nuova normativa attribuisce agli imprenditori la possibilità di utilizzare uno strumento contrattuale che non è più un’eccezione rispetto al rapporto subordinato a tempo indeterminato, ma rappresenta una tipologia contrattuale autonoma praticabile in tutti quei casi in cui sussistano “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

In armonia con le disposizioni comunitarie anche il nostro mercato del lavoro si adegua a quei parametri di flessibilità sui quali puntare per il rilancio dell’occupazione.

TUTTE LE NOVITA’ SULLA RIFORMA

·        Eliminato il ruolo marginale rispetto al contratto a tempo determinato

L’art. 1 sancisce il principio secondo il quale il termine può essere apposto al contratto di lavoro non più in via d’eccezione ma ogniqualvolta sussistano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

- Esempio di ragioni tecniche sono quelle per le quali il datore di lavoro si trova nella necessità temporanea di dover assumere personale specializzato per un determinato lavoro che i dipendenti in forza non sono in grado di poter svolgere.

- Le ragioni produttive ed organizzative ricorrono quando ad esempio il datore di lavoro assume nuovo personale per far fronte a temporanee situazioni di mercato o per commesse eccezionali.

- Relativamente al concetto di sostituzione dei lavoratori non vi sono dubbi d’interpretazione, i limiti per l’utilizzo del contratto a tempo determinato sono quelli previsti dall’art.3,  che verranno di seguito meglio precisati.

Sempre l’articolo 1 stabilisce che l’apposizione del termine è inefficace se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto con l’indicazione espressa delle ragioni di stipula.

La norma prevede anche l’obbligo per il datore di lavoro di consegnare al lavoratore una copia del contratto, sottoscritta da entrambe le parti,  entro cinque giorni decorrenti dall’inizio della prestazione lavorativa; la forma scritta del contratto a termine può essere omessa quando la durata del rapporto di lavoro è puramente occasionale e non supera i 12 giorni.

·        I casi in cui non è possibile stipulare un contratto a termine.

L’elenco previsto dall’art. 3 del decreto legislativo n. 368/01 è tassativo in quanto la nuova ratio del contratto a termine è rendere il più possibile flessibile il rapporto di lavoro.

Le singole fattispecie in presenza delle quali non è possibile apporre un termine  alla durata del contratto di lavoro riguardano:

1.      la sostituzione di lavoratori in sciopero;

2.      la sospensione dei rapporti di lavoro (CIG ordinaria e straordinaria)

3.      la riduzione dell’orario di lavoro (CIG ordinaria, straordinaria e contratti di solidarietà);

4.      le imprese che non effettuano, ai fini della sicurezza sul lavoro, la valutazione dei rischi (art. 4 D. Lgs. 626/94).

5.      il caso in cui nell’unità produttiva siano stati effettuati licenziamenti collettivi (art. 4 e 24 legge 223/91) o siano state adottate procedure per la dichiarazione di mobilità (art. 8 legge 223/91), che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a termine, nei sei mesi precedenti salvo che tale contratto:

- sia stato concluso per sostituire  i lavoratori assenti;

- sia stato concluso con i lavoratori in mobilità;

- abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi;

- è in ogni caso fatta salva la diversa disposizione stabilita dagli accordi sindacali.

·        Le tipologie contrattuali escluse

L’art. 10 comma 1 esclude dall’ambito di applicazione il lavoro temporaneo (Legge 196/97 e successive modifiche), il contratto di formazione e lavoro (regolato dall’art. 3 Legge 863/1984 e dall’art. 16 Legge 451/94 e successive modificazioni), l’apprendistato (Legge 25/1955 e successive modificazioni) e tutte le tipologie contrattuali caratterizzate da finalità formative, quali tirocini e stage così come disciplinati dalla Legge 196/97 e dal D.M. 142/98, che non costituiscono rapporti di lavoro.

·        I settori esclusi

L’art. 10  da comma 2 a 5 prevede specifiche esclusioni per particolari rapporti lavorativi, quali quelli tra i datori di lavoro dell’agricoltura e gli operai a tempo determinato e quelli instaurati con le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione e all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli.

L’art. 2 invece prevede la possibilità di stipulare contratti a termine per le imprese esercenti trasporto aereo o servizi aeroportuali per lo svolgimento di attività di terra e di volo per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile e ottobre di ogni anno, o di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti.

Tali assunzioni devono rispettare il limite quantitativo del 15% dell’organico aziendale, con la possibilità però per gli aeroporti minori di aumentare questa percentuale, previa autorizzazione della Direzione provinciale del lavoro su istanza documentata delle aziende interessate.

·        Presupposti in presenza dei quali il contratto può essere prorogato.

L’art. 4 prevede che il contratto a tempo determinato possa essere, con il consenso del lavoratore, prorogato una sola volta e solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni; la richiesta deve essere motivata da ragioni oggettive e riguardare la stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. In ogni caso la durata complessiva del rapporto, contratto iniziale + proroga, non può superare i tre anni.

La ragione di questa norma trova la sua giustificazione nella necessità di evitare che il datore di lavoro ricorra al contratto a termine solo per eludere l’applicazione del contratto a tempo indeterminato al fine di evitare maggiori oneri.

·        La prosecuzione del rapporto e la conversione del contratto.

La scadenza del contratto (che può essere anche legata anche al verificarsi di un dato evento) comporta l’automatica cessazione del rapporto senza che sia necessaria un’esplicita comunicazione del datore di lavoro.

L’art. 5 definisce le conseguenze nel caso in cui il rapporto prosegua oltre il termine inizialmente previsto.

Qualora il rapporto continui fino al decimo giorno successivo alla scadenza il datore di lavoro sarà obbligato a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione pari al 20% fino al decimo giorno di prosecuzione del rapporto di lavoro; oltre tale termine sarà dovuta una maggiorazione ulteriore pari al 40%.

Qualora il rapporto continui oltre il ventesimo giorno, in caso di contratti di durata inferiore ai sei mesi, od oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato.

Nel caso in cui invece, la riassunzione a termine avvenga entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto avente durata fino a sei mesi,  o venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore di sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato (art. 5 comma III).

Qualora si sia in presenza di due assunzioni successive senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si dovrà considerare a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto (art. 5 comma IV).

Al riguardo è agevole constatare come gli appena enunciati principi possono dar luogo a considerevoli e complessi dubbi interpretativi nelle ipotesi di successioni di contratti a termine nel tempo oltre ai termini previsti dall’art.5 comma IV.

·        La formazione;  salvaguardia della sicurezza negli ambienti di lavoro.

L’art. 7 stabilisce che il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi all’esecuzione del lavoro.

Si tratta di una novità in quanto nulla di tutto ciò era previsto con la vecchia disciplina (Legge n. 230/1962).

Alla contrattazione collettiva a livello nazionale viene attribuito il compito di stabilire le modalità e gli strumenti adatti per agevolare la formazione dei lavoratori al fine di :

-         aumentare la qualificazione;

-         promuovere la carriera,

-         migliorare la mobilità occupazionale.

L’art. 6 sancisce il principio di non discriminazione, che comporta l’equiparazione dei lavoratori a tempo determinato ai lavoratori a tempo indeterminato (diritto alle ferie, al trattamento di fine rapporto e alla tredicesima mensilità) e il principio pro rata temporis in forza del quale il godimento dei diritti è subordinato alla compatibilità con la natura del contratto a termine e proporzionato al periodo lavorativo prestato.

In base a tale principio una disparità verso i lavoratori a tempo determinato può scaturire qualora la natura del trattamento economico sia incompatibile con la temporaneità dell’inserimento del lavoratore nell’impresa (es: mancata inclusione del lavoratore in un piano di stock-option).

·        Diritti sindacali.

L’art. 8 specifica che, ai fini dell’applicazione dell’art. 35 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970) relativo all’ambito di applicazione del titolo III della legge, avente come oggetto l’attività sindacale, sono computabili i lavoratori a tempo determinato ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi.

