[Luglio 2002] - Reati societari: Riflessioni sulla riforma
Con il decreto legislativo n.61 del 15 aprile 2002 in tema di disciplina degli illeciti penali e amministravi riguardanti le società commerciali è stato definitivamente riscritto il Titolo XI del libro V del Codice Civile (artt.2621 – 2641).
Questa riforma, come abbiamo già avuto modo di analizzare in dettaglio nella Circolare n.35 pubblicata sul sito Onlinelex.com nel febbraio 2002, anche se ritenuta da tempo necessaria da più parti, è apparsa troppo radicale e poco in armonia con l’intero ordinamento giuridico vigente.
Pertanto in questa sede ci preme non tanto puntare l’attenzione sulla fisionomia dei nuovi reati societari, la cui struttura era già stata definita nella prima bozza di decreto legislativo approvata dal Consiglio dei Ministri l’11 gennaio 2002, ma sulle novità dell’ultima ora, che hanno subito innescato una serie di dibattiti dentro e fuori le aule dei tribunali.
E’ evidente, quindi, che l’oggetto del nostro esame riguarda da un punto di vista di diritto sostanziale la quantificazione oggettiva del falso in bilancio con le relative soglie di non punibilità e da quello di diritto processuale il problema della continuità tra la vecchia e la nuova fattispecie nonché la procedibilità a querela di parte per le società non quotate in Borsa.
Procedendo con ordine, la più significativa innovazione introdotta dalla riforma è rappresentata dalla soluzione data al problema del cosiddetto “falso quantitativo”.
Infatti il Legislatore ha previsto delle soglie di punibilità come criterio matematico di irrilevanza per quelle falsità che rimangono al di sotto di certi limiti percentuali, limiti che non essendo stati previsti nella legge delega sono stati unilateralmente fissati dal delegato e quindi oggetto di possibili censure sotto il profilo dell’illegittimità costituzionale.
Prescindendo, però, da queste considerazioni di legittimità, il Legislatore con le nuove norme si è posto l’obbiettivo di evitare il riproporsi di casi giudiziari, in cui gli amministratori sono giudicati responsabili del reato di false comunicazioni sociali per l’omissione di somme nel bilancio tale da comportare una variazione minima ed irrilevante rispetto alla reale situazione patrimoniale ed economica delle società (vd. caso Fiat).
A tale scopo il decreto legislativo prevede sia per il falso in bilancio contravvenzionale (art.2621, 3°comma, c.c.) sia per il falso in bilancio “dannoso” (art.2622, 5° comma, c.c.) un doppio sistema di soglie di punibilità articolato in termini indefiniti e in termini percentuali.
E’ opportuno, in primo luogo, analizzare la soglia di carattere percentuale, la quale esclude la punibilità se “le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%”.
La soglia quantitativa di non punibilità determinata nella misura non superiore al 5% del risultato economico di esercizio, era già stata prevista nella prima bozza del decreto legislativo.
Essendo quest’ultima ritenuta corretta dalla Security Exchange Commission (SEC) degli Stati Uniti, il Legislatore, su raccomandazione del Senato della Repubblica, ha introdotto in via alternativa la soglia dell’1% di variazione del patrimonio netto, al fine di evitare che, a parità di risultato economico, venissero penalizzate quelle società aventi un elevato capitale sociale, ma una bassa redditività.
Trattandosi, quindi, di criteri alternativi, come si legge anche nella relazione del Governo al decreto legislativo, si è voluta individuare con precisione una sorta di franchigia penale all’interno della quale le falsità o le omissioni si devono ritenere inoffensive e conseguentemente non punibili.
E’ necessario anche precisare che, se queste prime due soglie percentuali non dovessero trovare applicazione, il Legislatore ne ha comunque previsto una terza di uguale natura, con cui ha stabilito che “in ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta” (art.2621, 4° comma, c.c.).
Quest’ultimo comma dell’art.2621 c.c. deve, però, essere correttamente interpretato, ossia l’espressione “il fatto non è punibile” induce a ritenere che questa causa di non punibilità sia finalizzata a escludere la rilevanza penale non delle mere valutazioni estimative scorrette (che esulano dalla nozione di fatto), ma delle errate valutazioni (superiori al 10%) di fatti materiali.
In poche parole, parrebbe che il “fatto materiale” senza valutazioni è punibile di per sé ove ricorrano una delle variazioni sopra indicate e previste dal 3° comma dell’art.2621, mentre se viene anche assoggettato a valutazione è punibile solo se questa accerti una divergenza superiore al 10% rispetto alla reale situazione patrimoniale ed economica della società.
Da questa analisi delle soglie quantitative, ritenute indispensabili per restringere in qualche modo il raggio d’azione del reato di falso in bilancio, emerge che siamo in presenza di una situazione in cui l’operato degli amministratori delle società, costituito da false sopravvalutazioni o sottovalutazioni delle singole voci di bilancio, se un tempo veniva considerato illegale ed eventualmente punibile, oggi con questa riforma viene legalizzato purchè compreso nei limiti percentuali previsti.
In ultimo, dalla lettura del principio generale contenuto nella prima parte del 3° comma dell’art.2621 c.c., secondo cui “la punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società”, derivano le maggiori perplessità se lo si interpreta nel senso che al giudice è in ogni caso attribuita la più ampia ed incontrollata discrezionalità nel giudicare punibili anche falsità o omissioni non rientranti nelle soglie sopra esaminate.
Correttamente, invece, parrebbe che tale valutazione del giudice debba assumere un ruolo decisivo solo nei casi in cui, non trovando in alcun modo applicazione le soglie percentuali, le falsità o le omissioni siano realmente idonee ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni arrecando anche un danno patrimoniale ai soci o ai creditori.
Solo così, quindi, tale principio sembra essere in linea con lo spirito della riforma e con l’intera struttura del nuovo falso in bilancio caratterizzata da una estrema precisione nei suoi elementi costitutivi.
Diversamente, invece, il Legislatore non avrebbe fatto nessun passo avanti rispetto alla vecchia disciplina e alle molteplici interpretazioni che venivano date all’avverbio “fraudolentemente” contenuto nell’ abrogato art.2621 c.c. .
In ogni modo si dovranno comunque attendere le prime applicazioni di tali norme ai casi concreti per comprendere il corretto funzionamento delle soglie.
A primi risvolti in senso pratico abbiamo già assistito il giorno dopo l’entrata in vigore di tale decreto legislativo.
Infatti sono subito sorti problemi di carattere pratico processuali, quali la continuità tra la vecchia e la nuova disciplina e la procedibilità a querela per il delitto di false comunicazioni sociali nel caso di società non quotate in Borsa.
Con riferimento alla questione della continuità normativa possiamo brevemente esporre cosa è successo il giorno dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto legislativo presso il Tribunale di Milano nell’ambito di un noto processo per falso in bilancio.
In assenza di specifiche norme che stabiliscano se siano diventati penalmente irrilevanti i fatti integranti ipotesi di falso in bilancio o in altre comunicazioni sociali commessi prima della riforma, i difensori degli imputati non avevano perso tempo a presentare istanze di archiviazione per i processi in corso, sostenendo che i fatti contestati ai loro assistiti non sarebbero più previsti come reati.
Questa mossa degli avvocati, abbastanza logica e prevedibile, ha dato vita ad un acceso dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina sulla successione temporale delle leggi (art.2 c.p.), ossia se le nuove norme hanno comportato la completa abrogazione di quelle precedenti oppure no.
Secondo la prevalente se pur ancora scarsa giurisprudenza il criterio preferibile da seguire è quello che si basa sul rapporto strutturale delle fattispecie, grazie al quale si può sostenere che sia stata abrogata una disposizione di legge generale (il vecchio art. 2621 c.c.) e che siano state introdotte al suo posto due disposizioni speciali (gli attuali articoli 2621 e 2622 c.c.) che contemplano le tre ipotesi di reato (una contravvenzionale e due delittuose) caratterizzate da un numero maggiore di elementi costitutivi.
Sulla base di questo criterio, quindi, solo i comportamenti pregressi che non rientrano nell’ambito delle nuove e più ristrette disposizioni incriminatrici perderebbero rilievo penalistico, sicchè solo nei loro confronti si potrebbe parlare di vera e propria abolitio criminis.
