Gli articoli dal 41 al 45 del decreto legislativo n.273/2003 delineano, in attuazione dell’articolo 4 della legge 30/2003, la fattispecie del lavoro ripartito (job sharing), ossia della prestazione lavorativa ripartita tra due lavoratori obbligati in solido verso il datore di lavoro per la sua esecuzione.

Tale istituto non è una novità introdotta dalla legge di riforma del mercato del lavoro, essendo stato per la prima volta disciplinato per via amministrativa nel 1998, attraverso la circolare n. 43 del 7 aprile 1998 del Ministero del Lavoro. L’odierna disciplina legislativa è finalizzata al superamento dei diversi ostacoli alla diffusione dell’istituto sorti a causa delle difficoltà esistenti (e non del tutto risolte dalla circolare) nell’individuare la disciplina applicabile ai rapporti interni caratterizzanti detta ipotesi contrattuale.

L’articolo 41 del decreto attuativo definisce, al primo comma, il job sharing come “uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa”. Il termine “identica” riferito all’obbligazione assunta dai due lavoratori parrebbe ripetitivo, dal momento che l’obbligazione dedotta nel contratto in esame è comunque “unica”. Come suggerito dai primi commentatori, è probabile che il Legislatore intendesse riferire il termine non all’obbligazione contrattuale, bensì alle mansioni che i due lavoratori devono svolgere, le quali dovrebbero, quindi, essere identiche tra loro.

Sotto il profilo giuridico, la fattispecie in esame è riconducibile all’articolo 1292 c.c., secondo cui l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascun condebitore può essere costretto all’adempimento dell’intera prestazione e l’adempimento da parte di un solo debitore libera gli altri.

Il secondo comma dell’articolo 41 specifica che “fatta salva una diversa intesa tra le parti contraenti, ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa”. Tale previsione è in perfetta linea con la disciplina codicistica, in base alla quale, infatti, la solidarietà passiva si presume sempre, se dalla legge o, come in questo caso, dal titolo non risulti una diversa regolamentazione.

Secondo il quarto comma della stessa disposizione “eventuali sostituzioni da parte di terzi, nel caso di impossibilità di uno o entrambi i lavoratori coobbligati, sono vietate e possono essere ammesse solo previo consenso del datore di lavoro”. La norma in esame specifica infatti che, salvo diversa intesa tra le parti, sia “l’impedimento di entrambi i lavoratori” (art. 41 comma 6) che “le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale” (art. 41 comma 5). Gli intuibili problemi applicativi determinati dalle previsioni legislative appena riportate verranno illustrati nel prosieguo della presente circolare, nella parte dedicata alle problematiche connesse ai casi di scioglimento del vincolo contrattuale.

Il quinto comma prosegue stabilendo che l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale può non verificarsi “se, su richiesta del datore di lavoro, l’altro prestatore di lavoro si renda disponibile ad adempiere l’obbligazione lavorativa, integralmente o parzialmente, nel qual caso il contratto di lavoro ripartito si trasforma in un normale contratto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 del Codice civile”.

Di difficile comprensione risulta il riferimento operato dal Legislatore ad un adempimento anche solo parziale dell’obbligazione lavorativa. Che fattispecie contrattuale costituirebbe un adempimento parziale di un’obbligazione lavorativa? Il job sharing, anche laddove fosse stato concluso a tempo indeterminato, si trasformerebbe in lavoro a tempo determinato laddove il lavoratore si rendesse disponibile ad un adempimento solo parziale dell’obbligazione? O il datore di lavoro dovrebbe, in questa ipotesi, assumere un altro lavoratore coobbligato?

Nessuno di questi interrogativi sembra trovare risposta nel testo legislativo, il quale si limita a prevedere l’ipotesi di un adempimento anche solo parziale, senza disciplinarne le conseguenze giuridiche. Su questo, come su altri punti poco chiari della disciplina legislativa in esame, non resta che attendere le prime circolari interpretative del Ministero.

Il terzo comma dell’articolo 41 dispone che “fatte salve diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o accordi collettivi, i lavoratori hanno la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro”. Del rimando alla contrattazione collettiva ci occuperemo nel prosieguo della presente circolare, nella parte dedicata alla disciplina applicabile all’istituto del lavoro ripartito. Quello che adesso preme esaminare è l’ampio margine di discrezionalità di cui i lavoratori coobbligati possono disporre.

La notevole discrezionalità organizzativa riconosciuta ai lavoratori non deve far pensare che ci si trovi di fronte ad una fattispecie di lavoro autonomo (come qualche commentatore ha velatamente ipotizzato). Nonostante i numerosi problemi di raccordo tra la il decreto legislativo in esame e la disciplina codicistica del lavoro subordinato, l’istituto del job sharing ricade senz’altro in quest’ultima ipotesi. A sostegno di questa interpretazione sta la terminologia impiegata dal Legislatore nel delineare il lavoro ripartito, terminologia che opera continui riferimenti ad istituti tipici del lavoro subordinato (licenziamento, dimissioni, malattia). Inoltre, come verrà illustrato, il decreto legislativo in esame dispone espressamente che il job sharing, in assenza di contratti collettivi, è regolato dalla normativa generale del lavoro subordinato (art. 43, comma 2).