·        Dirigenti: novità e conferme.

Il D. Lgs. N. 368/2001 apporta delle modifiche sostanziali al rapporto di lavoro a termine nell’area dirigenziale.

L’art. 10 conferma il limite massimo di durata del contratto di cinque anni, fatta salva la facoltà di recesso del dirigente dopo il trascorrere di un triennio con le modalità previste dall’art. 2118 c.c.

I dirigenti potranno essere assunti con contratto a termine anche in aziende in cui si sia proceduto nei sei mesi precedenti a licenziamenti collettivi, o vi siano in atto riduzioni o sospensioni di orario di lavoro; la prorogabilità del termine non è soggetta a vincoli, fermo il limite di durata massima del contratto di cinque anni; la successione di contratti e  la successione di due assunzioni senza soluzione di continuità non porta alla conseguenze di cui all’art.5.

·        Norme abrogate.

L’entrata in vigore del D. Lgs. N. 368/01 determina l’abrogazione espressa dei seguenti provvedimenti:

-         Legge n. 230 del 1962 che costituiva la vecchia disciplina di riferimento della materia;

-         Art. 8-bis della Legge n. 79 del 1983 relativa al diritto di precedenza di assunzione dei lavoratori stagionali;

-         Art. 23 Legge n. 56 del 1987.

L’art.11 prevede inoltre l’abrogazione implicita di tutte quelle norme incompatibili con la nuova disciplina, mentre l’abrogazione non influisce sui contratti individuali e sulle clausole dei c.c.n.l. stipulati in base all’art. 23 legge n. 56/1987 che mantengono la loro efficacia fino alla data di scadenza.

·        Contributi e incentivi.

L’utilizzo del contratto a tempo determinato, oltre a rendere più flessibile il rapporto di lavoro, può portare anche dei benefici economici:

-         nelle aziende con meno di venti dipendenti che assumono lavoratori a tempo determinato in sostituzione di altri lavoratori/lavoratrici in astensione dal lavoro per congedo di paternità/maternità e parentale possono godere di uno sgravio contributivo nella misura del 50% (art. 4 D.Lgs. 151/2001);

-         per tutti i datori di lavoro si ha l’esenzione contributiva previdenziale se il dipendente differisce, raggiunti i requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità, la domanda di pensione e contestualmente stipula un contratto a termine della durata di almeno due anni rinunciando all’accredito contributivo.

Ai rapporti a tempo determinato si applicano interamente le regole del DPR 917/86 (T.U.I.R.) con riferimento all’imposta sul reddito delle persone fisiche, alle detrazioni d’imposta e agli oneri deducibili.

Lo studio è a disposizione per ogni eventuale chiarimento e/o approfondimento.

STUDIO LEGALE G.G.M.

[Novembre 2001] - Società: Novità in vista

In data 28 settembre 2001 il Senato ha approvato definitivamente il Disegno di legge contenente la “delega” al Governo per la riforma del diritto societario. In particolare, il Governo ha ricevuto il “via libera” per varare, entro un anno, la riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative, nonché la disciplina degli illeciti penali e amministrativi per le società commerciali, emettendo gli appositi decreti legislativi previsti nel provvedimento sopra citato. Lo scopo fondamentale della riforma dovrà essere quello di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese, focalizzandosi sulla semplificazione della disciplina e sull’estensione degli ambiti di autonomia statutaria. Inoltre, pur nel rispetto dei principi di libertà di iniziativa economica e di libertà di scelta delle forme organizzative dell’impresa, detta riforma dovrà prevedere due modelli societari riferiti l’uno alla società per azioni e l’altro alla società a responsabilità limitata.

Qui di seguito verranno ripercorsi brevemente i tratti salienti della legge delega, con particolare attenzione alle linee guida riguardanti la S.p.a., la S.r.l. e le società cooperative.

La riforma della  S.r.l.

La riforma della disciplina della S.r.l. dovrà ispirarsi al principio della rilevanza centrale del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci e, conseguentemente, ad un’ampia autonomia statutaria. Tale autonomia dovrà principalmente investire le strutture organizzative, i procedimenti decisionali della società  e gli strumenti di tutela degli interessi dei soci, con particolare riguardo alle azioni di responsabilità. Per quel che concerne l’atto costitutivo, dovrà essere semplificato il procedimento, confermando la soppressione dell’omologazione, dovrà essere determinata la misura minima del capitale e dovrà essere dettata una disciplina dei conferimenti tale da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell’impresa sociale, purchè sia garantita l’effettiva formazione del capitale sociale. Dovrà essere prevista la possibilità per le S.r.l. di emettere e collocare titoli di debito presso operatori qualificati, ma con il divieto di appello diretto al pubblico risparmio e restando comunque sempre esclusa la sollecitazione all’investimento in quote di capitale. Fermo quanto precede, la disciplina dovrà prevedere norme inderogabili in materia di formazione e conservazione del capitale sociale, nonché  norme in materia di liquidazione che siano idonee a tutelare i creditori sociali consentendo, nel contempo, una semplificazione delle procedure.

La riforma della S.p.a.

Per quanto concerne la S.p.a., l’attenzione dovrà essere focalizzata sulla centralità del titolo azionario, sia sotto il profilo della sua predisposizione alla circolazione sia sotto il profilo della sua qualità di strumento per l’acquisizione di capitale di rischio, in rapporto alla tutela degli interessi dei soci, creditori, investitori, risparmiatori e terzi. Conseguentemente, i decreti legislativi dovranno porre, accanto ad un ampliamento dell’autonomia statutaria e alla previsione di un assetto organizzativo idoneo a promuovere efficienza e correttezza della gestione dell’impresa sociale, norme inderogabili dirette a distinguere il controllo sull’amministrazione dal controllo contabile affidato ad un revisore esterno, a consentire l’azione sociale di responsabilità da parte di una minoranza dei soci e a fissare congrui quorum per le assemblee straordinarie a tutela della minoranza. Dovrà essere prevista la possibilità di non indicare la durata della società nell’atto costitutivo nonchè la possibilità della costituzione ad opera anche di un unico socio, prestando adeguate garanzie per i creditori. Avendo riguardo alla disciplina del capitale, la riforma dovrà essere diretta ad aumentare la misura del capitale minimo in coerenza con le caratteristiche del modello societario, nonché prevedere la possibilità per la società di costituire patrimoni dedicati ad uno specifico affare ed emettere strumenti finanziari di partecipazione ad esso. La riforma dovrà dettare, inoltre, una disciplina dei conferimenti tale da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell’impresa sociale, purchè venga garantita l’effettiva formazione del capitale sociale. Innovazione di assoluto interesse, per quel che riguarda le azioni e le obbligazioni, è la previsione della possibilità di emettere azioni  senza indicazione del valore nominale (determinandone la disciplina conseguente) ed obbligazioni senza i vincoli che oggi ne limitano l’utilizzo. Infine, sembra opportuno rivolgere l’attenzione alla disciplina dell’amministrazione. La riforma dovrà dare la possibilità alle S.p.a. di scegliere tra diversi sistemi di amministrazione:

-         il sistema vigente, con un organo di amministrazione, formato da uno o più   componenti, e un collegio sindacale;

-         un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza  eletto dall’assemblea, con competenze in materia di gestione sociale, di approvazione del bilancio, di nomina e revoca dei consiglieri di gestione, nonché di deliberazione ed esercizio dell’azione di responsabilità nei loro confronti;

-         un consiglio di amministrazione, all’interno del quale sia istituito un comitato preposto al controllo interno sulla gestione, composto in maggioranza da amministratori non esecutivi in possesso di requisiti di indipendenza al quale vanno assicurati adeguati poteri di informazione e di ispezione.

