[Marzo 2009] - Un “patto” per chi lascia senza portare via affari
di Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi *
Il patto di non concorrenza torna di grande attualità. In un momento contraddistinto da una sensibile contrazione dei consumi di prodotti e servizi e da un innegabile incremento della mobilità dei dipendenti che rivestono, nell’ambito delle imprese, posizioni di rilievo nel settore commerciale, assume particolare importanza il tema del mantenimento delle quote di mercato acquisite.
La mobilità tra imprese concorrenti di personale qualificato addetto alle rete commerciale, in ogni settore, ed in particolare in quello della commercializzazione di prodotti e servizi, anche finanziari, può determinare vere e proprie fughe di clientela, con innegabili e negative ripercussioni sui fatturati.
Si ripropone quindi, con grande attualità, il tema della disciplina della concorrenza e, più specificamente, quello dei limiti alla concorrenza che possono essere imposti dalle imprese ai propri dipendenti, che svolgono la loro attività in posizioni strategiche e di rilievo nel settore commerciale, per il periodo successivo alla cessazione del loro rapporto di lavoro.
Il contesto normativo e giurisprudenziale è oggi in grado di offrire agli operatori un quadro sufficientemente chiaro e delineato in materia.
Mentre nel corso del rapporto di lavoro il lavoratore subordinato, indipendentemente dalla qualifica rivestita all’interno dell’organizzazione aziendale, è tenuto ad osservare l’obbligo di fedeltà e di non agire in concorrenza col datore di lavoro, secondo quanto previsto dall’art.2105 cod. civ., dopo la cessazione del rapporto di lavoro la concorrenza dell’ex dipendente può essere limitata soltanto mediante la stipula di uno specifico patto di non concorrenza, la cui disciplina è contenuta nell’art.2125 cod. civ.
Più in particolare, il patto di non concorrenza deve rivestire, a pena di nullità, i seguenti requisiti:
- risultare da atto scritto (forma scritta ad substantiam);
- determinare limiti di oggetto, di luogo e di tempo all’obbligo di non concorrenza;
- attribuire al dipendente un corrispettivo per l’assunzione dell’obbligo medesimo.
La durata del patto, per quanto concerne i dirigenti, non può superare i cinque anni, mentre per le altre categorie di lavoratori la durata massima è di tre anni. Poiché la norma indica solo la durata massima del patto, il compito di circoscrivere il vincolo assunto dal dipendente in riferimento agli elementi normativi essenziali appena sopra richiamati è rimesso alla determinazione delle parti, salvo il controllo giudiziale di conformità al modello legale.
Soccorre al riguardo l’elaborazione giurisprudenziale, secondo cui il patto di non concorrenza può riguardare una qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto (in tal senso, App. Milano 17 marzo 2006; Trib. Torino 16 gennaio 2006; Trib. Ravenna 24 marzo 2005; conf. Cass. 10 settembre 2003 n.13282).
Il patto di non concorrenza è valido purché i vincoli di oggetto e di luogo lascino in concreto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita e sia previsto il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore (in tal senso: Trib. Torino 16 luglio 2007; Trib. Milano 12 luglio 2007; Tribunale di Milano 27 gennaio 2007; Cass. 4 aprile 2006 n.7835). L’ampiezza del vincolo deve essere tale da non comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita.
Inoltre, la validità del patto di non concorrenza dipende anche dalla indicazione di specifici e congrui limiti territoriali (al riguardo, Trib. Ravenna 24 marzo 2005 ha ravvisato l’autonomia del requisito dell’individuazione del confine territoriale, ai fini della valutazione sulla validità, o meno, del patto di non concorrenza). Il corrispettivo del patto di non concorrenza deve essere congruo rispetto al sacrificio richiesto e necessariamente determinato, o comunque chiaramente determinabile nel suo ammontare, al momento della stipulazione del patto (in tal senso, Tribunale Milano 19/3/2008 e Tribunale Milano 13/8/2007).
La valutazione sulla congruità del corrispettivo non può essere correlata a criteri generalizzati ed aprioristici ma deve essere invece attuata tenendo presenti le peculiarità di ciascun caso concreto. Il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato alla scadenza del patto ovvero alla cessazione del rapporto.
Sussistono incertezze in giurisprudenza, in relazione alla possibilità o meno di erogare il corrispettivo del patto, in costanza di rapporto (in senso affermativo, Tribunale Milano 27 gennaio 2007, Tribunale Milano 21 luglio 2005; in senso negativo, Tribunale Milano 19/3/2008, Tribunale Milano 13/8/2007).
Il patto di non concorrenza può essere sciolto solo per volontà di entrambe le parti, salvo l’inserimento di una clausola che preveda la facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, recesso che tuttavia può essere esercitato solo prima della cessazione del rapporto di lavoro (in tal senso, Cass. 16 agosto 2004 n.15952, App. Milano 12/4/2001 e Tribunale Milano 25/7/2000).
Va ancora rilevato che il patto di non concorrenza contiene spesso la previsione dell’applicazione di una penale, a carico del lavoratore, per il caso di sua violazione. La penale, se quantificata in modo eccessivo, può essere ridotta da parte del giudice. Al riguardo, in ambito giurisprudenziale è stato precisato che la valutazione della congruità o meno della penale deve tenere conto delle concrete ripercussioni della violazione del patto sull’equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta” (in tal senso, Cass. 4/4/2006 n.7835).
Da ultimo va ricordata la possibilità, per il datore di lavoro che abbia subito la violazione del patto di non concorrenza, di ricorrere all’autorità giudiziaria, anche in via d’urgenza, al fine di ottenere l’inibitoria allo svolgimento delle prestazioni lavorative presso il nuovo datore di lavoro. In relazione ai presupposti necessari per la concessione dell’inibitoria, e con particolare riferimento alla configurabilità del cosiddetto “periculum in mora”, sono ravvisabili due contrapposti orientamenti giurisprudenziali: un primo orientamento, meno rigoroso, ritiene sufficiente la prova della violazione del patto di non concorrenza; un secondo orientamento, più rigoroso, richiede anche la prova di un pregiudizio, ovvero di una perdita irreversibile di competitività sul mercato” (nel primo senso, Tribunale Milano 17/12/2001; nel secondo senso: Tribunale Milano 20/12/2002 e Tribunale Milano 16/7/2001).
* Studio Legale Galanti, Meriggi & Partners
(Tratto dal Sole 24 Ore del 23/3/2009 – pag. 7)
* Marco Emanuele Galanti - Fabio Meriggi
*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners