L’art.2096 3° comma del codice civile consente a ciascuna delle parti (datore di lavoro e lavoratore) di recedere dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova senza preavviso o indennità di sorta, salvo che sia prevista una clausola di durata minima garantita.

Secondo la giurisprudenza, il datore di lavoro che recede dal contratto in pendenza di prova non è tenuto a fornire motivazione alcuna di tale atto né a dimostrare il risultato negativo dell’esperimento della prova (salvo che si tratti di lavoratori invalidi assunti obbligatoriamente, Cass. 12 giugno 2000 n.7988), salva l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore, il quale ha l’onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in prova si è risolto in tempi e con modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto, modalità per il cui accertamento assumono rilievo determinante le clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 del codice civile.

Particolare rilievo assume l’adeguatezza della durata dell’esperimento: in caso di licenziamento del lavoratore prima della scadenza del periodo di prova, il sindacato giudiziale è limitato alla verifica dell’adeguatezza temporale della durata e della mancanza di motivo illecito. Si è affermato, infatti, che qualora il recesso intervenga molto prima rispetto al termine pattuito, grava sull’imprenditore l’onere di motivare le ragioni dell’anticipata valutazione negativa della prova.

Posto che lo scopo primario del periodo di prova sia quello di valutare l’idoneità professionale del lavoratore, è stato ritenuto illegittimo il recesso qualora la prova non sia stata diretta alla verifica delle capacità per le mansioni contrattualmente previste: questo vale sia nel caso di mansioni semplicemente diverse, sia, a maggior ragione, nel caso in cui il lavoratore venga chiamato a misurarsi con mansioni superiori a quelle stabilite.

Nel giudizio di idoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni a cui il patto di prova è preordinato rientra anche la valutazione della personalità del soggetto, potendo il datore di lavoro recedere dal rapporto in prova anche e semplicemente per il comportamento complessivamente tenuto dal lavoratore ed indipendentemente dalla capacità lavorative dimostrate.

Nel caso di assunzione obbligatoria di persona invalida ai sensi della L. 2 aprile 1968 n.482, la valutazione dell’esito della prova deve prescindere da ogni considerazione indotta dalla menomazione del lavoratore medesimo, nel senso che, qualora il datore di lavoro si determini al recesso per esito negativo della prova, i motivi al riguardo enunciati dovranno risultare tali da dimostrate che un esito siffatto non sia la semplice conseguenza dello stato di invalidità.

Lo sforzo interpretativo volto a conciliare diverse e contrastanti esigenze ha creato notevoli problemi in ordine alla individuazione dello strumento sanzionatorio da utilizzare di fronte ad un atto di recesso illegittimo del datore di lavoro durante il periodo di prova. La giurisprudenza di merito ha principalmente insistito sulla necessità di applicare alla fattispecie, ove consentito (datore di lavoro con più di quindici dipendenti), l’apparato garantistico di cui all’art.18 della Statuto dei Lavoratori, che prevede la sanzione della reintegra. In alcuni casi, infatti, si è stabilito che il rapporto debba essere svincolato dal patto e divenire definitivo ab origine; in altri casi, l’estensione temporale della reintegra è stata limitata al tempo necessario per la verificazione della capacità del soggetto; in altri casi ancora, si è sostenuto che dall’illegittimità del recesso debba derivare l’automatico superamento della prova, con obbligo di ripristino del rapporto di lavoro.

Questo orientamento è stato più volte avversato dalla Suprema Corte, la quale ha sottolineato come il recesso illegittimo del lavoratore in prova non rientri in nessuna delle ipotesi previste dall’art.18 dello Statuto sopracitato, non potendosi accordare al lavoratore ingiustamente estromesso una tutela contrastante con la funzione strumentale che il patto di prova riveste: si è stabilito che il lavoratore avrà diritto alternativamente alla prosecuzione del rapporto per il periodo di prova residuo oppure al pagamento delle somme che avrebbe percepito in quel periodo (Cass., 21 gennaio 1985, n.233; Cass., 22 ottobre 1987, n.7821).

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