Il capo I del titolo VII del Decreto Legislativo n. 276/03 ha ricevuto una prima (e tanto attesa) interpretazione autentica con la circolare n. 1/2004 pubblicata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’8 gennaio 2004. Il testo della circolare, recante per oggetto la “Disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità cosiddetta a progetto” detta le prime “istruzioni” sull’attuazione delle regole per i nuovi collaboratori.

In questa sede, dunque, esamineremo le soluzioni interpretative recentemente dettate dal Ministero, soluzioni che, ben s’intende, potrebbero anche non vincolare l’elaborazione giurisprudenziale, cercando di seguire l’ordine espositivo scelto dal testo e sottolineando quegli aspetti della disciplina che, a nostro avviso, continuano a presentare difficoltà interpretative e problematiche applicative.

Il primo punto del testo ministeriale è dedicato alla definizione e al campo di applicazione del nuovo istituto. La definizione è integralmente ripresa dall’articolo 61 del Decreto Legislativo 276/03, cui il Ministero opera un esplicito richiamo (sul punto, si rimanda, pertanto, alla circolare n. 50 già pubblicata sul sito www.onlinelex.com).

Per quel che riguarda il campo di applicazione, il Ministero precisa che l’articolo 61 del decreto non sostituisce né modifica l’articolo 409 n. 3 c.p.c., ma si limita ad individuare le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa del collaboratore a progetto. Tali modalità di svolgimento servono a qualificare la fattispecie sotto l’aspetto dell’autonomia (come illustreremo in seguito, infatti, ai sensi dell’art. 61, comma 1, il progetto o programma di lavoro o fase di esso è sì determinato dal committente, ma è poi gestito autonomamente dal collaboratore).

Al riguardo, si sottolinea, inoltre, che l’istituto del lavoro a progetto non comprende in sé l’intera area della cosiddetta parasubordinazione. Lo stesso articolo 61, infatti, opera una serie di esclusioni dall’applicazione della fattispecie in esame (prestazioni occasionali, ovvero collaborazioni coordinate e continuative “minori” per le quali non si è ritenuto necessario il riferimento ad un progetto; agenti e rappresentanti di commercio, che continuano ad essere regolati dalla disciplina speciale; professioni intellettuali, per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi esistenti alla data del 24 ottobre 2003; collaborazioni rese nei confronti di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni; componenti di organi di amministrazione e controllo di società; partecipanti a collegi e commissioni; collaboratori che percepiscono pensione di vecchiaia).

L’intento che emerge dalla disciplina dettata dal Legislatore, e che viene ribadito dalla circolare ministeriale, è quello di impedire un utilizzo improprio o fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative in elusione della normativa inderogabile del diritto del lavoro (le ipotesi espressamente escluse dall’applicazione del nuovo istituto sono, infatti, fattispecie che, data la loro limitata portata, non presentano significativi rischi di elusione della normativa inderogabile posta a tutela del lavoratore). Le considerazioni in merito all’effettivo raggiungimento di tale obiettivo non possono prescindere da una analisi relativa all’impianto sanzionatorio previsto per i casi di collaborazioni irregolari, del quale ci occuperemo nella parte conclusiva del presente lavoro.

Il Ministero ribadisce, infine, che le innovazioni introdotte dall’articolo 61 del decreto (lavoro a progetto e prestazioni occasionali) non comportano l’abrogazione della fattispecie del contratto d’opera di cui all’articolo 2222 e seguenti del codice civile. Nel caso in cui, dunque, un prestatore d’opera superi, nel rapporto con uno stesso committente, uno dei due requisiti dettati dall’articolo 61, comma 2 del decreto (trenta giorni nel corso dell’anno solare e compenso complessivamente percepito non superiore a 5 mila euro), il proprio rapporto non dovrà essere necessariamente ricondotto ad una collaborazione a progetto. Il contratto d’opera previsto dal codice continuerà, pertanto, ad esistere come fattispecie diversa ed autonoma rispetto alla collaborazione a progetto.

Sempre in materia di campo di applicazione, per quanto riguarda il settore della pubblica amministrazione, il testo ministeriale ribadisce che, ai sensi dell’articolo 1 del decreto, la stessa “può continuare a stipulare contratti di collaborazione senza tener conto dei limiti introdotti dalla novella, mantenendo il riferimento all’articolo 409 n. 3 del Codice di procedura civile, la cui previsione, per i rapporti che vedano una parte pubblica, non ha subito modificazioni”.