Qual è, dunque, il significato di una simile discrezionalità riconosciuta ai lavoratori nella determinazione del loro orario di lavoro? L’insieme delle facoltà concesse ai lavoratori coobbligati costituisce una sorta di bilanciamento rispetto alla responsabilità che essi si assumono con il contratto di lavoro ripartito nei confronti del datore di lavoro. Questa interpretazione è suffragata dalla lettura della norma stessa, che prosegue stabilendo che, in caso di sostituzioni o di modifiche dell’orario di lavoro, appunto “il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti a uno dei coobbligati è posta in capo all’altro obbligato” (art. 41, comma 3).

I risultati applicativi di una simile previsione legislativa sono particolarmente evidenti nelle ipotesi in cui le sostituzioni o le modifiche dell’orario di lavoro siano motivate da malattia o da maternità. In questi casi il lavoratore che sta regolarmente svolgendo l’attività si accollerà per intero l’obbligazione assunta nei confronti del datore di lavoro. In questo modo, il rischio dell’inadempimento della prestazione lavorativa non andrebbe mai a ricadere sul datore di lavoro.

Come si è avuto modo di cogliere dall’esame del primo articolo dedicato al lavoro ripartito, il tratto caratterizzante dell’istituto consiste nel vincolo solidale che lega i due lavoratori coobbligati. Tale vincolo costituisce, come abbiamo illustrato, lo strumento con il quale il Legislatore ha voluto tutelare il datore di lavoro, fornendogli una sorta di “garanzia” che gli assicuri l’adempimento della complessiva obbligazione contrattuale.

La disciplina delineata dal decreto, tuttavia, consentendo alle parti contraenti di apporvi, laddove espressamente previsto, delle deroghe e di concordare diversamente rispetto alle previsioni legislative, concede alle parti la possibilità di graduare il livello di solidarietà nell’esecuzione del rapporto di lavoro (art. 41. comma 2, 4, 5 e 6).

Soffermiamoci, ora, sulla forma del contratto di job sharing. Il Legislatore, nell’intento di tutelare questa nuova ipotesi contrattuale da eventuali tentativi di abuso e per dare maggior certezza ai rapporti da essa originati, ha disposto la forma scritta del contratto ai soli fini della prova dei seguenti elementi:

a)      la misura percentuale  e la collocazione temporale del lavoro giornaliero, settimanale, mensile o annuale che si prevede venga svolto da ciascuno dei lavoratori coobbligati secondo le intese tra loro intercorse (ancora una volta si pone l’accento sull’assoluta libertà dei lavoratori di autodeterminarsi l’orario di lavoro, fermo restando il rispetto dell’orario complessivo convenuto con il datore di lavoro);

b)      il luogo di lavoro, il trattamento economico e normativo spettante a ciascun lavoratore (in relazione alle ore di lavoro effettivamente svolte dal singolo lavoratore);

c)      le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto (art. 42, comma 1).

Il contratto può, dunque, essere concluso anche verbalmente.

Il secondo comma dello stesso articolo dispone che “ai fini della possibilità di certificare le assenze, i lavoratori sono tenuti ad informare preventivamente il datore di lavoro, con cadenza almeno settimanale, in merito all’orario di lavoro di ciascuno dei soggetti coobbligati”. A fronte dell’autonomia gestionale dei lavoratori in merito alla determinazione dell’orario lavorativo c’è, dunque, l’obbligo di informarne il datore di lavoro. Tali informazioni sono infatti indispensabili per determinare sia il trattamento economico e normativo, essendo questo proporzionato alla prestazione lavorativa effettivamente svolta, sia il trattamento previdenziale e retributivo in caso di malattia o di legittimo impedimento al lavoro.

Il Legislatore non ha specificato se il contratto di job sharing si possa stipulare solo in caso di rapporto a tempo indeterminato oppure anche nei casi di rapporto a termine. In linea di principio, sussistendo le motivazioni di un contratto a tempo determinato, non dovrebbero esserci ostacoli alla stipulazione a termine di un contratto di lavoro ripartito.

La disciplina applicabile alla fattispecie del job sharing, salvo quanto stabilito nel decreto in esame, è demandata, come abbiamo sopra accennato, alla contrattazione collettiva (art. 43, comma 1). In assenza di contratti collettivi, si applicano le disposizioni generali relative al rapporto di lavoro subordinato (art. 43, comma 2). Il Legislatore ha, infatti, disciplinato l’istituto con una regolamentazione di contorno, in quanto la disciplina di dettaglio è rimessa, oltre che alla volontà delle parti (si pensi alla clausola “salve diverse intese tra le parti”), alla contrattazione collettiva o, in mancanza, alla normativa generale del lavoro subordinato “in quanto compatibile con la particolare natura del rapporto di lavoro ripartito” (art.43, comma 2).

