Gli articoli dal 70 al 73 del decreto legislativo n.273/2003 delineano, in attuazione dell’articolo 4 comma 1, lett. d della legge 30/2003, la fattispecie delle prestazioni occasionali di tipo accessorio, definendo tali prestazioni come quelle “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mondo del lavoro, ovvero in procinto di uscirne” (art. 70, comma 1).

L’istituto in esame è una novità introdotta dalla legge di riforma del mercato del lavoro. Tale scelta legislativa risponde a due diverse finalità: da un lato, l’intento di  tutelare quelle forme di lavoro che, per il loro carattere “secondario” e discontinuo, rischiano di sfuggire alle tutele fornite dalle disposizioni legislative, rimanendo spesso nel mondo del sommerso; dall’altro, l’impegno a favorire l’inserimento di fasce cosiddette “deboli” nel mondo del lavoro.

L’articolo 70 del decreto attuativo definisce, sempre al primo comma, l’ambito nel quale la fattispecie in esame può trovare applicazione, elencando i seguenti settori:

a)    piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o portatrici di handicap;

b)   insegnamento privato o supplementare;

c)    piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti;

d)   realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli;

e)    collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà.

La specificità delle attività richiamate dal Legislatore lascia intendere che, come anche suggerito dai primi commentatori, l’elencazione sopra riportata abbia carattere tassativo e non meramente esemplificativo.

Riguardo ai settori indicati dal decreto quali ambito di applicabilità dell’istituto in esame, una parte dei primi commentatori ha mosso alcune critiche alla locuzione “occasionale accessorio” usata dal Legislatore. Secondo alcuni, infatti, tale locuzione condurrebbe a risultati pratici contraddittori, vanificando l’intento della riforma di fornire tutela a quei rapporti di lavoro che spesso rimangono nel sommerso.

Se è vero che un’area in cui è particolarmente frequente l’irregolarità del rapporto di lavoro è quella dei servizi domestici resi alla famiglia e delle prestazioni rese a favore di istituzioni che svolgono assistenza sociale, il riferimento al carattere di “occasionalità” rischierebbe, allora, di impedire la regolarizzazione di attività che implicano una certa continuità (si pensi, ad esempio, all’assistenza a persona anziane o portatrici di handicap). Il criterio della “accessorietà, inoltre, escluderebbe dal nuovo istituto tutte quelle attività che rivestono  natura essenziale per il soggetto fruitore.

Proseguendo, però, nell’esame della disciplina dettata per le prestazioni occasionali di tipo accessorio, si coglie l’esplicita volontà del Legislatore di escludere dall’applicazione delle norme in esame tutte quelle attività caratterizzate dalla continuità e dall’essenzialità.

Il secondo comma dell’articolo 70, infatti, introduce due requisiti di natura oggettiva che caratterizzano la fattispecie in esame delimitandone ulteriormente l’ambito di applicazione: le attività lavorative elencate al primo comma configurano, infatti, prestazioni occasionali di tipo accessorio solo se “coinvolgono il lavoratore per una durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare” e se “non danno complessivamente luogo a compensi superiori a 3 mila euro sempre nel corso di un anno solare”. Tali limiti temporali ed economici devono essere rispettati anche nel caso in cui le attività lavorative siano svolte a favore di più beneficiari.

L’articolo 71, comma 1, fornisce, invece, l’elenco, anch’esso con carattere tassativo, delle categorie di soggetti abilitati a svolgere attività di lavoro accessorio, indicando:

a)      disoccupati da oltre un anno;

b)      casalinghe, studenti e pensionati;

c)      disabili e soggetti in comunità di recupero;

d)      lavoratori extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro.

Il secondo comma dell’articolo 71 delinea l’iter di accesso alla fattispecie in esame, ponendo a carico dei soggetti interessati a svolgere prestazioni di lavoro accessorio, e comunque appartenenti ad una delle categorie elencate, un onere di comunicazione. La norma dispone, infatti, che i soggetti interessati comunichino tale “loro disponibilità ai servizi per l’impiego delle Province, nell’ambito territoriale di riferimento, o ai soggetti accreditati di cui all’articolo 7”[1].

