[Novembre 2012] - I nuovi termini di pagamento per la Pubblica Amministrazione e per i rapporti tra imprese commerciali

La problematica dei ritardi nei pagamenti sia della PA nei confronti delle imprese commerciali sia nei rapporti tra le stesse imprese, ha determinato sia l’aumento delle situazioni di crisi ed insolvenza sia il diffondersi di un inaccettabile malcostume.

Il Governo italiano, al fine di porre rimedio a tali criticità, ha approvato nel Consiglio dei Ministri del 31/10/2012 un decreto legislativo con cui ha recepito, in anticipo rispetto alla scadenza fissata dalla Commissione Europea per il 16 marzo 2013, la direttiva 2011/7/UE.

La direttiva UE riguarda i tempi di pagamento per tutte le transazioni commerciali, ovvero per “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo”.  La nuova normativa, che entrerà in vigore dal 1° gennaio 2013 per tutti i contratti conclusi a partire da questa data, si applicherà ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale così come sopra definita, con esclusione dei debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore ivi compresi gli accordi di ristrutturazione del debito ed i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno compresi quelli effettuati da un assicuratore.

Da una prima lettura degli articoli del decreto legislativo, la nuova normativa sembrerebbe applicarsi anche in favore dei liberi professionisti in quanto nell’art.2 il legislatore ha chiarito che per imprenditore deve intendersi “ogni soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione”. Il condizionale è d’obbligo in quanto la citata norma si pone in contrasto con le definizione di “professionista” formulata dal medesimo legislatore nell’ambito della riforma delle professioni di cui al D.P.R. 07.08.2012 n° 137 pubblicato in  G.U. 14.08.2012. E’ auspicabile sul punto un intervento chiarificatore del legislatore al fine di eliminare qualsiasi problematicità interpretativa con risvolti negativi sul piano applicativo.

La nuova normativa, quindi, prevede che le Amministrazioni Pubbliche dovranno pagare i debiti nei confronti delle imprese fornitrici di merci e/o servizi entro 30 giorni dalla data di ricevimento della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente; o quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equipollente, entro 30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi; o infine, entro 30 giorni dalla data di accettazione delle merci/servizi o della verifica della conformità delle stesse rispetto alle previsioni contrattuali. In tale ultima ipotesi, detta procedura non potrà avere una durata superiore a 30 giorni dalla data di consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo diveso accordo scritto tra le parti o diversa previsione nel bando di gara e purchè ciò non sia gravemente iniquo per il creditore.

Solo per le imprese pubbliche tenute al rispetto dei requisiti di trasparenza di cui al decreto legislativo 11 novembre 2003 n. 333 o per gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria (come asl e ospedali) viene concessa una deroga ed i tempi per il pagamento saranno di 60 giorni invece dei 30 fissati dal decreto.

Una analoga proroga del termine di pagamento è prevista anche per altre PA, ma solo se la proroga è giustificata “dalla natura o dall’oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione” e la relativa clausola risulta provata per iscritto.

Le nuove previsioni normative sopra ricordate valgono anche nei rapporti tra imprese commerciali ed anche la deroga a 60 giorni dei termini di pagamnto tra le stesse sarà ammessa solo se giustificata da espresso accordo scritto tra le parti, mentre i termini di pagamento superiori a 60 giorni potranno essere pattuiti solo se non “gravemente iniqui” per il creditore.

Gli aspetti più interessanti della nuova normativa sono rappresentati sicuramente dalle conseguenze derivanti dal  mancato rispetto dei termini di pagamento suindicati.

In primo luogo, è stato previsto che nel caso in cui si superi il termine di pagamento dei 30 giorni o dei 60 giorni in caso di proroga, il debitore, senza necessità di formale costituzione in mora, sarà tenuto a corrispondere al creditore interessi moratori calcolati sulla base del saggio degli interessi legali di mora  (attualmente pari all’1%), aumenati dell’8%.

Il mancato o ritardato pagamento del credito entro i termini sopra ricordati, legittimerà altresì il creditore ad ottenere un rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte, rimborso che è stato forfettariamente quantificato, senza che sia necessaria la costituzione in mora, in euro 40 euro a titolo di risarcimento del danno, fatta salva in ogni caso la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza, anche legale, per il recupero del credito.

Infine, sono stati tipizzati dei casi di nullità di clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori, al risarcimento per i costi di recupero e alla predeterminazione o alla modifica della data di ricevimento della fattura da parte della PA.

Dette clausole saranno dichiarate nulle dal giudice, anche d’ufficio, quando risulteranno “gravemente inique” in danno del creditore, tenuto conto di tutte le circostanze che ne hanno determinato l’inserimento, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale, il contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare sia al saggio degli interessi legali di mora sia ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero.

Certamente affette da nullità, in quanto a priori ritenute dal legislatore “gravemente inique” per il creditore, saranno invece giudicate le clausole che escludono sia l’applicazione degli interessi di mora sia il risarcimento per i costi di recupero.

Per tutte le altre clausole che verrano introdotte dalle parti nei rispettivi contratti, sarà quindi necessaria una valutazione del giudice per determinare i casi di grave iniquità nei confronti del creditore e ciò molto probabilmente potrà determinare, ad avviso dello scrivente, l’incrementarsi di azioni, anche di natura defatigaroria e meramente strumentale con conseguente dilatazione dei tempi di pagamento dei debiti, attenuando di fatto le finalità che il legisltatore ha inteso perseguire con la nuova normativa.

* Marco Emanuele Galanti

* Stefano Bardelloni

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Ottobre 2012] - Le cessioni di prodotti in ambito agricolo e agroalimentare: le novità introdotte dall’art.62 del Decreto Legge n.1/2012 (conv. In Legge n.27/2012) e dal Decreto Ministeriale contenente le relative modalità applicative

Con l’art.62 del Decreto Legge n.1/2012, convertito con la Legge n.27/2012, sono state introdotte rilevanti novità in tema di cessione di prodotti in ambito agricolo e agroalimentare, per i casi in cui le consegne dei relativi prodotti debbano essere effettuate nell’ambito del territorio italiano.

La tematica è di particolare attualità in quanto le disposizioni in questione entreranno in vigore a partire dal giorno 24 ottobre del corrente anno.

Le modalità applicative di quanto previsto nell’art.62 del Decreto Legge appena richiamato, erano state demandate ad un Decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, da emanarsi di concerto con il Ministro dello sviluppo economico. Come spesso purtroppo avviene, vi è stato un ritardo e, quindi, solo in data 27 settembre 2012 il Consiglio di Stato ha potuto esaminare la bozza del testo del Decreto Ministeriale, esprimendo sullo stesso parere favorevole, sia pur proponendo alcuni puntuali rilievi critici.

 I tratti essenziali della disciplina normativa introdotta con l’art.62 del D.L. n.1/2012, chiarita dalle indicazioni contenute nel Decreto Ministeriale, sono i seguenti.

 I contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari con consegna da eseguirsi nel territorio italiano, ad eccezione di quelli conclusi con il “consumatore finale”, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio in ambito giudiziario, devono: essere stipulati per iscritto; contenere l’indicazione della loro durata, delle quantità e caratteristiche del prodotto, del prezzo e delle modalità di consegna e dei termini di pagamento; essere ispirati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità  e reciproca corrispettività delle prestazioni (art.62, comma 1°).

La norma prevede termini di pagamento prederminati, decorrenti dall’ultimo giorno del mese in cui avviene il ricevimento della fattura ovvero la consegna dei prodotti: più specificamente, 30 giorni per i prodotti deteriorabili, 60 giorni per gli altri. In caso di ritardo nei pagamenti viene applicato un interesse di mora, inderogabile, pari a quello previsto dal D.Lgs. n.231/2002 in tema di “transazioni commerciali” latamente intese, maggiorato di due punti (art.62, comma 3°).

 Sempre secondo la norma in esame, gli operatori economici del settore devono evitare di incorrere in alcuni atti e comportamenti dettagliatamente elencati quali, a titolo esemplificativo, l’imposizione di condizioni di vendita ingiustificatamente gravose, l’applicazione di condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, il conseguimento di prestazioni unilaterali non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali (art.62, comma 2°).

 Le verifiche sul rispetto di quanto previsto dall’art.62 sono demandate all’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, con l’ausilio della Guardia di Finanza.

L’impianto sanzionatorio è molto severo prevedendo le seguenti, ingenti sanzioni amministrative:

- da euro 516,00 ad euro 20.000,00 per il mancato rispetto delle disposizioni del 1° comma dell’art.62 (forma scritta, elementi e requisiti essenziali del contratto);

- da euro 516,00 ad euro 3.000,00 per il mancato rispetto delle disposizioni del 2° comma dell’art.62 (atti e comportamenti che integrino una condotta commerciale sleale);

- da euro 500,00 ad euro 500.000,00 per il mancato rispetto dei termini di pagamento indicati al comma 3° dell’art.62.

  Nel testo del Decreto Ministeriale applicativo vengono fornite molteplici indicazioni “integrative” della disciplina di Legge.

 In particolare:

- vengono escluse dall’applicabilità della normativa alcune particolari tipologie di cessioni, quali quelle adottate mediante conferimenti di soci di cooperative, di organizzazioni di produttori e tra imprenditori ittici nonché, in generale, quelle “istantanee” con contestuale consegna dei prodotti e pagamento del prezzo concordato (art.1);

- viene specificato che gli elementi essenziali del contratto, in tutto o in parte, possono essere contenuti: negli scambi di comunicazioni e di ordini antecedenti alla consegna dei prodotti; in accordi-quadro (anche in presenza di “centrali d’acquisto”) destinati a disciplinare in modo uniforme le conseguenti cessioni di prodotti, ovvero in documenti a loro correlati, quali i singoli contratti di cessione, i documenti di trasporto e consegna, le fatture e gli ordini d’acquisto. Quando uno o più elementi essenziali sono contenuti in documenti di trasporto e consegna ovvero nelle fatture, i documenti medesimi devono contenere la dicitura “Assolve gli obblighi di cui all’art.62, comma 1, del decreto legge 24 gennaio 2012 n.1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012 n.27” (art. 3);

- viene integrata l’elencazione delle condotte commerciali considerate “sleali” anche mediante il richiamo ai principi di buona prassi commerciale, già identificati dalla Commissione europea e dai rappresentanti della filiera agro-alimentare in ambito comunitario, e comunque vengono meglio specificati in un allegato del medesimo Decreto attuativo (art.4);

- viene chiarito che il venditore deve emettere fatture separate per cessioni di prodotti assoggettate a differenti termini di pagamento. La data di ricevimento della fattura è quella risultante dalla sua consegna a mani, ovviamente con rilascio di relativa ricevuta, dall’avviso di ricevimento della raccomandata a.r., dalla data di ricezione della stessa fattura mediante posta elettronica certificata o mediante l’impiego di “Electronic Data Interchange” od  altro mezzo equivalente previsto dalla vigente normativa in ambito fiscale. In mancanza di certezza sulla data di ricezione della fattura si presume, salvo prova contraria, che essa coincida con la data di consegna dei prodotti (art.5);

- viene previsto che “è vietato negare il pagamento dell’intero importo pattuito per la fornitura a fronte di contestazioni solo parziali relative all’adempimento della medesima” (art.6, comma 2°). La formulazione di detto principio può prestarsi a due differenti interpretazioni. Si potrebbe innanzi tutto ritenere che chi contesta validamente una parte della fornitura debba comunque pagare puntualmente il corrispettivo per la restante parte non contestata. In tal caso, si tratterebbe di una previsione ridondante, come anche stigmatizzato dalla Corte dei Conti nel proprio parere, in quanto ripetitiva di regole civilistiche generali. Per converso, ove il principio dovesse essere interpretato nel senso che chi contesta una parte della fornitura dovrebbe comunque pagarla interamente  demandandosi ad un momento successivo la disamina delle sue contestazioni, saremmo in presenza di un singolare caso di “solve et repete legale” e quindi, in ultima analisi, di una “forzatura normativa” certamente inusuale. La logica porta a ritenere che l’interpretazione corretta sia la prima tra le due sopra delineate ma certamente ci si sarebbe aspettati, a livello ministeriale, l’adozione di un testo più chiaro ed adeguato;

- infine, viene dettata una “disciplina transitoria” che prevede, in primo luogo, che anche il Decreto Ministeriale (ma non avrebbe potuto essere altrimenti) si applica ai contratti stipulati dall’entrata in vigore della Legge (24 ottobre 2012).

Per i contratti già in essere alla data del 24 ottobre 2012 è previsto un obbligo di adeguamento per l’indicazione degli elementi essenziali, ove non già presenti, entro il 31 dicembre 2012. E ancora, è prevista l’automatica applicazione delle disposizioni di Legge relative alle condotte commerciali “sleali”, ai termini di pagamento ed agli interessi di mora (2° e 3° comma dell’art.62, già sopra esaminati) “a tutti i contratti a partire dal 24 ottobre 2012, anche in assenza di adeguamenti contrattuali alla predetta normativa” (art.8).

  Quest’ultima previsione dovrebbe pacificamente riguardare, quindi, anche i contratti in corso alla data di entrata in vigore della Legge, e non solo quelli stipulati da tale data in poi, e ciò per ragioni di carattere sia sistematico che letterale.

  Anche la Corte dei Conti, peraltro, nel suo già ricordato parere, ha avuto modo di avallare tale soluzione interpretativa, ritenendo condivisibili le previsioni del Decreto Ministeriale sul punto, rilevando che “si tratta di regole riferite alle relazioni commerciali in sé considerate, indipendentemente dai momenti in cui sono perfezionati gli atti negoziali su cui esse si basano”.  Da ciò derivano importanti conseguenze in relazione agli adempimenti che dovrebbero essere assolti dagli operatori del settore interessati, anche per i contratti già in corso alla data del 24 ottobre 2012, al fine di evitare il rischio di  poter incorrere nel severo regime sanzionatorio già in precedenza descritto. Anche tutti i contratti già in essere, infatti, dovrebbero essere “adeguati” sia in relazione all’eventuale assenza di uno o più degli elementi essenziali indicati all’art.62, 1° comma del Decreto Legge n.1/2012 sia in relazione all’eventuale configurabilità di condotte commerciali “sleali”.

 Per i termini di pagamento, l’entrata in vigore della Legge alla data del 24/10/2012, potrebbe far sorgere fondati dubbi interpretativi soprattutto in relazione a transazioni commerciali di prodotti agricoli e alimentari perfezionate in data anteriore all’entrata in vigore della Legge ed i cui termini convenzionali di pagamento non siano ancora scaduti.

In tali fattispecie dovrà prevalere in ogni caso il termine convenzionalmente stabilito tra le parti o si dovrà applicare il termine legale previsto dalla nuova normativa con possibili impatti “retroattivi” di dubbia legittimità?  Tale problematica si ripropone, necessariamente, in relazione all’applicazione del tasso di interesse di mora inderogabile, anch’esso previsto dalla nuova normativa.