In conclusione, dunque, a partire dal 24 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del Decreto Legislativo 276/03), fatti salvi i casi in cui sia parte la pubblica amministrazione e le ipotesi di esplicita esclusione di cui all’articolo 61 del decreto 276/03 sopra richiamate, non è più possibile porre in essere rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che non siano riconducibili alla fattispecie del lavoro a progetto.

Secondo un’autorevole analisi dedicata proprio alla sorte dei rapporti di collaborazione posti in essere prima della riforma, e che quindi non fanno riferimento ad un progetto o a un programma di lavoro, solo le collaborazioni fittizie, ossia quelle che in sostanza configurano rapporti di lavoro subordinato, non sarebbero suscettibili di essere ricondotte ad un progetto. Questo perché, secondo tale lettura, “nell’ambito di un rapporto di lavoro effettivamente autonomo, seppure coordinato e continuativo, è sempre possibile individuare il progetto o programma che il collaboratore deve realizzare /…/. E, cioè, è sempre possibile individuare ex ante l’esposizione o il “piano” che le parti ritengono debba essere fatto per la realizzazione dell’opera o del servizio” (Intervento pubblicato su Il Sole-24 Ore del 22/11/03 del Prof. Giampiero Proia, Docente ordinario di Diritto del lavoro – Università Roma Tre).

Il secondo punto del testo ministeriale è, invece, dedicato ai requisiti qualificanti della fattispecie. Gli elementi essenziali richiamati, al riguardo, dalla circolare sono, prima ancora del riferimento al progetto (requisito del quale diremo nel prosieguo del presente lavoro), l’autonomia del collaboratore nello svolgimento dell’attività lavorativa dedotta nel contratto, la coordinazione con l’organizzazione del committente, e  l’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione. Tali requisiti, a detta del Ministero, “rappresentano il fulcro della differenziazione tra la tipologia contrattuale in esame e quelle riconducibili, da un lato, al lavoro subordinato e, dall’altro, al lavoro autonomo (articolo 2222 Codice civile)”.

Più precisamente, l’autonomia gestionale del collaboratore, elemento che maggiormente differenzia le collaborazioni a progetto dai rapporti di lavoro subordinato, riguarda “la definizione dei tempi di lavoro e delle relative modalità” di esecuzione del progetto, che, a quanto si legge nella circolare, “deve essere  rimessa al collaboratore”.

Tale assunto, apparentemente lineare, subisce, però, una compromissione nel prosieguo del testo stesso, ove si legge infatti che “indipendentemente da ciò, pur tuttavia, il collaboratore a progetto può operare all’interno del ciclo produttivo del committente e, per questo, deve necessariamente coordinare la propria prestazione con le esigenze del committente. Il coordinamento può essere riferito sia ai tempi di lavoro che alle modalità di esecuzione del progetto o del programma di lavoro, ferma restando, ovviamente, l’impossibilità del committente di richiedere una prestazione o un’attività esulante dal progetto o programma di lavoro originariamente convenuto”. L’individuazione di un punto di equilibrio tra l’autonomia gestionale del collaboratore e le esigenze del committente è, a quanto pare, lasciata alla contrattazione delle parti, dal momento che, sul punto, la circolare si limita ad enunciazioni di principio, senza fornire parametri concreti utili per l’interprete e per le stesse parti.

Per quanto concerne la durata del rapporto di collaborazione a progetto, si ribadisce semplicemente che questa deve essere determinata o determinabile, in funzione della durata e delle caratteristiche del progetto, del programma di lavoro o della fase di esso. Apparentemente in piena linea con quanto sopra, infatti, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, il contratto si risolve al momento della realizzazione del progetto o del programma di lavoro o della fase di esso. Molte perplessità suscita, infatti, il riferimento al concetto di “risoluzione” operato dal Legislatore e ripreso dal Ministero, dal momento che tale concetto rimanda ad un istituto civilistico ben preciso, i cui elementi non sono ravvisabili nell’ipotesi prevista dall’articolo 67, comma 1.

In tema di risoluzione del rapporto, l’ottavo punto della circolare aggiunge che, nel caso in cui il progetto venga ultimato prima della scadenza del termine previsto e il contratto debba, dunque,  intendersi risolto, “il compenso determinato nel contratto sarà dovuto comunque per l’intero”.