A seguito di tale comunicazione, i servizi provinciali per l’impiego o i soggetti pubblici o privati accreditati dalle Regioni (per la cui individuazione si rinvia a quanto si dirà nel prosieguo della presente circolare) inviano al soggetto interessato (a sue spese) una tessera magnetica di riconoscimento che attesta la sussistenza dei requisiti soggettivi indicati dalla legge (ossia, l’appartenenza ad una delle categorie di soggetti elencate dall’articolo 71, comma 1).

La disciplina del rapporto di lavoro accessorio è contenuta nell’articolo 72. L’elemento di maggiore novità introdotto dalla normativa in esame riguarda le modalità di assolvimento degli obblighi retributivi e contributivi da parte di chi decida di avvalersi della fattispecie in oggetto. Il primo comma dell’articolo 72 dispone infatti che coloro che vogliano usufruire di prestazioni accessorie devono acquistare “presso le rivendite autorizzate uno o più carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio del valore nominale di 7,5 euro”.

Il  lavoratore, una volta eseguita la prestazione, riceve dal proprio “datore di lavoro” un numero di buoni proporzionato al lavoro svolto. Egli “percepisce il proprio compenso presso uno o più enti o società concessionari di cui al comma 5 all’atto della restituzione dei buoni ricevuti dal beneficiario della prestazione di lavoro accessorio, in misura pari a 5,8 euro per ogni buono consegnato” (art. 72, comma 2).  Tale importo è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del lavoratore accessorio.

L’ente o la società concessionaria che incassa i buoni, una volta registrati i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore accessorio, provvede, per conto del lavoratore, stesso al pagamento dei contributi per fini previdenziali, versando alla gestione separata Inps l’importo di 1 euro per ogni ora di lavoro, e per fini assicurativi contro gli infortuni, versando all’Inail l’importo di 0,50 euro per ogni ora di lavoro (art. 72, comma 3). La differenza (venti centesimi per ogni ora) viene trattenuta dall’ente o società concessionaria a titolo di rimborso spese (art. 72, comma 4).

La norma non contiene alcun esplicito riferimento temporale collegato al valore del buono, con la conseguenza che il valore del singolo buono potrebbe sembrare non commisurato alla durata della prestazione. Come abbiamo appena illustrato, però, i versamenti contributivi per fini previdenziali e assicurativi vengono effettuati nella misura di 1,50 euro per ora (come espressamente detto dal Legislatore), detratti dall’importo complessivo di 7,5 euro, ossia dal valore nominale del singolo buono. Nonostante, dunque, la mancanza di un esplicito riferimento della norma, sembra plausibile che un buono corrisponda ad un’ora di prestazione.

Non è chiaro, tuttavia, in base a quale valore debba essere calcolata la soglia di 3 mila euro annui stabilita dal decreto per la configurabilità dell’istituto delle prestazioni accessorie. Non è stato, infatti, specificato dalla legge se tale importo vada calcolato sui 7,5 euro (valore nominale del buono) oppure sui 5,8 euro, retribuzione al netto delle trattenute Inps e Inail.

L’ultimo comma dell’articolo 72 prevede che “entro 60 giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel decreto legislativo (entrato in vigore il 24 ottobre 2003), il ministro del Lavoro e delle politiche sociali” individui “gli enti e le società concessionarie alla riscossione dei buoni, nonché i soggetti autorizzati alla vendita dei buoni e regolamenta, con apposito decreto, criteri e modalità per il versamento dei contributi di cui al comma 3 e delle relative coperture assicurative e previdenziali”.

Nonostante tale termine sia già scaduto, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali non ha ancora provveduto né all’individuazione degli enti e delle società autorizzate alla riscossione dei buoni, né alla regolamentazione dei criteri e delle modalità di assolvimento dell’obbligo contributivo.

Questo ritardo, seppur giustificabile dato il momento fitto di impegni e scadenze per il Ministero del Lavoro (ci si riferisce alla recenti circolari interpretative del ministero, l’ultima delle quali in materia di lavoro a progetto, e al decreto di autorizzazione delle Agenzie per il lavoro, attualmente all’esame della Corte dei Conti), provoca, di fatto, l’attuale inutilizzabilità dell’intero istituto.