La riforma delle società cooperative

La principale novità dell’art. 5 della legge delega riguarda l’introduzione della figura delle cooperative costituzionalmente riconosciute, con riferimento a quelle che svolgono la propria attività prevalentemente in favore dei soci o che si avvalgono, nello svolgimento della propria attività, prevalentemente delle prestazioni lavorative di questi ultimi. Solo a quelle che soddisfano tali requisiti, nel rispetto dei principi della mutualità, viene riservata l’applicazione delle disposizioni fiscali di carattere agevolativo. A queste viene contrapposta la figura delle cooperative non virtuose che non rispettano tali requisiti; per queste il legislatore disegna una normativa che le avvicina notevolmente alle società di capitali, prevedendo l’applicazione della disciplina delle S.p.A. a quelle società a cui partecipino soci finanziatori o che emettano obbligazioni. Queste ultime, pur non potendo usufruire delle agevolazioni previste, possono essere destinatarie di sovvenzioni pubbliche o di altri benefici.

Al fine di incentivare il ricorso ai mercati dei capitali verranno previste:

-         la possibilità, i limiti e le condizioni di emissione di strumenti finanziari, partecipativi e non, dotati di diversi diritti patrimoniali e amministrativi;

-         norme che favoriscano l’apertura della compagine sociale e la partecipazione dei soci alle deliberazioni assembleari;

-         statuti che stabiliscano limiti al cumulo degli incarichi e alla rieleggibilità per gli amministratori, consentendo che gli stessi possano essere anche non soci;

-         consentire che la regola generale del voto capitario possa subire deroghe in considerazione dell’interesse mutualistico del socio cooperatore e/o finanziatore;

-         possibilità per le società cooperative di trasformarsi, con procedimenti semplificati, in società lucrative con l’obbligo però di devolvere il patrimonio in essere alla data di trasformazione ai fondi mutualistici.

La nuova normativa si propone anche di favorire la collaborazione interna introducendo la figura del gruppo cooperativo, definito come un insieme formato da più soggetti che, esercitando poteri ed emanando disposizioni vincolanti per le cooperative che ne fanno parte, configuri una gestione unitaria.

Gli ulteriori principi generali della nuova disciplina dovranno assicurare il perseguimento della funzione sociale, nonché dello scopo mutualistico da parte dei soci; favorire la partecipazione dei soci cooperatori alle deliberazioni assembleari e rafforzare gli strumenti di controllo interno sulla gestione; prevedere che alle società cooperative si applichino, in quanto compatibili con la disciplina loro specificamente dedicata, le norme dettate per la S.p.A. e per la S.r.l. a secondo delle caratteristiche dell’impresa cooperativa e della capacità di coinvolgere un elevato numero di soggetti. Sono esclusi dall’ambito di applicazione delle disposizioni sopracitate i consorzi agrari, le banche popolari, le banche di credito cooperativo e gli istituti della cooperazione bancaria in genere.

Disciplina del bilancio

Disciplinata dall’art. 6, la disciplina del bilancio è ispirata  ai seguenti criteri direttivi:

-         eliminare le interferenze prodotte nel bilancio dalla normativa fiscale sul reddito d’impresa;

-         dettare una specifica disciplina in relazione al trattamento delle operazioni in valuta, degli strumenti finanziari derivati, dei pronti contro termine e delle operazioni finanziarie in genere;

-         prevedere le condizioni in presenza delle quali le società potranno utilizzare principi contabili riconosciuti internazionalmente per la redazione del bilancio consolidato;

-         ampliare le ipotesi nelle quali è ammessa una redazione abbreviata del bilancio e del conto economico.

Trasformazione, fusione e scissione

Quest’argomento trattato dall’art. 7 della legge delega è improntato alla semplificazione del procedimento nel rispetto delle direttive comunitarie, disciplinando possibilità, condizioni e limiti delle trasformazioni e fusioni eterogenee. Dovranno inoltre essere enunciati i criteri di redazione del primo bilancio successivo alle operazioni di fusione/scissione e stabilito che le fusioni tra società, nelle quali una abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, non comportino più violazione del divieto di acquisto e sottoscrizione di azioni proprie, di cui rispettivamente agli art. 2357 e 2357-quater del c.c., e del divieto di accordare prestiti e fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie , di cui all’art. 2358 c.c.

Scioglimento  liquidazione e cancellazione

I principi guida di quest’argomento della legge delega sono improntati ad accelerare e  semplificare le procedure, a disciplinare gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, il regime della responsabilità per debiti non soddisfatti e delle sopravvenienze attive e passive; in particolare, la riforma dovrà disciplinare:

-         condizioni, limiti e modalità per la conservazione dell’eventuale valore dell’impresa, prevedendo possibilità e procedure per la revoca dello stato di liquidazione;

-         i poteri e i doveri degli amministratori e dei liquidatori con particolare riguardo al compimento di nuove operazioni;

-         la redazione dei bilanci nella fase di liquidazione sulla base di criteri adeguati alle loro specifiche finalità.

Per quanto riguarda invece la cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese, si dovrà semplificare e precisare il procedimento attraverso il quale è possibile fare ciò, in presenza di  determinate e concorrenti circostanze, e prevedere adeguate forme di pubblicità.

Gruppi

La loro futura disciplina dovrà prevedere 1) principi di trasparenza tali da assicurare che l’attività di direzione e di coordinamento contemperino adeguatamente tutti gli interessi in gioco: gruppo, società controllate e soci di minoranza di queste ultime; 2) forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo e adeguate forme di tutela al socio come il diritto di recesso quando non sussistano le condizioni per l’obbligo di offerta pubblica di acquisto.

STUDIO LEGALE GGM

[Ottobre 2001] - Cessione d’azienda: Debiti INPS

Una recente sentenza ( n. 8179/2001) della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – si è pronunciata su questa delicata problematica stabilendo che in caso di trasferimento d’azienda, i crediti previdenziali, non possono rientrare nella previsione dell’articolo 2112 c.c., bensì in quella generale dell’art. 2560 c.c., in quanto crediti propri dell’Istituto previdenziale e non già del lavoratore; ove detti crediti non risultino dai libri contabili obbligatori, degli stessi non dovrà rispondere solidalmente il cessionario.

Com’è noto l’art. 2112 c.c. stabilisce alcune garanzie per i lavoratori nel caso di trasferimento della titolarità di un’azienda, assicurando agli stessi la continuità del rapporto di lavoro in atto, con mantenimento, senza interruzione alcuna, di tutti i diritti che derivano dalla loro posizione di dipendenti (resta di conseguenza salva l’anzianità già maturata e l’acquirente ha l’obbligo di continuare l’applicazione dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti all’atto del trasferimento); la disposizione prevede anche una responsabilità solidale fra l’alienante e l’acquirente per tutti i crediti che il  lavoratore aveva al momento del trasferimento, tutelando così in modo ampio tutti i possibili diritti di natura economica del lavoratore senza eccezione alcuna.

Per contro l’art. 2560 c.c. detta invece la disciplina generale  in materia di debiti relativi all’azienda ceduta; secondo la norma: “l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”.

Nel caso di specie con ricorso del 07.09.1990 al Pretore di Catania una società di gestione di case di riposo aveva proposto opposizione al decreto con il quale L’INPS le aveva ingiunto il pagamento della somma di £. 1.374.249.584 relativa ai contributi non corrisposti aumentati delle relative sanzioni civili, argomentando che, il debito previdenziale era sorto in epoca  in cui l’azienda apparteneva ad altro soggetto e che il dovuto non risultava dai libri contabili obbligatori.

Dopo due gradi di giudizio, dagli esiti differenti, la società di gestione di case di riposo presentava ricorso per Cassazione  denunciando la violazione degli articoli 2112 e 2560 c.c., in quanto secondo la prospettazione difensiva della ricorrente i debiti per contributi previdenziali quando sono contratti da un impresa commerciale non costituiscono un credito del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, e in caso di cessione d’azienda, seguono la disciplina generale dell’art. 2560 c.c., sicchè il cessionario ne risponde esclusivamente nel caso in cui essi risultino dai libri contabili obbligatori (nel caso di specie  i debiti per contributi previdenziali erano desumibili  dai libri paga e matricola che, ex art. 2214 c.c. non possono ritenersi scritture obbligatorie).