Per i nuovi contratti occorrerà naturalmente attenersi alla nuova disciplina di Legge esaminando nel dettaglio l’adeguatezza o meno dei modelli contrattuali e delle prassi aziendali sino ad oggi utilizzati e adottate.

 Così, a titolo esemplificativo e soprattutto in relazione a rapporti abituali e consolidati con altri operatori del settore, potrebbe essere utilizzato lo strumento dell’accordo-quadro, anche demandando ad uno dei documenti conseguenti, ove necessario od opportuno, uno o più elementi essenziali di ogni singola e specifica cessione di prodotti.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi

     *Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Ottobre 2012] - Il trattamento economico complessivo di fine rapporto degli Agenti (Settore Commercio): risoluzione contrattuale della Preponente e “giusta causa”

Si verificano di frequente casi di risoluzione di contratti d’agenzia a tempo indeterminato, da parte di società Preponenti che si avvalgano di clausole risolutive espresse (ad esempio, per mancato raggiungimento di obbiettivi minimi prefissati e periodici).

In tali casi occorre determinare quale sia il trattamento da riservare agli Agenti interessati.

Con specifico riferimento agli Agenti del settore Commercio, valgono i seguenti rilievi.

-I) Un primo aspetto da affrontare è se in tali casi la Preponente sia o meno tenuta al preavviso, per il numero di mensilità dettagliatamente previste, in base alla durata del rapporto e alla natura dell’incarico (agente monomandatario o plurimandatario), dalla contrattazione collettiva di riferimento (A.E.C. 16/2/2009, art. 10).

 La questione è stata affrontata in una recente sentenza della Corte di Cassazione (n.10934 del 18/5/2011) ove è stato chiarito, in primo luogo, che in siffatti casi, ove si verifichi effettivamente la fattispecie contemplata dalla clausola risolutiva espressa, non può essere posta in dubbio la legittimità della risoluzione contrattuale da parte della Preponente.

Ma ciò non significa che il preavviso (ovvero la relativa indennità sostitutiva) non sia dovuto.

La Corte Suprema ha sottolineato che i singoli casi devono essere affrontati tenendo presente quanto previsto all’art.1750 cod. civ. in tema di recesso della Proponente dal contratto di agenzia.

In sostanza, posto che solo un recesso per “giusta causa” legittima la Proponente a non riconoscere il preavviso, anche in caso di risoluzione per mancato raggiungimento di obbiettivi contrattuali minimi predeterminati e concordati vi deve sempre essere un inadempimento idoneo ad integrare una “giusta causa” (vale a dire un motivo tanto grave da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto).

Pertanto, vi possono essere casi di risoluzione contrattuale per mancato raggiungimento di obbiettivi minimi contrattuali con diritto dell’Agente al preavviso e casi analoghi di risoluzione nei quali la Proponente potrebbe astenersi dal riconoscere il preavviso medesimo.

Dipende, quindi, dalla “gravità” del caso concreto.

Naturalmente non vi sono criteri certi per determinare l’esatto confine tra le due differenti fattispecie ma è ovvio, ad esempio, che ove la permormance dell’agente fosse estremamente lontana non solo dai budget minimi ma anche da un risultato “accettabile” adottando criteri valutativi estremamente prudenti, la Proponente avrebbe ben maggiori possibilità di giustificare il mancato rispetto del preavviso, in caso di contestazioni.

-II) Un secondo aspetto riguarda le indennità di fine rapporto: indennità di risoluzione prevista dalla contrattazione collettiva di riferimento; indennità suppletiva di clientela (anch’essa prevista dal CCNL vigente); e infine, indennità “meritocratica”, prevista sia dall’A.E.C., art.12.III).

-II.a)  L’indennità di risoluzione del rapporto (FIRR) è sempre dovuta, indipendentemente dalle cause che abbiano determinato la cessazione del rapporto contrattuale.

-II.b) L’indennità suppletiva di clientela non è dovuta all’Agente quando il rapporto contrattuale a tempo indeterminato sia cessato ad iniziativa della Preponente per fatto “imputabile” all’Agente medesimo.

Pertanto, se il contratto è risolto dalla Preponente avvalendosi di una clausola risolutiva espressa e per il mancato raggiungimento di obbiettivi minimi concordati, all’Agente – ove ci si dovesse attenere al testo lettera dell’A.E.C. (che non fa riferimento al concetto di “giusta causa”) – non dovrebbe essere riconosciuta alcuna indennità suppletiva di clientela.

Nella prassi ed in giurisprudenza, tuttavia, vi è una sostanziale equiparazione con il regime già visto in tema di preavviso (vd., tra le più recenti, Cass. 25/5/2012 n.8295).

Pertanto, in assenza di una risoluzione contrattuale che, pur pienamente legittima, non sia sorretta da una “giusta causa”, l’indennità suppletiva di clientela sarebbe dovuta.

I criteri di calcolo di tale indennità sono descritti all’art.12.II) dell’A.E.C.

-III) Da ultimo,  vi è da considerare l’”indennità meritocratica”, dovuta ove l’Agente “abbia procurato nuovi clienti alla Preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e la Preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti”  (A.E.C. 16/2/2009, art.12,III).

L’A.E.C. indica solo i presupposti di fatto ed i criteri di calcolo dell’indennità ma non contempla, per la verità, alcun caso di esclusione.

L’art.1751 c.c. invece, nell’attuale testo di derivazione comunitaria e relativo all’”indennità in caso di cessazione del rapporto” latamente intesa (cosiddetta “indennità europea”), esclude il diritto dell’Agente a percepire l’indennità nel caso in cui il Preponente risolva il contratto per un inadempimento dell’Agente che, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione, anche temporanea del rapporto (ovvero, in presenza di una “giusta causa”).

Nella disciplina di Legge quindi, viene riproposto lo stesso “schema” già illustrato in tema di preavviso e indennità suppletiva di clientela.

Vista l’assenza di espressi casi di esclusione nel testo dell’A.E.C., e tenendo presente che la contrattazione collettiva può derogare alla disciplina di Legge in senso migliorativo per l’Agente (in giurisprudenza, tra le tante: Cass. 2/3/2012 n.3296; Tribunale Modena 10/6/2011; Trib. Roma 14/1/2010), occorre chiedersi se l’indennità meritocratica prevista dall’A.E.C., ricorrendone ovviamente i presupposti di fatto, sia dovuta in ogni caso oppure se la stessa indennità non sia dovuta in alcuni casi, incluso quello di risoluzione del contratto ad opera della Preponente che sia sorretta non solo da una clausola risolutiva espressa ma anche da una “giusta causa”.

Riteniamo che si debba propendere per quest’ultima soluzione, rimanendo quindi sempre ferme le esclusioni, nell’”an debeatur”, previste dalla disciplina di Legge.

In presenza di una legittima risoluzione contrattuale, pertanto, occorrerà valutare - anche ai fini del riconoscimento dell’indennità meritocratica (e ricorrendone, ovviamente, i presupposti di fatto) - se si sia o meno anche in presenza di una “giusta causa”.

E solo ove sia configurabile una “giusta causa” l’indennità meritocratica potrebbe essere negata.

Infine, occorre tenere presente raffrontando l’art.1751 cod. civ. e le disposizioni dell’A.E.C. occorrerà anche determinare, nel singolo caso concreto, quali siano la disciplina e la metodologia di calcolo che assicurino all’Agente il risultato complessivo più favorevole, al fine di evitare modalità di liquidazione del trattamento economico complessivo di fine rapporto che prestino il fianco a fondate contestazioni, anche in sede giudiziale. 