Per quanto riguarda, infine, il vero elemento di novità introdotto dalla riforma, il Ministero opera una distinzione tra i concetti di progetto e di programma di lavoro, riconducendo il primo ad “un’attività produttiva ben identificabile e funzionalmente collegata a un determinato risultato finale cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione”. Il programma di lavoro (assimilato alla fase di lavoro) è, invece, ricondotto ad un tipo di attività non direttamente collegata ad un risultato finale, bensì a un risultato solo parziale, destinato, dunque, ad essere integrato da altre lavorazioni e risultati parziali.

Il progetto, prosegue il testo ministeriale con un’affermazione foriera di intuibili problematiche interpretative ed applicative, può essere connesso sia all’attività principale dell’impresa, sia a quella accessoria; l’individuazione del progetto è, inoltre, di esclusiva competenza del committente, le cui valutazioni e scelte tecniche, organizzative e produttive rimangono insindacabili.

Nel terzo punto della circolare ministeriale, dedicato alla forma del contratto, si ribadisce che lo stesso è stipulato per iscritto ma che tale forma è richiesta ad probationem e non ad substantiam. Dopo l’elenco degli elementi che, ai fini della prova del rapporto, vanno inseriti nel contratto (sul punto si rimanda alla circolare n. 50 già pubblicata sul sito www.onlinelex.com) si sottolinea, però, che “seppure la forma scritta sia richiesta solo ai fini della prova, quest’ultima sembra assumere valore decisivo rispetto alla individuazione del progetto, del programma o della fase di esso (che, lo si ricorda, è uno degli elementi da indicare nel contratto) in quanto, in assenza di forma scritta, non sarà agevole per le parti contrattuali dimostrare la riconducibilità della prestazione lavorativa appunto a un progetto, programma di lavoro o fase di esso”. Sul punto, dalla semplice lettura del passaggio qui riportato, emerge una mal celata ambiguità di impostazione ideologica, probabilmente dovuta al tentativo di conciliare la tutela del collaboratore, da un lato, e la sostanziale libertà di forma, dall’altro.

Non ci si può sottrarre, inoltre, dal segnalare  che, nonostante il contenuto letterale dell’articolo 62 (e dell’articolo 69, di cui diremo nella parte conclusiva del presente lavoro), le prime interpretazioni della prevalente dottrina sono propense a ritenere che, nell’ipotesi di mancata individuazione in forma scritta di uno specifico progetto, o programma di lavoro, o fase di esso, sarebbe operante l’automatica ed immediata sanzione della conversione del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data della sua costituzione.

Il quarto punto del testo ministeriale riguarda le possibilità di rinnovo del contratto, possibilità non prevista nel decreto legge. Anche in questo caso, purtroppo, il contributo chiarificatorio apportato dalla circolare (sul punto, non soltanto interpretativa) è veramente di scarso spessore. A parte l’ipotesi in cui lo stesso collaboratore venga impiegato per la realizzazione di diversi e successivi progetti (o programmi di lavoro o fasi di esso), ipotesi, questa, che non solleva rilevanti perplessità, più controverso appare, invece, il caso in cui “analogo progetto o programma di lavoro può essere oggetto di successivi contratti di lavoro con lo stesso collaboratore”.

Considerando che, come si legge poco dopo, “i rinnovi, così come nuovi progetti in cui sia impiegato lo stesso collaboratore, non devono costituire strumenti elusivi dell’attuale disciplina”, non si comprende come addirittura lo stesso progetto possa essere oggetto di diversi e successivi contratti con lo stesso collaboratore senza che questo comporti l’elusione dell’attuale disciplina.

Il quinto punto della circolare, relativo al corrispettivo, riprende quanto stabilito nell’articolo 63 del decreto legislativo, disponendo che lo stesso “deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito”. Si ribadisce, inoltre, che il parametro scelto dal legislatore consiste nei “compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”.

Il testo ministeriale prosegue, poi, introducendo un aspetto di cui non v’è traccia nel decreto legislativo e stabilisce che le parti del rapporto possono “disciplinare nel contratto anche i criteri attraverso i quali sia possibile escludere o ridurre il compenso pattuito nel caso in cui il risultato non sia stato perseguito o la qualità del medesimo sia tale da comprometterne l’utilità”.