L’applicazione dell’articolo 2112 del c.c. era stata richiesta dall’Inps, a garanzia di tutti i crediti previdenziali maturati all’atto di trasferimento, ritenendo gli stessi assimilabili a quelli dei lavoratori in quanto collegati all’esistenza del rapporto di lavoro, anche se di natura diversa in quanto non strettamente retributiva.

La Suprema Corte ha rilevato invece che il credito dell’INPS è un credito proprio dell’istituto previdenziale, e non un credito del lavoratore, benchè trovi la sua origine nel rapporto di lavoro in corso, per cui, in caso di trasferimento dell’azienda,  resta disciplinato dalla norma generale di cui all’art. 2560 c.c., di cui va verificata la sussistenza in concreto dei relativi presupposti di applicazione.

Per il credito previdenziale in oggetto, infatti, non può operare l’automatica esenzione di responsabilità dell’acquirente prevista dal comma 2° prima parte dell’art. 2112 c.c., sia perché la responsabilità è limitata ai soli crediti di lavoro del dipendente e non è estesa ai crediti di terzi, quali devono ritenersi gli enti previdenziali, sia perché il lavoratore non ha diritti di credito verso il datore di lavoro per l’omesso versamento dei contributi obbligatori in quanto estraneo al c.d. rapporto contributivo, che intercorre tra l’ente previdenziale ed il datore di lavoro.

Le argomentazioni del Tribunale quindi, a seguito della pronuncia della Cassazione n. 8179/2001, non possono più essere condivise nella parte in cui estendono il regime di applicazione dell’art. 2112 c.c. anche ai crediti di terzi diversi dal lavoratore ancorchè legati nella genesi e nella causa al rapporto di lavoro, in quanto l’art. 2112 c.c. prevede la responsabilità solidale delle parti, in caso di trasferimento d’azienda, soltanto per i crediti propri del lavoratore verso il datore di lavoro cedente sorti dal contratto di lavoro in corso.

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[Settembre 2001] - Responsabilità degli enti: Modelli organizzativi antireato

Trascorso un mese dall’entrata in vigore del decreto legislativo n.231/2000, che ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento, la responsabilità penale a carico di società, imprese, associazioni ed enti, per i reati commessi dai loro dipendenti o dirigenti, restano ancora aperti molti dubbi interpretativi della legge, la cui disamina generale è già stata effettuata nella circolare n.27 giugno 2001.

Una questione delicata, che merita di essere approfondita, riguarda la adozione da parte delle imprese dei cosidetti “modelli organizzativi” previsti dalla legge agli articoli 6 e 7, capaci di esonerare l’impresa dalle sanzioni connesse ai reati perpretati da un proprio dipendente/ dirigente.

L’impresa può decidere di adottare il proprio codice di comportamento secondo due modalità: 1) direttamente, predisponendo lei stessa il codice sulla base delle indicazioni contenute nella legge, oppure 2) sulla base di codici di comportamento “nazionali” redatti dalle associazioni rappresentative degli enti. Quest’ultimi, una volta predisposti, possono essere comunicati e sottoposti al vaglio del Ministero della Giustizia che entro trenta giorni può formulare, di concerto con i Ministeri competenti, osservazioni sulla loro idoneità a prevenire i reati.

Ad oggi, nonostante sia già trascorso un mese dall’entrata in vigore della legge, le associazioni di categoria non hanno ancora proposto e fatto approvare dal Ministero di Giustizia dei codici di comportamento “standard” da proporre alle imprese, associazioni ed enti.

Il ritardo delle associazioni di categoria, non esonera le società da una eventuale responsabilità in caso di reato, in quanto, come già accennato, i modelli di comportamento ben possono essere adottati direttamente da tutti i soggetti.

Al riguardo, si può rilevare come da un lato, non è sicuramente compito facile per le imprese adottare direttamente dei codici di comportamento, dotati dei necessari requisiti  di legge  e capaci di superare il vaglio del giudice penale, il quale in definitiva,  è il soggetto al quale è demandato il compito di valutare l’idoneità e l’effettiva applicazione del codice di comportamento;  dall’altro è intuibile che il modello “nazionale”,  avrà sicuramente un diverso peso giudiziale, con il rischio però di cadere in una standardizzazione  e in una rigida omologazione di settore.

Ancora ad oggi, sono ancora pochissime le imprese che sono al lavoro per predisporre i modelli di organizzazione e di gestione. Tutto questo a loro rischio e pericolo, poiché in caso di reato, non potranno esimersi da una responsabilità a loro carico e saranno costrette a far fronte alle obbligazioni e/o sanzioni alle stesse imposte dalla nuova legge. Ciò avviene sia con l’applicazione di sanzioni pecuniarie, modulate in base alla gravità del reato e all’entità del patrimonio societario, sia con sanzioni interdittive (si pensi alla possibilità di una sospensione o una revoca delle autorizzazioni, o al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione) .

I modelli organizzativi e di gestione, in conformità con quanto previsto dalla legge, dovranno :

1)      individuare, in relazione alla specifica attività della impresa, le aree in cui più facilmente possano verificarsi le fattispecie penali tipiche previste dalla legge;

2)      prevedere degli appositi protocolli diretti a stabilire ed identificare i soggetti responsabili delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;

3)      stabilire le modalità di gestione delle risorse finanziarie in quei settori più soggetti al rischio reati;

4)      prevedere un continuo flusso di informazioni tra i dirigenti e l’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del modello;

5)      prevedere un sistema  disciplinare capace di sanzionare le violazioni delle misure adottate dal modello.

Oltre ai modelli di comportamento, le imprese dovranno adottare un autonomo organismo di controllo, una specie di “authority” interna alla società, capace di garantire la effettiva applicazione del codice, con poteri autonomi di iniziativa e di controllo.

Per ottenere una efficace attuazione del modello, si richiede inoltre, una verifica periodica dello stesso nel caso in cui vengano scoperte specifiche violazioni delle prescrizioni, e, un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate dal modello.

STUDIO LEGALE GGM & Partners

Per qualsiasi chiarimento o informazione, lo studio legale GGM & Partners rimane a completa disposizione.

[Settembre 2001] - Divieto di concorrenza nei casi di trasferimento delle quote sociali

Recenti pronunce della Corte di Cassazione, hanno dato avvio ad un nuovo orientamento giurisprudenziale volto a riconoscere la possibilità di un’applicazione analogica dell’art. 2557 c.c., smentendo pertanto il carattere di eccezionalità fino ad adesso attribuito alla suddetta norma.

L’articolo stabilisce che “chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa, che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta”.

La finalità della norma, nonostante l’ambiguità lessicale del legislatore che fa espresso riferimento al trasferimento dell’azienda, è quello di tutelare il trapasso dell’impresa nelle sue componenti vitali di attività e di organizzazione. Il soggetto che acquista l’azienda, non acquista soltanto un complesso di beni, bensì acquista tutte le attività per i quali gli stessi beni sono destinati. Con il trapasso dell’azienda pertanto, il soggetto acquirente diviene titolare, oltre che dei beni, anche del cosiddetto avviamento dell’azienda, che viene considerato parte integrante dell’impresa. E’ proprio l’avviamento dell’attività che la maggior parte della giurisprudenza ritiene essere il vero bene tutelato da tale disposizione.

Parte della dottrina distingue tra un avviamento oggettivo, che viene ad aderire ai beni nella loro organizzazione, e un avviamento soggettivo, legato alla persona dell’imprenditore e alle sue qualità personali: è con riferimento a quest’ultimo che la legge imporrebbe il divieto di concorrenza. Si pensi infatti a quelle attività che sono fortemente caratterizzate dalla personalità del titolare, una cessione d’azienda, non accompagnata dal divieto di concorrenza renderebbe il bene ceduto un “nudus nomen “.