L’articolo 73 predispone, attraverso l’istituzione di una banca dati informativa,  un sistema di circolazione delle informazioni relative all’andamento delle prestazioni previdenziali e alle entrate contributive legate all’utilizzo della fattispecie in esame. Il primo comma prevede, infatti, la stipula di un’apposita convenzione  tra Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Inps ed Inail “anche al fine di formulare proposte per adeguamenti normativi delle disposizioni di contenuto economico”.

Il secondo comma dello stesso articolo prevede che “decorsi 18 mesi dall’entrata in vigore del decreto, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali” predisponga “d’intesa con Inps e Inail una relazione sull’andamento del lavoro occasionale di tipo accessorio e ne” riferisca “al Parlamento”.

Il  carattere sperimentale dell’intera disciplina del lavoro accessorio viene ribadito nella disposizione finale del decreto legislativo. Ai sensi dell’articolo 86, comma 12, infatti, “decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali procede, sulla base delle informazioni raccolte /…/ ad una verifica con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale degli effetti delle disposizioni in esso contenute e ne riferisce al Parlamento entro tre mesi ai fini della valutazione della sua ulteriore vigenza”.

La fattispecie delle prestazioni occasionali accessorie fin qui illustrata non va confusa con il diverso istituto del lavoro occasionale, regolato dall’articolo 61 del decreto e definito come un rapporto di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro” (art. 61, comma 2). Le due discipline, nonostante le simili definizioni legislative, sono, come verrà illustrato, sostanzialmente molto diverse.

Come nell’ipotesi del lavoro accessorio, anche in questo caso il Legislatore pone due requisiti di natura oggettiva, uno temporale, l’altro economico, che caratterizzano la fattispecie delimitandone il campo di applicazione.

In entrambi i casi, dunque, si prevede una durata massima delle prestazioni pari a trenta giorni nell’arco dell’anno solare. Nell’ipotesi di lavoro occasionale, però, a differenza di quanto visto per le prestazioni accessorie, tale limite temporale deve essere  calcolato sulle giornate lavorative svolte presso lo stesso committente. Di fatto, dunque, il lavoratore occasionale potrà lavorare per più di trenta giorni nell’arco dello stesso anno, intrecciando rapporti lavorativi con più committenti, purché ogni singolo rapporto non superi il limite temporale stabilito dalla norma, e il compenso complessivamente percepito nell’anno non superi i 5 mila euro.

Nella fattispecie di cui all’articolo 61 la ratio del doppio vincolo riveste finalità diverse da quelle illustrate nel lavoro accessorio. L’obiettivo è, in questo caso, quello di prevenire facili elusioni della disciplina dettata per il nuovo istituto del lavoro a progetto.

L’articolo 61, infatti, dopo aver disposto al primo comma che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione /…/ devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o fasi di esso”, stabilisce l’esclusione da tale previsione delle prestazioni occasionali, ossia di quei rapporti caratterizzati dal doppio vincolo sopra illustrato (di durata non superiore a trenta giorni in un anno con lo stesso committente, e con un compenso non superiore a 5 mila euro) (art. 61, comma 2).

In questo modo, dunque, il Legislatore ha voluto impedire che la nuova disciplina del lavoro a progetto venisse aggirata attraverso la stipulazione di prestazioni occasionali fittizie.

I due istituti si differenziano anche riguardo al campo di applicazione oggettivo. Se per il lavoro occasionale accessorio il Legislatore ha stabilito con un elenco tassativo i settori in cui la fattispecie è applicabile, nel caso del lavoro occasionale non ci sono limiti di oggetto delle mansioni, salvo il vincolo di durata di cui si è detto.

Lo stesso discorso vale per il campo di applicazione soggettivo: nel lavoro occasionale non è previsto un elenco tassativo di categorie di lavoratori cui la norma si riferisce.

Diverso è, infine, il regime contributivo previdenziale stabilito per i due istituti (per quanto riguarda il lavoro accessorio si rimanda a quanto illustrato precedentemente).