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners   

[Settembre 2012] - Riforma Fornero: dimissioni e risoluzione consensuale del rapporto di lavoro

 La Riforma Fornero in materia di lavoro, essenzialmente incentrata sulle disposizioni della Legge n.28 giugno 2012 n.92 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale in data 3 luglio 2012, ha anche introdotto rilevanti novità in tema di dimissioni e risoluzione  consensuale del rapporto di Lavoro.

 La principale finalità delle nuove norme, contenute ai commi da 16 a 23 dell’art.4 della Legge, è quella di porre fine a casi di dimissioni o risoluzioni consensuali di rapporti di lavoro precostituite ad arte, anche contestualmente all’assunzione del lavoratore, da utilizzare da parte del datore di lavoro al momento ritenuto più opportuno (ad esempio, in presenza di una  dipendente in maternità).

 E’ stata quindi prevista una nuova procedura contraddistinta dai seguenti tratti essenziali.

 A seguito delle dimissioni da parte di un dipendente ovvero in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il datore di lavoro deve porre in essere alcuni adempimenti; in particolare, il datore di lavoro deve inoltrare:

- la comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, entro 5 giorni dalla data prevista per la cessazione medesima, al centro per l’impiego territorialmente competente;

- una comunicazione scritta al dipendente interessato, entro 30 giorni dalla data delle dimissioni ovvero della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, con la quale quest’ultimo venga invitato a convalidare le dimissioni o la risoluzione. Tale convalida può avvenire, in alternativa: a) avanti alla Direzione territoriale del lavoro; b) presso il centro per l’impiego; c) nelle sedi indicate nei CCNL stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale; d) sottoscrivendo un’apposita dichiarazione in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione al centro per l’impiego - da parte del datore di lavoro – sull’intervenuta cessazione del rapporto.

Assolti questi incombenti da parte del datore di lavoro, spetta al dipendente decidere se convalidare le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con una delle modalità previste, se revocare le dimissioni o la risoluzione oppure se mantenere – più semplicemente – un contegno omissivo.   

 In caso di revoca delle dimissioni o della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, la relativa comunicazione parrebbe poter essere anche verbale, posto che la Legge prevede la possibilità, e non l’obbligo, della forma scritta (“la revoca può essere comunicata in forma scritta….”: vd. art.4 comma 21 della Legge).

 Se il lavoratore opta per tale revoca, il rapporto di lavoro riprende il suo corso. In tal caso, per il periodo intercorrente dalle dimissioni o dalla risoluzione alla revoca, non è dovuta al dipendente alcuna retribuzione, se quest’ultimo non ha svolto alcuna prestazione. Per contro, ove il dipendente - all’atto o a seguito della cessazione del rapporto di lavoro - abbia già percepito importi (ad esempio, a titolo di incentivazione all’esodo), quest’ultimi dovrebbero essere restituiti.

 Se il lavoratore, invece, opta per la convalida, trova ugualmente definitiva conferma la cessazione del rapporto di lavoro.

  Infine, se il dipendente mantiene un contegno totalmente omissivo e silente per un periodo eccedente il termine di 7 giorni dalla ricezione della comunicazione del datore di lavoro, già sopra richiamata, trova parimenti definitiva conferma la cessazione del rapporto di lavoro.

  Cosa accade, invece, se il datore di lavoro omette di inviare al dipendente la già ricordata comunicazione entro il termine di 30 giorni dalla data delle dimissioni o della risoluzione consensuale del rapporto? In tal caso, le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto si considerano “prive di effetto”. Così, ad esempio, potrebbe anche verificarsi il caso di un dipendente che si dimetta e che, solo a seguito del mancato e tempestivo invio della ricordata comunicazione da pare del datore di lavoro, decida di “approfittarne”, riprendendo il rapporto di lavoro.

  La riforma si occupa anche dei datori di lavoro che, nonostante le nuove disposizioni, ricorrano all’escamotage di far sottoscrivere al dipendente, magari già contestualmente alla sua assunzione, lettere di dimissioni o accordi di risoluzione consensuale del rapporto “in bianco”, da utilizzare al momento ritenuto più opportuno. La sanzione amministrativa irrogabile in tali casi è prevista da un minimo di euro 5.000,00 ad un massimo di euro 30.000,00.

  La finalità delle nuove norme è certamente comprensibile e meritevole di incondizionata adesione anche se, per la verità, il “meccanismo di convalida” appare un po’ troppo articolato. La Legge, tuttavia, prevede anche la possibile adozione di procedure alternative mediante decreto del Ministero del Lavoro.

 E’ quindi auspicabile che vi sia un prossimo intervento ministeriale, con la previsione di procedure più snelle e semplificate.

  Da ultimo, va segnalato che già ad una prima lettura delle norme in questione, non mancano dubbi interpretativi.

  Così, a titolo esemplificativo, sorge spontaneo chiedersi se in caso di dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro che prevedano lo svolgimento di attività lavorativa per un periodo successivo (ad esempio, preavviso o risoluzione ancorata ad una data futura), la “fondamentale” comunicazione del datore di lavoro debba essere inviata entro 30 giorni dalla data delle dimissioni o dell’accordo di risoluzione oppure se il termine debba decorrere dall’effettiva cessazione del rapporto di lavoro. La Legge (art.4, comma 22) fa riferimento alla “data delle dimissioni e della risoluzione consensuale”.

 Parrebbe quindi, per il caso di dimissioni, che si debba propendere per la data della relativa comunicazione del dipendente, e ciò anche in caso di eventuale e successivo periodo di preavviso in cui le prestazioni vengano effettivamente rese.

  Per il caso della risoluzione consensuale, anche il testo della norma non concede appigli interpretativi, posto che la risoluzione consensuale può essere contestuale all’accordo o correlata ad una data succesiva.

  Su questi punti, come sempre ed in assenza di integrazioni normative, soccorrerà la prassi e la giurisprudenza.

*Marco Emanuele Galanti

*Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Settembre 2012] - Deducibilità dei crediti di modesto valore

Il Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83 (cosiddetto “Decreto Sviluppo”) pubblicato in Gazzetta Ufficiale 26 giugno 2012, n. 147, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 187 del 11-08-2012, prevede all’art.33 che “Le perdite di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore e’ assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Ai fini del presente comma, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entita’ e sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso. Il credito si considera di modesta entita’ quando ammonta ad un importo non superiore a 5.000 euro per le imprese di piu’ rilevante dimensione di cui all’articolo 27, comma 10, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e non superiore a 2.500 euro per le altre imprese. Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre quando il diritto alla riscossione del credito e’ prescritto. Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 luglio 2002, gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in dipendenza di eventi estintivi».

La norma appena sopra citata ha parzialmente modificato e chiarito l’articolo 101, comma 5, del Tuir, articolo che nella sua precedente formulazione prevedeva la deducibilità delle perdite sui crediti in presenza di elementi incontrovertibili, certi e precisi attestanti l’insolvenza del debitore e la conseguente irrecuperabilità del credito. 

La norma, non chiarendo il significato dell’espressione “elementi certi e precisi”, ha causato numerose problematiche intepretative ed applicative che si è tentato di risolvere negli anni con soluzioni divergenti e contrastanti.

Sulla sussistenza degli elementi certi e precisi comprovanti l’insolvenza del debitore si sono sviluppate diverse interpretazioni.
In primo luogo, secondo la tesi prevalente dell’amministrazione finanziaria, gli elementi certi e precisi che attestano la perdita sul credito si verificano raramente, al punto che nemmeno l’esistenza di procedure esecutive con esito infruttuoso è sufficiente a documentare l’insolvenza del debitore. La risoluzione 16/E/2009 negava la deducibilità della perdita anche se il creditore poteva vantare una documentazione probatoria non irrilevante e consistente in un atto di precetto con il conseguente pignoramento infruttuoso.

Diversa l’interpretazione della giurisprudenza di merito e di legittimità. Gli elementi certi e precisi attestanti l’insolvenza del debitore si possono documentare con modalità più ampie. La sentenza n.113 del 7 luglio 2010 della Commissione Tributaria Regionale Marche riconosceva corretta la scelta di una società creditrice di dedurre perdite su crediti pur in assenza di procedure esecutive infruttuose, poiché l’insolvenza del debitore era ampliamente dimostrabile dall’analisi del bilancio di quest’ultimo e da comunicazioni e relazioni fornite dai professionisti del creditore e dal suo organo di controllo. La pronuncia ha, quindi, legittimato la deducibilità della perdita motivata da evidenti squilibri finanziari del debitore, anche se non si è proceduto con azione legale verso quest’ultimo.
In tal senso, si segnala anche una recente ordinanza della Cassazione, la n.12431/2012 che ha intepretato in senso ampio l’espressione «elementi certi e precisi», ritenendo sufficiente a dimostrare l’insolvenza del debitore la revoca degli affidamenti bancari da parte degli istituti di credito e legittimando di conseguenza la deduzione della perdita in capo al creditore. Infine, sempre la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 23863/2007 ha ammesso la deducibilità della perdita sulla base di una transazione effettuata dal creditore con un debitore straniero.

Le problematiche appena sopra esposte dovrebbero, pertanto, essere state risolte dalla nuova formulazione dell’art.101 del Tuir, almeno per quanto concerne i crediti di modesto valore, il cui termine di pagamento sia scaduto da oltre sei mesi, valore determinato in due fasce: la prima valida fino ad € 2500,00 per tutte le imprese, la seconda fino ad € 5000,00 per le aziende con un volume d’affari o ricavi da 150 milioni di euro in su.

In ogni caso, al fine di evitare riprese di natura fiscale, si consiglia comunque di tentare l’esperimento di un recupero almeno stragiudiziale dei crediti di modesto valore e di assumere, prima di effettuare una perdita dei crediti, informazioni e documentazione circa lo stato patrimoniale e finanziario dei debitori. 

*Marco Emanuele Galanti

* Stefano Bardelloni

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Maggio 2012] - Cancellazione delle società: colpo di spugna ai processi?

La riforma del diritto societario (D.lgs. n.6/2003), con il nuovo testo dell’art.2495 c.c., ha risolto il problema delle conseguenze sostanziali della cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali, stabilendo, inequivocabilmente, che la cancellazione delle stesse ne comporta l’estinzione e che i creditori insoddisfatti possono agire nei confronti degli ex soci nei limiti di quanto da essi ottenuto seguito della liquidazione o contro i liquidatori se il mancato adempimento dipende da colpa di questi.

Di recente le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con pronuncia del 22/2/2010 n.4062 sono intervenute precisando che la cancellazione dal registro delle imprese determina l’estinzione anche delle società di persona indipendentemente dalla definizione di tutti i rapporti giuridici pendenti.

La portata innovativa della richiamata norma ha, però, visto in concreto il nascere di nuove problematiche di carattere processuale inerenti la sorte dei giudizi pendenti in cui sono parti convenute una o più società che, nelle more del processo, si cancellano dal registro delle imprese dopo l’approvazione del bilancio di liquidazione e la ripartizione di eventuali utili.

È evidente che tali problematiche sono state determinate dalla mancanza di una norma processuale di raccordo disciplinante gli istituti processuali dell’interruzione del processo e della sua riassunzione.

La giurisprudenza di merito ha prospettato, quindi, molteplici e contrastanti soluzioni sintetizzabili in quattro significativi orientamenti.

Secondo il primo, si ritiene che i soci cessati non possano essere considerati successori a titolo universale né a titolo particolare della società cancellata, con la conseguenza, sul piano processuale, che non può dichiararsi l’interruzione del processo, dovendo il giudice dichiarare con sentenza la cessazione della materia del contendere per il venir meno dell’oggetto della giurisdizione (Corte d’Appello di Napoli, Sezione I, 28/5/2008).

Secondo il Tribunale di Torino, invece, il giudice può dichiarare l’interruzione del processo per l’irreversibile estinzione della società, ma l’eventuale riassunzione della causa nei confronti dei soci, che anche secondo tale orientamento non sono considerati successori a titolo universale né a titolo particolare della società, deve essere dichiarata inammissibile (sentenza n.3380 del 17/5/2010).

Vi è, inoltre, un altro orientamento secondo cui, a seguito della dichiarazione di interruzione del processo, è possibile riassumere la causa nei confronti dei soci della società cancellata, soci qualificati successori a titolo particolare della stessa società (Tribunale di Verona, ordinanza del 30/5/2011).

Infine, l’ultimo orientamento prevede la prosecuzione del processo, in applicazione del principio sotteso alla disciplina dell’art.111 c.p.c., nei confronti dei soci cessati quali successori a titolo particolare della società mediante la chiamata in causa dei soci stessi ad opera dell’attore.

In tale contesto, pur apprezzando lo sforzo delle corti di merito di colmare le evidenti lacune normative createsi a seguito dell’introduzione del nuovo art.2495 c.c. e, in particolare di quelle che hanno inteso salvaguardare le pretese delle parti attrici consentendo la prosecuzione dei processi in corso, è auspicabile, anche nell’ottica di un corretto funzionamento del nuovo Tribunale delle Imprese, che venga data con celerità un’univoca soluzione alla problematica o mediante un intervento del legislatore o mediante un’intepretazione univoca della Suprema Corte.

L’obbiettivo dovrebbe essere quello di evitare che compiacenti ed interessate cancellazioni di società, nonostante la pendenza di controversie che le vedono coinvolte, possano risolversi nella sostanziale impossibilità, da parte di soggetti che si sono rivolti all’autorità giudiziaria, di vedere accertati e soddisfatti i propri diritti in totale spregio di principi costituzionalmente garantiti.

* Marco Emanuele Galanti

* Stefano Bardelloni

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Maggio 2011] - Mediazione obbligatoria: quanti dubbi!

La normativa in materia di mediazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali (Decreto Legislativo n.69/2009) è caratterizzata da un’entrata in vigore progressiva. Il 20 marzo 2011 è entrata in vigore la parte più rilevante della normativa, riguardante la mediazione obbligatoria, che si estenderà - il prossimo anno - anche alle liti condominiali e per i sinistri derivanti dalla circolazione di veicoli e natanti. Le maggiori perplessità riguardano proprio i casi di obbligatorietà della mediazione ed il principale timore, espresso da alcune categorie professionali, è che il quadro del contenzioso civile, già molto critico, si aggravi ulteriormente divenendo ancor più caotico e confuso. Non a caso, vi sono state vibranti proteste, culminate in una recente e prolungata astensione degli avvocati dalla partecipazione alle udienze. In tale contesto, non certo “sereno”, non ci si può comunque sottrarre dal considerare alcune criticità e problematiche intepretative del testo delle norme.

Innanzi tutto, è opportuno ricordare che le norme, con le relative “integrazioni” ministeriali, indicano quali possono essere i soggetti incaricati di attuare la mediazione. Nulla si dice, invece, sulla loro collocazione territoriale, in relazione all’oggetto della controversia o al luogo di residenza, o sede per le persone giuridiche, dei soggetti coinvolti. Per le liti giudiziali civili sono previsti criteri per determinare la competenza territoriale del Giudice, per lo più legati al luogo ove si trova la residenza, o la sede, della parte convenuta ovvero all’oggetto della controversia: vi è sempre, quindi, un collegamento tra la causa da decidere e la collocazione territoriale del Giudice. Per la procedura di mediazione invece, sia essa facoltativa o obbligatoria, non solo non vi è alcun collegamento territoriale tra l’organismo di mediazione ed il Giudice dell’eventuale contenzioso giudiziale, ma non vi è nemmeno un criterio, dettato dal Legislatore, per determinare se in relazione ad una determinata controversia l’organismo di mediazione debba avere sede in un luogo, piuttosto che in un altro. La questione non è di poco conto, potendosi ben verificare il caso di procedure di mediazione instaurate avanti ad un organismo che si trovi in località del tutto svincolata dall’oggetto del contendere. La parte chiamata alla mediazione potrebbe così subire inevitabili ed ingiustificati pregiudizi, essendo costretta a lunghe e costose trasferte per poter partecipare alla procedura di mediazione, in contrasto con la finalità di contenimento dei costi perseguita dal Legislatore. Ed è tutto da discutere se la lontananza del luogo ove sia stata attivata la procedura di mediazione possa o meno costituire giustificato motivo per non parteciparvi e, in caso affermativo, se possa costituirlo sempre, ovvero solo in alcuni casi da determinarsi, e ciò anche in considerazione delle conseguenze che potrebbero derivare, nel successivo procedimento giudiziale, dall’ingiustificata assenza della parte dalla procedura di mediazione. Il Giudice, infatti, potrebbe desumere da tale mancata partecipazione “argomenti di prova” ai sensi dell’art.116 2° comma c.p.c. (art.8, comma 5° D.Lgs. n.69/2009). Ma l’art.116 2° comma c.p.c. fa riferimento al comportamento delle parti nel processo e non al diverso caso in cui le parti non partecipino del tutto al processo od una sua fase. La Corte di Cassazione, in tema, ha escluso la possibilità di applicare tale norma a chi non partecipi al processo, rendendosi contumace (sentenza n.10554/1994). Sorge quindi spontaneo chiedersi per quale valida ragione, ed in base a quale eventuale motivazione, il Giudice potrebbe desumere argomenti di prova per la mancata partecipazione di una parte ad una fase addirittura precedente al processo ed alla sua fase istruttoria. L’impressione è che sul punto il Legislatore sia incorso in un’evidente forzatura, nell’intento di sanzionare, cercando di prevenirli, comportamenti evasivi e diretti a by-passare la procedura di mediazione. Se comprensibile e condivisibile è l’intento, meno comprensibile e condivisibile appare la soluzione adottata.

 Ulteriori dubbi nascono dall’elencazione delle controversie interessate all’obbligatorietà della mediazione. Così, a titolo esemplificativo, è legittimo chiedersi se per controversia relativa a “diritti reali” si intenda solo una causa in cui si controverta della titolarietà di un diritto reale, sia esso di proprietà o altro, oppure anche una causa che “presupponga” la titolarietà di un diritto reale del tutto incontestato, come può avvenire, ad esempio, nei procedimenti di denuncia di nuova opera o di danno temuto. E’ facile prevedere che sul punto si formerà un’ampia casistica giurisprudenziale ma, tale futuro dispendio di tempo e di risorse si sarebbe potuto prevenire ed attenuare, quanto meno in parte e per quanto possibile, ricorrendo ad un’elencazione maggiormente dettagliata.

  Occorre poi considerare che anche per le materie relative ai casi di mediazione obbligatoria, vi sono una serie di atti giudiziali che possono essere posti in essere evitando il preventivo procedimento di mediazione, senza alcun pericolo di incorrere in censure di improcedibilità. Tra questi rientrano i decreti ingiuntivi ed i relativi giudizi di opposizione, sino a quando il Giudice dell’eventuale opposizione non si pronunci sulla sospensione o sulla concessione della provvisoria esecuzione del decreto (art.5, comma 4° lett.a D. Lgs. n.69/2009). Dopo dette pronunce, il Giudice deve disporre un differimento, non inferiore a quattro/cinque mesi, per l’esperimento della procedura di mediazione. In tale contesto, è legittimo domandarsi che senso abbia lo svolgimento obbligatorio della mediazione nell’ambito di giudizi di opposizione che appaiano ictu oculi infondati e quindi già maturi per la decisione finale, e ciò sarà ancor più evidente nell’ipotesi in cui il debitore, pur proponendo opposizione, non si presenti nemmeno alla prima udienza.

Ma anche fuori dall’ipotesi del giudizio di opposizione, la norma così come concepita ben potrebbe essere utilizzata con finalità dilatorie. E’ infatti sufficiente ipotizzare l’instaurazione, da parte di soggetti che potrebbero essere destinatari di azioni monitorie, di procedimenti giudiziali privi di qualsivoglia fondamento e con evidenti finalità di prevenzione, in assenza dell’esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione. In dette ipotesi, considerando i termini di comparizione (90 giorni) e l’obbligatorietà, per il Giudice, di disporre in prima udienza il rinvio per consentire la procedura di mediazione (non meno di 120/150 giorni), si assisterebbe ad una dilatazione illogica ed incomprensibile della durata del processo, con evidente pregiudizio per i cittadini che chiedano e meritino tutela, dilatazione che sarebbe ancor più abnorme ove chi agisse in prevenzione non allegasse all’atto di citazione l’informativa ex art.4, comma 3° del D.Lgs. citato. In quest’ultima ipotesi, infatti, vi sarebbe un’ulteriore differimento delle tempistiche del processo, in quanto l’articolo appena citato prevede che il Giudice informi la parte sulla facoltà di attivare la procedura di mediazione. Ma, come noto, e fatti salvi casi particolari avanti al Giudice di Pace (o nelle cause di “lavoro”), le parti sono assistite da un difensore e non compaiono personalmente alla prima udienza, né a quelle successive a meno che non lo disponga il Giudice. Quindi, il Giudice che si avveda in prima udienza della mancata informativa imputabile al difensore di chi abbia instaurato la causa, non può in alcun modo avvertire personalmente la parte di tale omissione e della facoltà di esperire il procedimento preventivo di mediazione: non può farlo in udienza poiché la parte non è presente; non può farlo con provvedimento scritto posto che il soggetto deputato a ricevere le comunicazioni e le notificazioni di qualsivoglia provvedimento o atto in corso di causa è il difensore. Pare quindi che al Giudice non resterebbe che fissare una successiva udienza, disponendo la comparizione personale della parte interessata ovvero di entrambe le parti, con pregiudizio sia ai più elementari principi di economia processuale sia alle tempistiche della causa, già di per sé eccessivamente dilatate, come ben noto, nella gran maggioranza dei casi.

 Non resta quindi che confidare nella futura giurisprudenza, auspicando che i Giudici, anche avvalendosi delle argomentazioni proposte dai rispettivi difensori, adottino nella prassi, ed ove possibile, soluzioni dirette ad evitare le “distorsioni” delle norme esaminate, quale ad esempio la concessione di ordinanze –ingiunzioni ex art.186ter c.p.c. nelle prime udienze delle cause instaurate in prevenzione e con finalità meramente dilatorie.   