Con la pronuncia 549/97 la Corte di Cassazione ha appunto riconosciuto i seguenti principi: 1)che l’art 2557, non è norma eccezionale derogatrice del principio della libertà di concorrenza, presupposto nell’art. 2596 c.c. e più in generale della libertà di iniziativa economica privata (art 41 Costituzione); 2) che è astrattamente ammissibile l’applicazione analogica di tale norma alla cessione di quote sociali; 3) che tale cessione deve concretare un caso simile all’alienazione di azienda prevista dalla norma; 4) che tale equiparazione va accertata dal giudice in concreto.

La Corte infatti ha affermato che tanto l’art.2557 c.c., che l’art 2596 c.c., non disciplinano l’attività concorrenziale intesa in sé e per sé, cioè l’attività concorrenziale dei singoli soggetti la quale è e rimane libera, ma l’attività concorrenziale di due soggetti determinati i quali volontariamente hanno stipulato un contratto che contiene espressamente il divieto di concorrenza, (ipotesi prevista dall’art.2596 c.c.) oppure che presuppone implicitamente un tale divieto ( ipotesi dell’art 2557 c.c.).

Da simili considerazioni, la Corte deduce che le norme in questione non derogano il principio di libera concorrenza, ma disciplinano nel modo più congruo la portata di quegli stessi effetti che le parti avevano esplicitati o che avevano ritenuti essere connaturali al rapporto.

Anche con la più recente pronuncia del 24 luglio 2000 n. 9862, la Corte ha ribadito l’astratta applicabilità del divieto di concorrenza alla fattispecie della cessione di quote di partecipazione societaria, cassando con rinvio un provvedimento nel quale una tale applicabilità era stata negata.

A tal fine, la Corte ritiene necessario uno specifico accertamento del giudice volto ad analizzare e verificare che con il trasferimento di quote societarie si sia integrata una vicenda analoga a quella prevista dall’art. 2557 c.c.

“Infatti indipendentemente dalla natura giuridica della società in questione ovvero dal fatto che essa sia di persone o di capitali, non può escludersi che attraverso la forma della cessione di quote si pervenga in realtà all’obiettivo di cedere una precipua attività d’impresa. La concorrenza del cedente può realizzare in astratto analoga pericolosità per l’effettivo dispiego del diritto di impresa a danno del cessionario, attraverso analoga possibilità di sviamento della clientela.”

E’ sicuramente apprezzabile il lavoro della giurisprudenza, la quale ha elevato la norma contenuta nell’art.2557 c.c., a norma di garanzia di un libero mercato, per tutelare proprio quel principio di libertà di iniziativa economica privata.

La Corte non ha però identificato nel concreto quali sono i criteri che il giudice dovrà prendere come riferimento al fine di poter individuare i casi simili alla cessione di azienda, lasciando come spesso accade, nelle mani dei magistrati un compito delicato e di non facile soluzione.

Anche se è impossibile prevedere in astratto dei rigidi criteri entro i quali vincolare la discrezionalità dei giudici, anche perché questi stessi dovranno necessariamente confrontarsi con le singole fattispecie e modellarsi sulla base di queste, quanto meno però, il giudice dovrà verificare innanzitutto 1) il passaggio di titolarità dell’impresa da un soggetto all’altro, quindi la concreta sostituzione di un soggetto all’altro nella conduzione della struttura aziendale, 2) il verificarsi di una attività concorrenziale, volta a ledere il diritto di impresa del cessionario, attraverso la possibilità di uno sviamento della clientela.

Una nuova prospettiva giuridica, sul tema dello sviamento della clientela, è stata data recentemente da una pronuncia del Tribunale di Milano che, ha respinto la richiesta di un provvedimento cautelare volto ad inibire al socio uscente lo svolgimento di una analoga attività imprenditoriale, in quanto “una graduale uscita” del socio dalla società, cioè mediante successivi trasferimenti di tranches di quote societarie, non ha comportato in realtà la sostituzione di un soggetto ad un altro nella gestione dell’azienda.

Poichè da un esame dell’organigramma societario, risultava inoltre, una partecipazione all’amministrazione apparentemente paritetica tra i due soci, la dimostrazione di una tale sostituzione nella impresa, avrebbe richiesto la prova degli effettivi rapporti societari e delle concrete modalità di gestione dell’impresa sociale, che nel caso di specie non è stata data dalla parte ricorrente.

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[Luglio 2001] - Nuove regole nei contratti a tempo determinato

Secondo quanto previsto dalla legge Comunitaria per il 2000 (Legge 422/2000), il  Governo ha varato in data 4 luglio 2001 lo schema di decreto legislativo per l’attuazione della direttiva del Consiglio CE n. 99/70 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso in data 18 marzo 1999 tra l’UNICE (Unione delle confederazioni dell’industria e dei lavoratori d’Europa), dal CEEP (Centro europeo dell’impresa pubblica) e dalla CES (Confederazione europea dei sindacati).

Lo schema di decreto legislativo, dopo l’acquisizione degli altri pareri previsti dalla legge, verrà trasmesso alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica affinché su di esso esprimano il loro parere le competenti  Commissioni nel termine di quaranta giorni dalla sua trasmissione, come previsto dall’art.1, comma 3 della Legge 422/2000.

La nuova disciplina del contratto a tempo determinato prevista dal predetto schema è fortemente innovativa rispetto a quella precedente, che vietava le assunzioni a termine, tranne che in alcuni casi specificamente previsti dalla legge e/o dai contratti collettivi.

Con l’entrata in vigore del decreto legislativo che recepisce la direttiva europea 99/70/CE, il datore di lavoro potrà assumere dipendenti con contratti a termine in presenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, a condizione che il contratto sia stipulato per iscritto e che copia dello stesso venga consegnata al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione (articolo 1). La scrittura non è invece necessaria in caso di lavori occasionali di durata non superiore a 12 giorni.

Per le aziende operanti nel campo del trasporto aereo e per aziende esercenti i servizi aeroportuali le assunzioni a tempo determinato non possono superare il tetto del 15% dell’organico aziendale, mentre negli altri settori la determinazione dei  limiti quantitativi di utilizzazione del contratto a tempo determinato è rimessa alla contrattazione collettiva nazionale (articoli 2 e 10 comma 2). Da tali  limitazioni quantitative sono peraltro esenti i contratti a tempo determinato conclusi:

·        nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi di lavoro;

·        per ragioni di carattere sostitutivo,  di stagionalità, di intensificazione dell’attività produttiva in determinati periodi dell’anno, per specifici programmi radiofonici o televisivi;

·        al termine di un periodo di tirocinio o di stage, ovvero stipulati con lavoratori di età superiore ai 55 anni,

·        quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio  definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario o occasionale;

·        per una durata non superiore ai 7 mesi, compresa la proroga, ovvero non superiori alla durata predefinita dalla contrattazione collettiva con riferimento a situazioni di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche.

Secondo le nuove disposizioni (articolo 3), il ricorso al contratto a termine è vietato nei seguenti casi:

1.      per sostituire lavoratori che esercitino il diritto di sciopero;

2.      presso le unità produttive nelle quali si sia proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi o all’adozione di procedure di mobilità, salva diversa disposizione degli accordi sindacali;

3.      presso le unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti a mansioni cui si riferisce il contratto a termine;

4.      da parte di imprese che non abbiano fatto la valutazione dei rischi prevista dell’art.4 del Dlgs 626/94.

La durata del contratto di lavoro a tempo determinato non potrà essere superiore a tre anni anche in caso di proroga (articolo 4), salvo che per i dirigenti amministrativi tecnici, per i quali è consentita la stipulazione di contratti di durata non superiore a cinque anni, con facoltà del dirigente di recedere dal contratto trascorso un triennio e osservata la disposizione dell’articolo 2118 del codice civile in tema di preavviso (articolo 10, comma 4).

La proroga del contratto a termine è ammessa una sola volta, con il consenso del lavoratore,  a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato (articolo 4).

L’articolo 5 dello schema di decreto legislativo conferma quanto già previsto dall’art.12 della Legge 196/97 (Legge Treu), per cui, ove il rapporto di lavoro prosegua oltre la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, è prevista una maggiorazione della retribuzione del 20% per i primi dieci giorni, ed al 40% per ciascun giorno ulteriore.