Con la recente circolare n. 9 del 22 gennaio scorso, l’Inps chiarisce i riflessi in materia previdenziale delle prestazioni occasionali disciplinate dall’articolo 61 del decreto legislativo 276/03. Una lettura comparata del testo della circolare e delle norme del decreto può aiutare a districare quello che è stato definito il “rebus” dei versamenti sul lavoro occasionale.

L’ipotesi più semplice è quella in cui la singola prestazione occasionale (ossia, con lo stesso committente) superi il limite di trenta giorni e/o di 5 mila euro nel corso dell’anno. In questo caso il rapporto sarà soggetto alla disciplina del lavoro a progetto, anche dal punto di vista previdenziale (aliquota del 17,80 %, salvo il caso in cui il lavoratore sia già coperto da altra forma previdenziale. In quest’ultima ipotesi il contributo dovrebbe essere pari al 10%).

Nel caso in cui i limiti temporali ed economici non vengano superati, l’ente previdenziale opera un distinguo e stabilisce che, se la prestazione possiede i requisiti del coordinamento e della continuità (cosiddette collaborazioni “minime”) scatterebbe l’obbligo di versare i contributi previdenziali, e la misura dovrebbe essere quella prevista per le collaborazioni a progetto (aliquota del 17,80 %).

Nel caso in cui, al contrario, l’attività svolta non sia caratterizzata dal coordinamento e dalla continuità, ma ci si trovi in presenza di un lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 2222 C.c., non sono dovuti i contributi all’Inps.

Comprensibili problematiche conseguiranno sotto l’aspetto pratico, posto che prestazioni occasionali nei limiti previsti dal decreto (trenta giorni e 5 mila euro nel corso dello stesso anno solare) ben difficilmente potrebbero essere concretamente svolte senza un minimo di coordinamento e continuità. La circolare Inps è, sul punto, totalmente carente di chiarezza, e vuole artatamente creare  sub-categoria contributiva di cui non v’era certo necessità, né tantomeno traccia nel decreto legislativo n. 276 del 2003.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

STUDIO LEGALE GGM & PARTNERS

Il contenuto della presente circolare è frutto dell’attività di ricerca e di analisi svolta dai componenti dello studio legale Galanti Gelfi Meriggi & Partners.

La circolare è destinata unicamente ai clienti dello studio e, pertanto, la sua comunicazione a soggetti diversi dai destinatari, la sua ulteriore diffusione e/o riproduzione non autorizzata è vietata.

[1] Articolo 7: “Le Regioni, sentite le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, istituiscono appositi elenchi per l’accreditamento degli operatori pubblici e privati che operano nel proprio territorio nel rispetto degli indirizzi da essa definiti /…/ e dei seguenti principi e criteri:

a)   garanzia della libera scelta dei cittadini, nell’ambito di una rete di operatori qualificati, adeguata per dimensione e distribuzione alla domanda espressa nel territorio;

b)   salvaguardia di standard omogenei a livello nazionale nell’affidamento di funzioni relative all’accertamento dello stato di disoccupazione e al monitoraggio dei flussi del mercato del lavoro;

c)    costituzione negoziale di reti di servizio ai fini dell’ottimizzazione delle risorse;

d)   obbligo dell’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro di cui all’articolo 15, nonché l’invio all’autorità concedente di ogni informazione strategica per un efficace funzionamento del mercato del lavoro;

e)    raccordo con il sistema regionale di accreditamento degli organismi di formazione.

I provvedimenti regionali istitutivi dell’elenco di cui al comma 1 disciplinano altresì:

a)   le forme di cooperazione tra servizi pubblici e operatori privati, autorizzati ai sensi degli articoli 4, 5 e 6 o accreditati ai sensi del presente articolo, per le funzioni di incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevenzione della disoccupazione di lunga durata, promozione dell’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati, sostegno della mobilità geografica del lavoro;

b)   i requisiti minimi richiesti per l’iscrizione nell’elenco regionale in termini di capacità gestionali e logistiche, competenze professionali, situazione economica, esperienze maturate nel contesto territoriale di riferimento;

c)    le procedure per l’accreditamento;

d)   le modalità di misurazione dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi erogati;

e)    le modalità di tenuta dell’elenco e di verifica del mantenimento dei requisiti.”