E’ su questa linea, quindi, l’importante ordinanza pronunciata dai giudici della seconda Sezione penale del Tribunale di Milano il 23 aprile 2002 in risposta alle istanze di archiviazioni. Infatti in questa i giudici, dopo aver esaminato gli elementi costitutivi delle attuali fattispecie di false comunicazioni sociali e dopo aver posto a confronto la vecchia e la nuova disposizione di legge, hanno osservato che le nuove condotte sono strutturalmente assimilabili a quelle della normativa previgente, in quanto il nucleo centrale del fatto rimane lo stesso.
In sostanza, si legge nell’ordinanza: “le attuali incriminazioni aggiungerebbero agli elementi costitutivi della fattispecie precedente alcuni elementi specializzanti, realizzando così uno dei modelli tipici di successione nel tempo di fattispecie incriminatrici delineati da dottrina e giurisprudenza”.
A sostegno di questa tesi, ci sarebbe anche la volontà del legislatore come rivelano alcuni indici normativi: 1) il riferimento, nell’art.1 del decreto legislativo n.61/2002, non all’abrogazione, ma alla sostituzione del precedente art.2621 c.c., 2) il mantenimento della medesima collocazione nel Codice Civile, pur con lo sdoppiamento del reato in due diverse ma contigue disposizioni di legge, 3) l’utilizzazione dello stesso nomen iuris di false comunicazioni sociali, 4) la previsione di un regime transitorio assolutamente incompatibile con l’introduzione di una nuova incriminazione, essendo stata contemplata nell’art.5 dello stesso decreto legislativo la possibilità di proporre querela in ordine ai reati perseguibili in tal modo commessi prima dell’entrata in vigore della riforma.
Contro questa impostazione giurisprudenziale, un’autorevole dottrina capeggiata dal Musco ritiene che la riforma dei reati societari presenta, senza alcuna ombra di dubbio, un carattere evidente di discontinuità rispetto alla precedente legislazione e alla prassi applicativa formatasi sotto la vigenza del precedente testo normativo.
Tali affermazioni si basano fondamentalmente su un ineccepibile orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione che, valorizzando i profili di diversità strutturale fra le fattispecie, ritiene che ci sia abolitio criminis tutte le volte in cui si sia in presenza di segni di “disomogeneità strutturale”.
Questa disomogeneità, secondo le Sezioni Unite, si desume da tre indici: 1) diversa natura dell’illecito; 2) previsione di un dolo specifico; 3) realizzazione dell’evento.
Applicando, quindi, questi parametri alla nuova disciplina, la dottrina sostiene che la sola coerente conclusione non può che essere nel senso dell’abrogazione del vecchio reato di falso, con tutte le conseguenze che devono, per legge, discendere.
Ultima novità rilevante in materia procedurale è la previsione, nell’art.2622 c.c., della querela in ipotesi di falso in bilancio in danno dei soci o dei creditori per le società non quotate in Borsa.
Bisogna evidenziare che per i reati commessi dopo l’entrata in vigore nulla quaestio, mentre per quelli pregressi il Legislatore, come sopra accennato, ha previsto all’art.5 del decreto legislativo che il termine per la proposizione della querela decorre dalla data di entrata in vigore della riforma stessa.
Ne deriva quindi che per questi ultimi reati gli interessati dovranno attivarsi per presentare la querela entro tre mesi così come sancito dall’art.124 c.p.
Qualora i danneggiati non intendano presentare la querela, la perseguibilità dei responsabili della società che hanno commesso le falsità potrà avvenire solo a titolo contravvenzionale a norma dell’art.2621 non sussistendo, in concreto, alcun danno.
Per concludere, si può notare che, con l’introduzione delle novità sopra esaminate, la riforma dei reati societari anche se da un punto di vista strutturale si può ritenere completa ed omogenea rispetto alla disciplina precedente, da un punto di vista pratico invece darà vita a numerosi problemi di carattere applicativo, per la cui soluzione ci si dovrà affidare alle valide capacità critiche ed interpretative degli operatori del diritto.
STUDIO LEGALE GGM