Inoltre, se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a 6 mesi, ovvero oltre il trentesimo negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

Invece, in  caso di due assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del nuovo contratto.

Lo schema di decreto introduce il principio di non discriminazione (articolo 6) del lavoratore a tempo determinato rispetto ai lavoratori di pari livello assunti a tempo indeterminato e impone al datore di lavoro di impartire al lavoratore a termine  una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni  oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi all’esecuzione del lavoro (articolo 7).

Ai fini dell’applicazione dell’art.35 della Legge 300/70 (Statuto dei lavoratori), si  prevede la computabilità solo dei lavoratori con contratto di lavoro a tempo determinato di durata superiore a 9 mesi (articolo 8).

Lo schema di decreto legislativo rimette alla contrattazione collettiva la definizione delle modalità di informazione dei lavoratori a tempo determinato  circa i posti vacanti che si rendessero disponibili nell’impresa (articolo 9) e l’individuazione del diritto di precedenza nell’assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica per i lavoratori stagionali di cui all’art.23, comma 2 della Legge 56/87 (articolo 10, comma 9).

Sono esclusi dal campo di applicazione delle nuove norme sul contratto a tempo determinato i contratti di lavoro temporaneo (o interinale) di cui alla L.196/97, i contratti di formazione e lavoro, i rapporti di apprendistato, di tirocinio, di stage e simili, nonché i rapporti di lavoro fra datori di lavoro agricoli e gli operai a tempo determinato (articolo 10).

Per effetto dell’entrata in vigore delle nuove norme, verranno abrogate le vigenti disposizioni in materia di lavoro a tempo determinato (Legge 230/62 e successive modificazioni, l’art.8-bis della Legge 79/83 e l’art.23 della Legge 56/87), nonché tutte le disposizioni di legge comunque incompatibili (articolo 11).

Tuttavia,  le nuove norme fanno salve le disposizioni in materia di contratto a termine previste dai contratti collettivi ai sensi dell’art.23 della Legge 56/87, che  manterranno – in via transitoria e salvo diverse intese - la loro efficacia fino alla data di scadenza dei contratti  stessi.

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[Luglio 2001] - Responsabilità diretta delle imprese: lotta alla corruzione

E’ stato finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale ed entrerà in vigore a partire dal 4 luglio, il decreto legislativo n. 231 dell’8 giugno, che prevede una responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni (anche prive di personalità giuridica), nel caso in cui siano commessi i reati di corruzione, di concussione, di frode ai danni dello stato da parte dei dirigenti o dei dipendenti delle stesse.

Un provvedimento dovuto, preso in osservanza delle legge di ratifica di una serie di convenzioni internazionali e sulla base delle legge delega 300/2000 con la quale si è introdotto nel nostro ordinamento il principio volto ad attribuire la responsabilità penale anche in capo alle persone giuridiche.

Lo scopo del legislatore è quello di combattere la corruzione: nel mirino della legge finiscono i reati di corruzione, di concussione, di indebita percezione di erogazioni, di truffa e frode informatica in danno dello stato o di un ente pubblico o di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, mediante una serie di deterrenti tanto di natura pecuniaria che di natura interdittiva.

Secondo la nuova normativa, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da: a) persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale e finanziaria, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti sopraindicati (art.5 d.l. 231/2001).

La rilevante novità del provvedimento consiste nell’onere per le imprese, le quali vogliano esimersi da una tale responsabilità, di adottare al loro interno, dei modelli di organizzazione e di gestione idonei a scongiurare i predetti reati. Questi modelli sono adottati dalle imprese, sulle base dei Codici di Comportamento redatti dalle associazioni di categoria e debitamente approvati dal Ministero di Grazia e Giustizia di concerto con i ministri competenti, i quali possono effettuare le dovute osservazioni sull’idoneità dei singoli modelli.

I modelli dovranno contenere l’individuazione delle attività nel cui ambito possono esser commessi i reati e delle modalità di gestione delle risorse finanziarie destinate a simili attività, dei protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione di decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, degli obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento dei modelli e un sistema disciplinare diretto a sanzionare eventuali violazioni degli stessi.

- Nel caso in cui il reato sia commesso da uno dei soggetti indicati all’art.5 lett.a), l’ente non risponde se prova che:

-l’organo dirigente ha adottato ed attuato efficacemente, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire

reati delle specie di quello verificatosi;

-il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo;

-le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione. (art. 6 d.l.231/2001)

- Per contro, nel caso in cui il reato sia commesso da uno dei soggetti di cui all’art.5 lett. b), l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di vigilanza o direzione dell’ente.

In ogni caso però, è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, se, prima della commissione del reato, l’ente ha adottato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. (art.7 d.l.231/2001)

Se nella sostanza i Codici di comportamento, possono sicuramente rafforzare il ruolo delle Associazioni di categoria e delle imprese, dall’altro, vista la rigida tipizzazione legislativa dei modelli (voluta dal legislatore probabilmente per arginare la discrezionalità del giudice) il rischio alla fine, è quello di creare degli schemi simili a manuali di procedura, molto astratti, poco efficienti per la realtà del caso concreto, con la inevitabile conseguenza di lasciare comunque alla libera scelta del giudice, (che spesso non possiede le specifiche conoscenze tecniche delle materia) il difficile compito di valutare se il modello sia stato attuato bene.

Gli enti rischieranno sanzioni pecuniarie fino a tre miliardi, sanzioni interdittive quali l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la revoca di licenze o autorizzazioni, il divieto di stipulare contratti con la pubblica amministrazione, l’esclusione di agevolazioni, finanziamenti, il divieto di pubblicizzare beni e prodotti oltre che la confisca del bene oggetto del reato e la pubblicazione della sentenza.

Il delitto tentato è comunque punito da sanzione ridotta di un terzo, ed in ipotesi di trasformazione dell’ente, una eventuale fusione o scissione non farà comunque venir meno la responsabilità per fatti antecedenti all’operazione finanziaria.

Il contenuto particolarmente afflittivo delle sanzioni previste dal legislatore, nell’ambito del d.l.231/2001, evidenzia la natura amministrativa della responsabilità come un necessario passaggio obbligato, aprendo in realtà la strada a una responsabilità con connotati tipicamente penalistici. Ne è riprova la scelta di modellare la procedura di accertamento dell’illecito amministrativo sul processo penale: infatti il giudice competente a conoscere l’illecito è il giudice penale competente per i reati dai quali lo stesso dipende e le disposizioni processuali che regolano le attività di accertamento seguono le regole in materia di indagini ed udienza preliminare previste dal codice di procedura penale.

E’ fatto obbligo al pm di annotare tra le notizie di reato anche quelle degli illeciti amministrativi dipendenti da reato, oltre alle generalità dell’ente e di quelle del rappresentante legale. Dal momento dell’annotazione decorre il termine per l’accertamento dell’illecito. Si apre così la fase delle indagini preliminari, il pm può decidere di disporre il segreto sulle annotazioni dell’illecito e all’ente sarà inviato l’informazione di garanzia con l’invito ad eleggere domicilio per le notificazioni.

Terminata la fase delle indagini preliminari, il pm potrà decidere di disporre l’archiviazione, con un procedimento più snello rispetto a quello del c.p.p., in cui è previsto un controllo del giudice; in questo caso infatti non esiste l’esigenza di controllare il corretto esercizio dell’azione penale, trattandosi di violazioni aministrative.

Oppure il pm potrà contestare l’illecito amministrativo dipendente da reato, e qualora il reato da cui l’illecito dipende sia estinto per prescrizione, senza che sia stato contestato l’illecito all’ente, verrà meno anche la potestà sanzionatoria amministrativa.

Le sentenze e i decreti che applicheranno agli enti sanzioni amministrative dipendenti da reato, saranno iscritti in registri tenuti dall’anagrafe nazionale istituita presso il casellario giudiziale centrale e saranno cancellate una volta trascorsi cinque anni dalla data di esecuzione, se la sanzione è pecuniaria o, di dieci, nel caso di diverse sanzioni.

Gli organi deputati all’accertamento degli illeciti hanno diritto di ottenere, per ragioni di giustizia il certificato dell’anagrafe, così come le pubbliche amministrazioni e gli enti incaricati di pubblici servizi nel caso in questo sia necessario per provvedere a un atto delle loro funzioni.

La particolarità e la novità dei principi contenuti nella nuova normativa darà sicuramente adito a molteplici dubbi interpretativi che potranno essere risolti nel tempo dall’interpretazione giurisprudenziale e/o dall’entrata in vigore di eventuali nuovi provvedimenti volti a chiarire e/o precisare la portata della nuova normativa.

STUDIO LEGALE GGM

[Giugno 2001] - Interventi legislativi nel settore assicurativo

CIRCOLARE N.26 GIUGNO 2001

Interventi legislativi nel settore assicurativo ad opera della Legge 5 marzo 2001, n. 57 “Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati”

La Legge 5 marzo 2001 n. 57 intitolata “Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 marzo 2001, ha operato alcuni interventi nel settore assicurativo con riguardo al sistema tariffario, alla tutela del contraente e alle modalità e termini di liquidazioni delle c.d. “microlesioni” (lesioni sino al 9% di danno biologico).

In particolare, la legge in commento dopo l’articolo 12 della Legge 24 dicembre 1969, n. 990 ha inserito l’articolo 12 – bis il quale ha introdotto una serie di obblighi in capo alle imprese di assicurazione al fine di garantire la trasparenza, la concorrenzialità delle offerte nonché un’adeguata informazione agli utenti.

Gli obblighi delle Imprese assicurative introdotti da quest’ultima norma possono essere così sintetizzati:

1) rendere pubblici i premi annuali, indicando il periodo al quale gli stessi si riferiscono, mediante appositi opuscoli, materiale promozionale ovvero annunci pubblicitari;

2) rendere visibili agli utenti, nei punti vendita e nell’ambito dei sistemi informativi telematici, le tariffe e le condizioni concernenti le polizze assicurative relative ad autoveicoli, motocicli, ciclomotori, autocarri e natanti;

3) evidenziare, anche nei preventivi, eventuali rivalse o esclusioni di garanzie previste contrattualmente nei confronti del proprietario o del conducente, per sinistri occorsi o causati in occasione di guida del veicolo assicurato da parte di persona diversa dal proprietario o da persona designata contrattualmente alla guida, dalla tariffa di riferimento usata;

4) Comunicare all’Isvap, al consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti e alle camere di commercio , industria, artigianato e agricoltura competenti per territorio i premi annuali di riferimento (che sono quelli relativi a polizze di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore) offerti agli utenti all’inizio di ogni semestre.

La funzione di vigilanza in ordine al rispetto da parte degli Istituti assicurativi degli obblighi sopra indicati è affidata all’ISVAP, obblighi la cui violazione comporta l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie a carico degli Istituti medesimi (vedi articolo 2 L.5/3/2001 n. 57).

L’articolo 3 della legge in esame ha, altresì, aggiunto nella L. 990/1969 l’articolo 12 ter, il quale ha introdotto a favore dei soggetti che stipulano con le società assicurative contratti nel ramo dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei danneggiati il diritto di accesso agli atti a conclusione dei procedimenti di valutazione, constatazione e liquidazione dei danni.

In tale ipotesi, l’assicurato o il danneggiato devono essere messi in condizione di prendere visione degli atti richiesti entro sessanta giorni dall’istanza; scaduto inutilmente quest’ultimo termine l’assicurato o il danneggiato possono rivolgersi all’Isvap al fine di vedere garantito il proprio diritto.

Per quanto concerne le modalità e i criteri di liquidazione dei sinistri l’articolo 5 della Legge in commento, modificando l’articolo 3 del decreto-legge 23 dicembre 1976, n. 857, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 1977, n. 39, ha previsto che entro sessanta giorni, nel caso di danni a cose, o di novanta giorni, nel caso di lesioni personali o di decesso, dal ricevimento della richiesta di risarcimento l’assicuratore deve formulare al danneggiato una congrua offerta per il risarcimento ovvero comunicare i motivi per i quali ritiene di non dovere formulare l’offerta.

Il termine di sessanta giorni è ridotto a trenta quando il predetto modulo è sottoscritto dai conducenti coinvolti nel sinistro.

L’inosservanza da parte dell’Impresa dei termini sopra indicati comporta l’applicazione a carico dell’Impresa medesima di sanzioni pecuniarie in misura variabile a seconda della tipologia di violazione commessa.

La richiesta risarcitoria relativa a soli danni a cose deve essere corredata dalla denuncia secondo il modulo di cui all’articolo 5 del predetto decreto legge e recare l’indicazione del luogo, dei giorni e delle ore in cui le cose danneggiate sono disponibili per una ispezione diretta ad accertare l’entità dei danni.

La richiesta risarcitoria relativa a danni da lesioni personali o decesso deve essere accompagnata, ai fini dell’accertamento e della valutazione dei danni da parte dell’impresa, dai dati relativi all’età, all’attività del danneggiato, al suo reddito, all’entità delle lesioni subite, da attestazione medica comprovante l’avvenuta guarigione con o senza postumi permanenti o, in caso di decesso, dal certificato di morte.

Il provvedimento legislativo in commento, all’articolo 5, ha introdotto per la prima volta la definizione di danno biologico inteso quale “lesione all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale”, danno che è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato.

Per quanto concerne la liquidazione del danno biologico permanente, sempre l’articolo 5 della Legge in esame prevede che in relazione a lesioni pari o inferiori al 9% viene liquidato un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all’applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente di cui all’allegato A annesso alla legge. Il valore del primo punto è pari a L.1.200.000.

A titolo di danno biologico temporaneo sempre l’articolo 5 dispone che venga liquidato un importo di L.70.000 per ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità temporanea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.

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[Maggio 2001] - Crediti di lavoro nei rapporti di lavoro privati

CIRCOLARE N.25 MAGGIO 2001

CREDITI DI LAVORO NEI RAPPORTI DI LAVORO PRIVATI: RIVALUTAZIONE PERIODICA DEGLI INTERESSI

Si segnala una recente sentenza, la n. 38/2001, con la quale la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sull’annoso tema dei criteri di computo degli interessi e della rivalutazione monetaria dovuti, ai sensi degli art.429 c.p.c. e art.150 disp.att.c.p.c., per il ritardato pagamento dei crediti di lavoro.

La Suprema Corte, nell’affrontare la problematica in questione, ha ripercorso i vari orientamenti che avevano contraddistinto le precedenti decisioni e, in particolare, ha riunito i vari indirizzi giurisprudenziali in tre filoni principali.

Nel primo vengono ricondotte le più risalenti e maggioritarie pronunce che, equiparano il credito di lavoro ad un credito di valore sul rilievo della diversità di disciplina, sul piano sostanziale e processuale, tra i crediti di lavoro e quelli di valuta.

A differenza che nei crediti di valuta infatti, in quelli di lavoro la pretesa risarcitoria viene soddisfatta senza bisogno di costituire in mora il debitore, né di provare la colpa o il dolo dello stesso; sul piano processuale, inoltre, il credito di lavoro viene rivalutato d’ufficio e senza necessità della prova del danno, ossia in base a una presunzione assoluta.

L’art. 429 c.p.c. impone poi, una tecnica liquidatoria affine a quella corrente per le obbligazioni di valore, sicchè la maggior somma dovuta per effetto della svalutazione monetaria non rappresenta il “maggior danno” previsto dal secondo comma dell’art.1224 del Codice Civile in ordine alle sole prestazioni originariamente pecuniarie, ma la commisurazione della prestazione pecuniaria ai nuovi valori della moneta.