Questa disposizione, apparentemente lineare e di immediata fruibilità, apre la strada a numerose questioni interpretative cui il testo di legge non fornisce soluzione alcuna. La maggior parte dei problemi applicativi cui l’istituto del job sharing andrà in contro sono dovuti proprio all’incompatibilità tra fondamentali istituti del rapporto di lavoro subordinato, applicabili in mancanza di contratti collettivi, e la fattispecie del lavoro ripartito. Come sopra brevemente accennato, infatti, lo scioglimento del vincolo di uno solo dei due lavoratori (art. 41, comma 5) comporta, salvo diversa intesa tra le parti, l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale, conseguenza, questa, difficilmente conciliabile con la disciplina del lavoro subordinato.

I problemi riguardano non soltanto il caso limite del licenziamento di uno dei due lavoratori per giusta causa, ovvero per giustificato motivo soggettivo, o, ancora, per motivi disciplinari (provvedimento che, stando a quanto stabilito dal quinto comma dell’articolo 41, determina la risoluzione del rapporto anche con il lavoratore non colpito dal licenziamento), ma anche i casi di dimissioni per giusta causa, con diritto, quindi, all’indennità sostitutiva del preavviso (casi, anche questi, espressamente disciplinati dalla stessa norma). In una simile ipotesi, l’altro coobbligato, oltre a subire l’estinzione del rapporto, non avrebbe diritto ad alcuna indennità.

Il Legislatore, infatti, come abbiamo già accennato,  al riguardo stabilisce che l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale può non verificarsi soltanto “se, su richiesta del datore di lavoro, l’altro prestatore di lavoro si renda disponibile ad adempiere l’obbligazione lavorativa”. Questa possibilità, lo si ribadisce, è, però, una prerogativa esclusiva del datore di lavoro. Come denunciato dai primi commentatori, l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale, conseguenza decisamente lontana dalla disciplina dei rapporti di lavoro subordinati, condurrebbe ad individuare una responsabilità oggettiva in capo al coobbligato per le azioni compiute dall’altro coobbligato.

Non si porrebbe, al contrario, alcun problema nell’ipotesi di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto, in tal caso, trattandosi di ragioni legate alla natura dell’attività, è naturale che siano coinvolti entrambi i lavoratori coobbligati.

Su queste questioni, assai complesse e delicate, vista la laconicità del testo legislativo, si dovranno attendere le previste circolari interpretative del Ministero e le prime interpretazioni giurisprudenziali.

Nessun problema pone, invece, il principio di non discriminazione, valido anche per i lavoratori assunti con il contratto in esame. Infatti, come stabilito dal primo comma dell’articolo 44, “fermi restando i divieti di discriminazione diretta e indiretta previsti dalla legislazione vigente, il lavoratore ripartito non deve ricevere, per i periodi lavorati, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte”.

Il trattamento economico e normativo dei lavoratori coobbligati è proporzionato alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita, “in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, congedi parentali” (art. 44, comma 2).

Il terzo comma dello stesso articolo stabilisce che “ciascuno dei lavoratori coobbligati ha diritto di partecipare alle riunioni assembleari di cui all’articolo 20, legge 20 maggio 1970, n. 300, entro il previsto limite complessivo di dieci ore annue, il cui trattamento economico verrà ripartito tra i coobbligati proporzionalmente alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita”.

In conclusione, ai fini delle prestazioni dell’assicurazione generale e obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, dell’indennità di malattia e di ogni altra prestazione previdenziale e assistenziale, i lavoratori coobbligati assunti con contratto di lavoro ripartito sono assimilati ai lavoratori a tempo parziale (art. 45).

Non è dovuta, come specificato nel testo di legge, “la contribuzione per l’assicurazione per la corresponsione degli assegni per il nucleo familiare, i quali sono comunque erogati secondo i criteri previsti per i lavoratori a tempo parziale, con oneri a carico della gestione per gli interventi assistenziali e di sostegno costituita presso l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale” (art. 45). Il Legislatore ha, in questo modo, introdotto uno sgravio contributivo a favore del datore di lavoro che scelga di avvalersi dell’ipotesi contrattuale in esame.

Il calcolo delle prestazioni previdenziali e dei contributi è effettuato non preventivamente, come per il lavoro a tempo parziale, bensì su base mensile, “dividendo l’importo delle retribuzioni per il numero dei lavoratori che risultano obbligati al momento di inizio dell’evento, salvo conguaglio a fine anno a seguito dell’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa” (art. 45).

Al riguardo, va rilevata l’assenza di un regime transitorio che, anche se non necessario per l’attuazione dell’istituto così come oggi disciplinato, sarebbe utile per la gestione dei contratti già stipulati con più di due lavoratori, in base alla disciplina dettata dalla citata circolare n. 43 del 1998 precedentemente in vigore.

L’istituto in esame, in mancanza di un esplicito richiamo operato dal decreto legislativo, parrebbe non applicarsi al settore del pubblico impiego.

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