Un ultimo rilievo merita il “potere” riservato ai mediatori. Nell’ambito del procedimento di mediazione, nel caso in cui l’accordo non sia raggiunto, le parti possono chiedere al mediatore di formulare una proposta di conciliazione. Ma è anche previsto che il mediatore possa formulare tale proposta  indipendentemente da una specifica richiesta delle parti, con conseguente incremento dell’indennità spettantegli (art. 11 comma 1° D.Lgs. n.69/2009). Tale eventualità, che potrebbe anche configurare conflitti di interesse, deve essere tenuta ben presente, considerando anche altri aspetti “economici” di non poco conto. Per la parte che non accetti la proposta del mediatore potrebbero esservi rischi nel successivo procedimento giudiziale, ove quest’ultimo si concluda con una sentenza che richiami nei contenuti essenziali la proposta medesima, con specifico riferimento all’addebito delle spese legali. Più in particolare, se la parte che ha rifiutato la proposta vince la causa, dovrà pagare, oltre alle proprie spese legali, le spese legali di controparte, l’indennità spettante al mediatore ed i compensi destinati ad eventuali esperti che siano stati da quest’ultimo nominati.

E’ quindi auspicabile che il mediatore eserciti questo suo specifico potere con la massima accortezza, formulando la proposta, svincolata da qualsivoglia richiesta delle parti, solo qualora ciò sia obiettivamente opportuno in considerazione delle dinamiche della procedura e di quanto emerso dal confronto delle contrapposte tesi, culminato nel mancato raggiungimento dell’accordo.

  La trattazione dei punti “critici” della normativa potrebbe continuare a lungo. L’impressione è che il Legislatore avrebbe potuto fare di meglio, in una materia così delicata e diretta ad aiutare sostanzialmente i Giudici a “smaltire” l’enorme carico di procedimenti già pendenti.

Spetterà ora agli operatori del settore, e quindi innanzi tutto ai Giudici ed agli avvocati, cercare di dipanare le molteplici problematiche interpretative nascenti da un testo normativo che, sicuramente, avrebbe potuto essere meglio realizzato.

A conferma dei precedenti rilievi, vi è già stata una prima e significativa “reazione giurisprudenziale”, rappresentata da una recente ordinanza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (ordinanza del 12/4/2011, rif.to Reg. Prov. Coll. 03202/2011). Il T.A.R. Lazio ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate diverse questioni di legittimità costituzionale, riguardanti in particolare: a) l’obbligatorietà del “previo esperimento del procedimento di mediazione” per le già ricordate “tipologie” di controversie; b) la previsione dell’”esperimento della mediazione” quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale; c) l’attribuzione ad organismi sia pubblici che privati, “che diano garanzie di serietà ed efficienza”, del compito di costituire “organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione”.

  Su tali questioni dovrà ora pronunciarsi la Corte Costituzionale.

E’ possibile quindi, ed auspicabile, che l’attuale impianto normativo subisca un sensibile ridimensionamento.   

* Marco Emanuele Galanti

* Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners   

[Marzo 2011] - I Giudici misurano la “dipendenza” - Testo pubblicato sul Quotidiano “Il Sole 24 Ore” del 21.03.2011

L’ “abuso di dipendenza economica” richiama una situazione di squilibrio nei rapporti tra imprese, nell’ambito delle trattative per la stipula di un contratto, nella determinazione dei suoi contenuti o nelle fasi di esecuzione. In relazione a rapporti contrattuali tra imprese, tuttavia, il Legislatore ha considerato l’ipotesi di abuso solo nell’ambito della “subfornitura”. L’art.9 della legge 192/98 definisce “dipendenza economica” la situazione in cui un’impresa possa determinare un “eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi”. L’abuso può anche configurarsi nell’imposizione di condizioni gravose o discriminatorie. L’accordo o la clausola che determini l’abuso sono privi di validità. La disciplina dettata la subfornitura non è stata replicata per altre figure contrattuali (ad esempio, nel franchising) o in norme di portata generale. Tuttavia, appare legittimo domandarsi se la disciplina riservata dalla Legge n.128/2009 all’abuso di dipendenza economica possa ritenersi applicabile anche ad altre tipologie di contratti tra imprese. La questione è ancora ogg, dibattuta. Alcuni Giudici hanno optato per la tesi restrittiva negando così ogni interpretazione estensiva e/o analogica della legge (ad esempio, Trib. Roma 17 marzo 2010, 5 febbraio 2008 e 29 luglio 2004; Trib. Torino 18 marzo 2003); altri hanno optato per la tesi estensiva, facendo riferimento al principio generale di buona fede quale limite all’autonomia contrattuale delle parti o alla necessità di porre rimedio a “squilibri” negli accordi tra imprese (Trib. Parma 15 ottobre 2008, Trib. Bari 22 ottobre 2004). Merita attenzione la sentenza 20106/2009 della Cassazione che ha superato la questione dell’applicabilità o meno della norma ad altri accordi.   La Corte ha incentrato la sua decisione sul concetto di “abuso del diritto”, ricordando principi generali, secondo cui le parti devono comportarsi secondo le regole della correttezza e l’esecuzione dei contratti deve avvenire secondo buona fede. Uno degli indici rivelatori della violazione dell’obbligo di buona fede in ambito contrattuale sarebbe, appunto, quello dell’”abuso del diritto”.  Il Giudice, quindi, deve valutare il contratto avvalendosi anche dell’art.1366 Codice civile, secondo cui l’accordo e le clausole devono essere interpretati secondo buona fede. E dato che il rispetto del principio della buona fede deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, formazione ed esecuzione, a ciascuna parte è imposto di agire nell’ottica di un bilanciamento dei rispettivi interessi. In questo contesto, la verifica del contratto dovrà essere effettuata tenendo ben presenti le posizioni delle parti, per determinare se posizioni di supremazia dell’una, e di dipendenza dell’altra, possano aver determinato comportamenti abusivi. La Corte ha indicato una possibile strada per superare anche i dubbi in relazione all’estensibilità o meno della disciplina normativa sull’abuso di dipendenza economica ad altre tipologie di contratti tra imprese. I giudici di merito, quindi, in presenza di contratti tra imprese diversi dalla subfornitura, che presentino patologie riconducibili al concetto di abuso di dipendenza economica, potrebbero pervenire a pronunce di nullità o di risoluzione contrattuale, avvalendosi di norme di portata più generale, quali quelle dettate nel codice civile in materia di correttezza e buona fede, ma soprattutto facendo riferimento al principio dell’”abuso del diritto”. In ogni caso, sul tema sarebbe auspicabile un intervento del Legislatore.

* Marco Emanuele Galanti                                                    

* Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners   

[Ottobre 2010] - Responsabilita’ del socio di S.r.l. “in bilico” tra dolo e colpa - Testo dell’articolo pubblicato sul Quotidiano “Il Sole 24 Ore” del 11.10.2010

La riforma delle s.r.l. del 2003 prevede la responsabilità, in solido con gli amministratori, dei soci che abbiano “intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi” (codice civile, articolo 2467, comma 7). La norma ha generato rilevanti dubbi  interpretativi. In particolare, è emersa la necessità di chiarire: 1) se la responsabilità del socio sia o meno sussidiaria rispetto a quella dell’amministratore; 2) se l’autorizzazione dell’assemblea al compimento di un determinato atto, poi rivelatosi dannoso, faccia venir meno la responsabilità dell’amministratore; 3) se la norma sia o meno diretta a disciplinare i casi in cui il socio sia amministratore “di fatto” della società, mediante un’attività di gestione continua e sistematica; 4) se il termine “intenzionalmente” si riferisca al compimento degli atti decisori ed autorizzativi ovvero alla causazione del danno derivante dagli atti medesimi.  I primi due quesiti hanno avuto risposte chiare. La responsabilità del socio è da considerarsi sussidiaria rispetto a quella dell’amministratore: in assenza di responsabilità di quest’ultimo, non vi può essere responsabilità del primo (Tribunale Salerno, sentenza 9 marzo 2010). Inoltre, l’autorizzazione assembleare non può far venir meno la responsabilità dell’amministratore (Tribunale Milano, Sezione VIII, sentenza 9 ottobre 2008). Quanto al terzo quesito, la tesi preferibile è quella negativa: la responsabilità del socio che rivesta il ruolo di amministratore “di fatto” di una s.r.l., infatti, è già disciplinata da altre norme. La fattispecie oggetto della norma, quindi, non è quella dell’amministatore “di fatto”, ma quella del socio che, anche in modo sporadico ed occasionale, ponga in essere atti o comportamenti di consapevole ed informato sostegno e supporto al compimento di uno specifico atto “gestorio” da parte dell’amministratore, atto che poi arrechi danno alla società, agli altri soci o a terzi (Tribunale di Milano Sezione VIII, ordinanza 9 luglio 2009). In merito al quarto quesito, le tesi sono state molteplici: alcuni autori hanno sostenuto che il termine dovrebbe essere riferito all’atto decisorio o autorizzativo; altri, hanno ritenuto necessaria la configurabilità di una specifica intenzione del socio di arrecare danno alla società, ai soci o ai terzi. La prima tesi non convince, in quanto ogni decisione o autorizzazione è ovviamente intenzionale, senza che sia necessario specificarlo. La seconda tesi non convince prefigurando una sorta di responsabilità “a doppio binario”: dolosa, e anche colposa, degli amministratori; solo dolosa, per il socio. Pare ragionevole ritenere che in questo caso “la verità stia nel mezzo”, potendosi configurare la responsabilità del socio anche in caso di colpa, come nel caso in cui, senza lo specifico intento di arrecare danno e in modo consapevole, sia stato avallato un atto dell’amministratore diretto, di per sé, ad ottenere un risultato positivo per la società, ma altamente rischioso e poi rivelatosi dannoso. Il termine “intenzionalmente”, parrebbe quindi riferirsi alla consapevolezza, da parte del socio, di sostenere un atto gestorio non direttamente teso ad arrecare danno ma caratterizzato da alti profili di rischio. In tale ipotesi, ove derivi un danno alla società, ai soci o ai terzi, il socio interessato ne dovrebbe rispondere in via solidale con gli amministratori. Sulla tematica i pochi precedenti giurisprudenziali editi non forniscono chiare indicazioni. L’auspicio è che, quanto prima, vengano delineati i confini della responsabilità del socio, superando in modo compiuto tutti i dubbi interpretativi sinteticamente ricordati e ponendo anche chiare e nette distinzioni tra atti autorizzativi e decisori attuati in sede assembleare ed atti di approvazione e sostegno dell’operato dell’amministratore attuati in altro contesto. A quest’ultimo riguardo, un’altra norma riformata prevede la facoltà dell’amministratore di s.r.l. (oltre che dei soci che rappresentino almeno un terzo del capitale) di sottoporre all’approvazione di un socio qualsivoglia “argomento” (articolo 2479, 1° comma). Sorge spontaneo chiedersi se e in che termini, qualora l’atto specificamente approvato sia produttivo di danno, possa determinarsi la responsabilità solidale del socio. Si dovrebbe ritenere che l’approvazione dell’atto dannoso determini la responsabilità del socio, in solido con gli amministratori, ma solo nel caso in cui il primo sia stato informato su tutti gli aspetti rilevanti dell’operazione e tale informativa, sulle aree di rischio dell’operazione medesima, trovi riscontro nei verbali di assemblea o in altra documentazione. 

 

* Marco Emanuele Galanti

* Fabio Meriggi

*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners

[Settembre 2009] - Il trasferimento “formale” della sede sociale all’estero - Articolo pubblicato sul Il Sole 24 Ore del 12 ottobre 2009

di Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi*

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza (n.16633 depositata il 17/7/2009), ha affrontato la delicata tematica dell’assoggettamento, o meno, al Giudice Italiano delle procedure fallimentari relative a società che abbiano trasferito all’estero la propria sede.

Avviene non di rado che società gravate da debiti, nel tentativo di sottrarsi alle azioni dei creditori, ricorrano a degli “escamotage”  tra i quali, appunto, quello di trasferire solo “formalmente” la propria sede all’estero.

In tal modo, ricorrendo anche ad eccezioni di carenza di giurisdizione del Giudice Italiano, si cerca di scoraggiare l’instaurazione di azioni, da parte di terzi, per il recupero dei crediti (maggiormente costose, ovviamente, se da instaurare o da eseguire all’estero) e si creano i presupposti per ostacolare eventuali iniziative dei creditori dirette ad ottenere la declaratoria di fallimento da parte dell’Autorità Giudiziaria italiana.

Nel caso esaminato dalla Corte, una società gravata da debiti, poco prima del deposito dell’istanza di fallimento da parte della creditrice, aveva trasferito la propria sede legale all’estero, in altro Stato membro dell’Unione Europea (Romania).

Tale trasferimento, tuttavia, era avvenuto solo formalmente, senza un effettivo trasferimento all’estero del centro d’interessi dell’impresa.

 La società debitrice, nell’ambito della procedura fallimentare, aveva eccepito la carenza di Giurisdizione del Giudice Italiano, proponendo istanza di regolamento preventivo di giurisdizione.

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione relativa alla giurisdizione, ha fornito molteplici e chiare indicazioni, anche richiamando un recentissimo, proprio precedente (ordinanza n.11398/2009).

La Corte ha ricordato innanzi tutto che, trattandosi di questione relativa alla dichiarazione di fallimento di un’impresa con sede nel territorio dell’Unione Europea, l’individuazione del Giudice fornito di giurisdizione deve fare riferimento al Regolamento CE n.1346/2000. In tale contesto, il Giudice competente per le procedure di insolvenza (inclusa la procedura italiana di fallimento) è quello dello Stato dove è situato il centro degli interessi principali della società, vale a dire il luogo “in cui il debitore gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi”.

Secondo la Corte Suprema, si deve presumere, sino a prova contraria, che tale “centro” coincida con il luogo dove si trova la sede legale della società debitrice.

E questa presunzione, sempre ad avviso della Corte, può essere superata solo in presenza di elementi “obiettivi” e “verificabili”, dai quali si possa evincere di essere in presenza di una situazione apparente, diversa da quella effettiva e reale, come nel caso di una società che abbia trasferito la propria sede legale in uno stato estero ma senza svolgere, in tale stato, alcuna concreta attività.

Nella fattispecie esaminata dalla Corte, al trasferimento della sede all’estero non era conseguito un corrispondente trasferimento dell’attività imprenditoriale, da intendersi, in senso lato, quale attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell’impresa.

Per tali ragioni, la Corte ha  considerato vinta e superata la presunzione di coincidenza tra sede legale ed effettivo centro di interessi della società debitrice, attribuendo al Giudice Italiano (e non a quello Rumeno) la giurisdizione  per la declaratoria di fallimento. L’orientamento della Corte di Cassazione, sinteticamente descritto, deve essere accolto con particolare favore.

Da un lato, infatti, ci si è puntualmente attenuti e conformati alle fonti normative di riferimento. Dall’altro, sono stati chiaramente ribaditi principi utili a scongiurare e vanificare un’artificio sempre più utilizzato, negli ultimi anni, da parte di società gravate da debiti anche per effetto, in alcuni casi, di azioni truffaldine a danno di altre realtà imprenditoriali.

Avv.ti Marco Emanuele Galanti e Fabio Meriggi*
*Studio Legale Galanti Meriggi & Partners