Conseguentemente gli interessi legali vanno computati sul capitale rivalutato, come se si trattasse di calcolare un danno aquiliano.

Il secondo filone comprende quelle pronunce che, pur mantenendo la medesima impostazione del primo filone, attenuano il vantaggio per il creditore-lavoratore. Queste pronunce, infatti, ritengono che gli interessi debbano essere calcolati, a partire dalla data di scadenza dei singoli crediti, con riguardo non all’importo della somma originaria, bensì alle frazioni di capitale, via via rivalutate sulla base degli indici di svalutazione, fino alla pubblicazione della sentenza e al saldo effettivo.

La base di calcolo degli interessi non è cosi’ quella massima bensi’ quella gradualmente incrementata. Solo in tal modo infatti, si riuscirebbe a realizzare un effettivo rapporto di accessorietà tra capitale ed interessi e a garantire il principio di produttività del reddito non goduto.

Nel terzo filone infine, rientra, la più recente giurisprudenza secondo cui gli interessi legali ex art.429 c.p.c. devono essere calcolati sull’importo originario del credito e non su quello risultante dalla rivalutazione nella sua misura massima finale, o sulle somme rivalutate periodicamente. Questo orientamento considera il credito di lavoro come un credito di valuta e la rivalutazione come un risarcimento del danno della stessa natura di cui all’art.1224 del Codice Civile; da ciò l’autonomia dei due crediti: quello alla rivalutazione e quello agli interessi e dei relativi criteri di calcolo. Il criterio base a cui la giurisprudenza fa riferimento, nel seguire un simile orientamento, è “il principio dell’indifferenza”, secondo il quale per il danneggiato deve essere economicamente equivalente l’essere risarcito in un tempo piuttosto che in un altro.

La Suprema Corte, una volta terminata quest’attenta analisi giurisprudenziale, ha ritenuto di aderire al secondo dei sopracitati orientamenti, quello “intermedio”. Secondo la Corte, infatti, non vi è motivo di discostarsi dall’opinione secondo cui “tanto l’art.1224 cod. civ. quanto l’art.429 cod.. proc. civ., attraverso l’attribuzione rispettivamente del “maggior danno” e della rivalutazione aggiunta agli interessi legali, perseguano due distinti scopi: maggior danno e rivalutazione tendono ad annullare, attraverso rispettivamente la prova del danno e l’indicizzazione del credito, la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardi, mentre gli interessi liquidano in maniera forfettaria e senza bisogno di prova il mancato vantaggio della liquidità”.

Né il calcolo degli interessi sul capitale comunque rivalutato, determina un eccesso di tutela nei confronti del creditore. Un tale calcolo, che impone al debitore un aggravio aggiuntivo rispetto all’obbligo risarcitorio, è conforme alle intenzioni del legislatore nella formulazione dell’art.429 c.p.c., il quale, alla finalità meramente risarcitoria della disposizione, ne aggiunge una concorrente di pena pecuniaria privata, e cioè lo scopo di dissuadere il datore di lavoro dalla “mora debendi” e dalla sperenza di investire la somma ancora dovuta in impieghi più lucrosi.

[Maggio 2001] - Sentenza penale torna a far stato nei provvedimenti amministrativi disciplinari

Con la legge n.97 del 27 marzo 2001, il legislatore è nuovamente intervenuto in merito ai rapporti tra procedimento penale, sentenza penale di condanna e rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La legge, punto di arrivo di un percorso durato circa tredici anni, in cui si sono alternati diversi indirizzi giurisprudenziali e soluzioni normative, nasce dalla necessità di adeguare la normativa esistente alla mutata realtà  dei rapporti sia in ambito penale, che in quello amministrativo.( si pensi  per esempio alla privatizzazione del rapporto di lavoro con il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n.29 in seguito modificato dal Dlgs. 31 marzo 1998 n.80).

Le previsioni della legge si applicano in realtà a un ambito di soggetti più ampio dei tradizionali pubblici dipendenti (ad esempio dello Stato,regioni, enti locali) il cui rapporto di lavoro è disciplinato dal Dlgs 29/1993.

Essa infatti si estende anche ai dipendenti di amministrazioni pubbliche “speciali” ( ad esempio quelli delle autorità amministrative indipendenti), ai dipendenti di enti pubblici economici e infine ai dipendenti di persone giuridiche private a prevalente partecipazione pubblica, volendo cosi’ evitare che una mera trasformazione formale di veste giuridica, consenta una disciplina più favorevole per enti che svolgono in concreto funzioni pubbliche.

La legge agisce sostanzialmente su due fronti: da un lato regola i rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare e dall’altro modifica gli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Iniziando dall’esame di quest’ultimo aspetto e in particolare dalle modifiche apportate all’art 653 c.p.p., si nota la prima grande diversità rispetto alla vecchia disciplina.

L’art.653 si limitava a regolare l’efficacia della sentenza penale di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento, nel giudizio disciplinare amministrativo, la quale faceva stato quanto “all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso”.

Adesso il legislatore ha esteso l’efficacia di giudicato delle sentenze di assoluzione le quali, anche se pronunciate prima del dibattimento, fanno stato, quanto all’accertamento “che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce illecito penale”.

Inoltre è stato aggiunto all’articolo 653 c.p.p., il comma 1-bis, il quale attribuisce efficacia di giudicato anche alla sentenza penale irrevocabile di condanna la quale fa stato quanto “all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.”

La sentenza di patteggiamento che, salve diverse disposizioni di legge, è equiparata a una pronuncia di condanna, non aveva efficacia di giudicato, nei giudizi civili o amministrativi . Oggi invece, per effetto del nuovo testo dell’art. 445 c.p.p., (alla cui originaria formulazione è stato è stato aggiunto l’inciso “Salvo quanto previsto dall’art.653 c.p.p.”), la sentenza irrevocabile di patteggiamento è equiparata alla sentenza di condanna nel giudizio disciplinare amministrativo.

Infine il legislatore è intervenuto sull’art.652 c.p.p..

La disposizione prevedeva che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento, avesse efficacia di giudicato quanto all’accertamento “che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima” nel giudizio civile o amministrativo di danno, per le restituzioni e per il risarcimento del danno promosso dal danneggiato che si fosse costituito o fosse stato posto nelle condizioni di costituirsi parte civile.

Adesso, in virtù delle modifiche apportate all’art.652 c.p.p., la sentenza d’assoluzione ha la medesima efficacia, anche nel caso in cui il giudizio sia stato promosso nell’interesse del danneggiato. Per quanto riguarda invece i rapporti tra procedimento penale e procedimento amministrativo, la legge ha previsto un inasprimento delle sanzioni in caso di gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione quali, a titolo esemplificativo, il peculato, la concussione, la corruzione, la collusione militare.

L’art.3 della legge n.97/2001 dispone il trasferimento del dipendente (meramente facoltativo) ad altra sede nel caso in cui sia disposto il giudizio per uno dei già sopraindicati reati, mentre l’art.4 prevede la sospensione dall’ufficio per i dipendenti di amministrazioni o enti pubblici qualora siano condannati con sentenza, anche non definitiva, per uno di tali reati contro la pubblica amministrazione.

La sospensione si caratterizza per la sua obbligatorietà e per la sua durata massima che è pari circa a dieci o quindici anni contro i cinque della precedente disciplina e ciò in quanto dipendente dai diversi minimi di prescrizione.

Modificando infine il codice penale, si sono introdotte varie tipologie di estinzione del rapporto di impiego o di lavoro con le pubbliche amministrazioni tra cui: estinzione del rapporto come pena accessoria, inserito all’art.19 del c.p.; estinzione del rapporto a seguito di condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per uno dei sopra indicati reati, (art. 32-quinquies c.p).

Occorre infine osservare che le disposizioni contenute nella nuova legge prevalgono sulle disposizioni contrattuali regolanti la materia, ponendo in evidenza l’intento del legislatore di non voler lasciare alla fonte contrattuale la libera regolamentazione del procedimento disciplinare.

STUDIO LEGALE GGM