La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata sul contratto di lavoro temporaneo, ed, in particolare, sulla sanzione applicabile in caso di superamento del termine di prestazioni convenuto in tale contratto (Cass. Sez. Lav. Sent. del 27/02/2003 n. 3020).

Si tratta di una sentenza di indubbio interesse, nell’ambito della quale viene per la prima volta proposta una diffusa argomentazione relativa alla struttura e alla funzione di tale contratto.

Per meglio comprendere l’iter logico – giuridico seguito dalla Cassazione, è opportuno, in primo luogo, considerare le molteplici e tra loro contrapposte esigenze alla base dell’introduzione del c.d. lavoro interinale.

Innanzi tutto, si è registrato il bisogno delle imprese di poter disporre di una forza lavoro idonea a fronteggiare esigenze temporanee, non tipizzate, lasciando la gestione normativa, retributiva e previdenziale del rapporto ad altra impresa, specializzata nel reclutamento di personale idoneo a sopperire ad esigenze temporanee. Allo stesso tempo, il legislatore si è posto l’obiettivo di semplificare ed incentivare lo sbocco occupazionale soprattutto per le fasce giovanili. Da un lato, dunque, il principio di flessibilità e l’interesse delle imprese a usufruire di nuclei lavorativi mobili, dei quali aver la sola gestione tecnico – produttiva; dall’altro, l’interesse del lavoratore ad un rapido accesso al mondo del lavoro.

Proprio per rispondere a tali esigenze, il legislatore è ricorso allo schema strutturale complesso del contratto di lavoro temporaneo, disciplinato dagli artt. 1 e 3 della legge n. 196 del 24 giugno 1997. Tale tipologia contrattuale è infatti composta da un contratto di lavoro a termine o indeterminato concluso tra l’impresa fornitrice di manodopera e i lavoratori, qualificabile come contratto per prestazione di lavoro temporaneo, da un contratto tra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice, qualificabile come contratto di fornitura di lavoro temporaneo, nonché dall’avvio, da parte dell’impresa fornitrice, di lavoratori da essa assunti presso l’impresa utilizzatrice, qualificabile come rapporto giuridico tra impresa utilizzatrice e lavoratori temporanei.

La fattispecie del lavoro interinale è costituita, pertanto, da un rapporto trilatere, composto da due contratti strutturalmente autonomi ma funzionalmente collegati e da un rapporto giuridico tra impresa utilizzatrice e prestatori di lavoro.

È, inoltre, prevista una scissione tra titolarità giuridica del rapporto di lavoro ed effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa. I lavoratori temporanei vengono, infatti, assunti dall’impresa fornitrice di lavoro, ma prestano la propria attività presso l’impresa utilizzatrice, estranea al rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra il lavoratore stesso e l’impresa fornitrice. Nell’ambito di tale distinzione, dunque, l’impresa fornitrice assume il ruolo di datore di lavoro, privo, però, di potere gestionale nei confronti del lavoratore. Esiste, quindi, una separazione fra gestione normativa (in capo all’impresa fornitrice) e gestione tecnico – produttiva (in capo all’impresa utilizzatrice) del lavoratore.

Nel caso di specie, il lavoratore temporaneo aveva prestato attività lavorativa oltre dieci giorni dalla scadenza del termine previsto dal contratto per prestazione di lavoro temporaneo, contratto concluso tra il lavoratore stesso e l’impresa fornitrice di manodopera. Tale termine non coincideva con quello, più lungo, contemplato dal contratto di fornitura di manodopera, concluso tra l’impresa fornitrice e quella utilizzatrice.

Il lavoratore, pertanto, a seguito della comunicazione dell’impresa fornitrice in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro, chiedeva in giudizio l’accertamento della trasformazione del contratto di lavoro temporaneo in rapporto a tempo indeterminato, per superamento del termine convenuto nel contratto di prestazione di lavoro temporaneo. Tale richiesta veniva formulata, alternativamente, nei confronti di entrambe le imprese.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso presentato dal lavoratore, identificando nel contratto di prestazioni di lavoro temporaneo il “contratto – base” della complessa fattispecie in esame, ha condannato l’impresa utilizzatrice a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

La regolamentazione del rapporto di lavoro, afferma infatti la Suprema Corte, nella quale l’elemento essenziale è costituito dalla sua durata, risiede esclusivamente nel contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, il quale costituisce, pertanto, la fonte normativa di riferimento dell’intera fattispecie contrattuale.

Tale contratto, sempre secondo la Cassazione, produce effetto anche nei confronti del soggetto utilizzatore della prestazione lavorativa, benché esso sia estraneo alla stipulazione dello stesso. Pertanto, l’inconsapevolezza o l’ignoranza del contenuto del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo (contratto, lo si ripete, stipulato tra l’impresa fornitrice e i lavoratori) da parte dell’impresa utilizzatrice “rimane irrilevante, rientrando la fattispecie legislativa in esame nei casi di efficacia contrattuale che necessariamente si estende a tutti i soggetti che hanno partecipato al procedimento negoziale; che pur articolandosi in distinti negozi, ciascuno caratterizzato da una sua autonoma funzione, inerisce agli stessi – indivisibilmente – per la integrazione che  /…/ tale procedimento realizza tra i loro interessi”

La sanzione prevista dall’art. 10 comma 3 della legge 196/97, che comporta la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sanzione applicabile in caso di superamento di oltre dieci giorni del termine di durata della prestazione lavorativa) è prevista esclusivamente nei confronti dell’impresa utilizzatrice.

Nell’ambito della fattispecie in esame, sostiene infatti la Corte, il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo costituisce la fonte esclusiva della disciplina normativa del rapporto di lavoro, “/…/ ed al suo contenuto va fatto riferimento per accertare l’assoggettamento dell’impresa utilizzatrice alla sanzione prevista dal comma 3 dell’art. 10 L. 196/97, con la conseguenza che in caso di contrasto tra il termine finale contenuto nel contratto di prestazione di lavoro e quello contenuto nel contratto di fornitura, ai fini predetti, ha rilievo unicamente il termine contenuto nel primo contratto /…/”.

La sentenza n. 3020/2003 è di notevole importanza proprio alla luce delle argomentazioni svolte dal Collegio in ordine al complesso schema strutturale del contratto di lavoro temporaneo. Tuttavia, tale ricostruzione della complessa fattispecie non sembra di per sé sufficientemente idonea a sostenere la conclusione cui è giunta la Corte.

La Cassazione, a motivazione delle proprie argomentazioni, arriva ad individuare in capo all’utilizzatore non  solo generici “obblighi di correttezza e buona fede che non lasciano spazio ad alcuna inconsapevolezza”, ma addirittura lo specifico obbligo di conoscere quanto pattuito tra il lavoratore e l’impresa fornitrice nel contratto per prestazione di lavoro, contratto rispetto al quale egli è terzo. Nella sentenza si legge infatti che è “/…/ obbligo primario dell’utilizzatore, nell’accingersi a gestire le energie lavorative procacciategli dall’impresa fornitrice, controllare l’esatto contenuto del contratto di prestazione di lavoro temporaneo, che costituisce il titolo che gli consente di gestire il lavoratore.”

Al riguardo paiono opportune due brevi considerazioni. In primo luogo, manca nella legge che disciplina la fattispecie contrattuale in esame una norma che preveda un obbligo avente tale oggetto in capo all’impresa utilizzatrice. Nel silenzio della legge, la conclusione della Corte, che giunge ad individuare uno specifico obbligo alla cui inosservanza fa seguito una specifica sanzione, si rivela quantomeno audace. In un contesto simile, infatti, il semplice riferimento alle clausole generali di correttezza e buona fede non pare sufficiente, dal momento che l’obbligo di informazione gravante sul soggetto utilizzatore, così come delineato dalla Cassazione, è prossimo ad un vero e proprio onere.

Dall’affermazione di tale opinabile principio derivano conseguenze non certo logiche ed eque. Più specificamente, l’impresa utilizzatrice, rimasta del tutto estranea al rapporto tra l’impresa fornitrice e il lavoratore, e quindi inconsapevole del contenuto del relativo contratto, si troverebbe esposta all’applicazione della sanzione che prevede la trasformazione del rapporto da temporaneo a tempo indeterminato, senza alcuna possibilità di agire giudizialmente nei confronti dell’impresa fornitrice per il ristoro dei danni conseguenti a tale trasformazione. Il che pare veramente eccessivo.

In secondo luogo, l’interpretazione prospettata dalla Corte pare in contrasto con le esigenze di flessibilità che hanno spinto il legislatore ad introdurre l’ipotesi contrattuale in oggetto. Si rileva, infatti, che un simile obbligo in capo all’impresa utilizzatrice avrebbe l’effetto di rallentare il procedimento di fornitura, e quindi di avviamento al lavoro, degli stessi lavoratori. In questo modo si rischierebbe di imbrigliare proprio il meccanismo fondamentale dell’intera fattispecie, ossia quello che garantisce alle imprese la disponibilità di nuclei di lavoro mobili, e ai lavoratori un accesso più rapido al mondo del lavoro.

Trattandosi, tuttavia, di una delle prime sentenze di legittimità sul contratto di lavoro interinale, le conclusioni cui è giunta la Cassazione non costituiscono ancora un vero e proprio orientamento giurisprudenziale, idoneo, quindi, ad indirizzare l’interpretazione della normativa in vigore. Per un esame più approfondito della questione giuridica in oggetto è necessario, oltre che opportuno, attendere nuove pronunce in merito.

STUDIO LEGALE GGM