In tema di tutele, il punto 6 del testo ministeriale ribadisce la volontà del Legislatore di incrementare l’apparato di tutela in favore del collaboratore in caso di malattia, infortunio o gravidanza. Queste ipotesi, infatti, non comportano l’estinzione del rapporto, bensì la sua semplice sospensione (senza, naturalmente, erogazione del corrispettivo). Mentre, però, in caso di malattia o infortunio la sospensione non comporta una proroga del rapporto (salvo diverso accordo tra le parti), in caso di gravidanza la durata del rapporto è prorogata di diritto per un periodo minimo di 180 giorni (salvo, anche qui, disposizioni più favorevoli stabilite nel contratto individuale). In caso di malattia o infortunio, inoltre, il committente può esercitare il diritto di recesso solo se la sospensione si protrae per un periodo superiore a trenta giorni, nei contratti di durata determinabile, o superiore a un sesto della durata stabilita nel contratto, nei rapporti a tempo determinato.

In argomento di tutele, la circolare solleva, inoltre, una problematica che il Legislatore, nel disporre per i contratti in esame l’applicazione del Decreto legislativo n. 626 del 1994, non aveva considerato. Riguardo alla protezione fornita da tale decreto contro i rischi lavorativi, infatti, il Ministero considera la ratio del decreto stesso, ossia la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori subordinati, e la conseguente responsabilizzazione dei datori di lavoro.

Conseguentemente, il Ministero osserva come “non poche prescrizioni di tale provvedimento (per lo più sanzionate penalmente) risultano di problematica applicazione nei confronti di figure, come quelle dei collaboratori, fortemente connotate da una componente di autonomia nello svolgimento della prestazione”.

Alla luce di quanto sopra, il Ministero conclude evidenziando il fatto che “l’attuazione della delega per il riassetto normativo in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro costituisce l’occasione per un adattamento dei principi generali di tutela prevenzionistica alle oggettive peculiarità del lavoro a progetto”.  Anche in questo caso, quindi, siamo di fronte non ad un intervento di chiarimento, bensì ad un semplice rimando alla futura attuazione di una specifica delega.

Un altro aspetto poco lineare della disciplina è quello relativo alle rinunzie e transazioni di cui all’articolo 68 del decreto 276, dal momento che tale istituto è previsto e disciplinato in via generale dall’articolo 82 dello stesso decreto, e non si capisce il motivo per cui sia stato ripreso in altra disposizione relativa solo alle collaborazioni a progetto.  Sul punto, la circolare si limita semplicemente a riportare il contenuto dell’articolo 68, tralasciando di chiarire le ragioni di tale ripetizione.

In tema di sanzioni, il decimo punto del testo ministeriale ripropone integralmente lo schema dell’articolo 69 del decreto 276 (intitolato, appunto, “Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto”).

Nella prima parte si legge, infatti, che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”. A tale proposito il Ministero, contraddicendo, come già accennato in precedenza, le prevalenti interpretazioni fornite dalla dottrina, chiarisce, però, che “si tratta di una presunzione che può essere superata qualora il committente fornisca in giudizio la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro effettivamente autonomo”. Proseguendo nella lettura del testo, si legge infatti che “la mancata deduzione del progetto nel contratto preclude solo la possibilità di dimostrarne l’esistenza e la consistenza con prova testimoniale”.

Nel secondo capoverso si legge, invece, che qualora “venga accertato dal Giudice che il rapporto instaurato sia venuto a configurare un contratto di lavoro subordinato per difetto del requisito dell’autonomia, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti”. Il Ministero, inoltre, nel ribadire che il controllo giudiziale è limitato all’accertamento dell’esistenza di un progetto, o programma di lavoro, o fase di esso, precisa che “detto controllo concerne l’esistenza nei fatti di un progetto, e non la sua mera deduzione nel contratto”.

Nonostante gli sforzi chiarificatori operati dalla circolare, rimangono ancora tanti gli aspetti della disciplina sanzionatoria tuttora poco chiari. In entrambi i casi, infatti, al di là degli elementi formalmente dedotti nel contratto, la prova dell’esistenza di un rapporto sostanzialmente autonomo che ricade sul committente non può non risentire dell’ambiguità tipica dell’area della parasubordinazione, dove il difficile equilibrio tra l’autonomia e il coordinamento è lasciato alla contrattazione individuale delle parti.

Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi tipo di chiarimento.

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