[Aprile 2000] - Internet e domain name

Cosa è il Domain name

Domain name, o nome di dominio, è un indirizzo elettronico. Lo si potrebbe definire anche come il simbolo di riconoscimento necessario per identificare i diversi terminali connessi tramite Internet. Ogni computer allacciato alla “rete delle reti” deve essere dotato di un proprio codice d’identificazione che lo renda individuabile e quindi raggiungibile dagli altri computer. Tale codice, il cosiddetto indirizzo IP, è determinato secondo le specifiche del TCP Internet Protocol ed è formato da un numero binario, suddiviso in gruppi di cifre, ciascuno dei quali svolge una sua precisa funzione. Ora, sarebbe troppo difficile e complicato per ogni utente di Internet conoscere e memorizzare tutti questi insiemi di numeri. E’ stato così creato il sistema DNS, Domain name system, ossia il sistema dei nomi di dominio. L’indirizzo DNS digitato dall’operatore viene immediatamente commutato da un apposito software nell’indirizzo IP corrispondente, che resta l’unico in grado di essere riconosciuto dagli elaboratori. Sotto il profilo funzionale, il domain name non è altro che la traduzione letterale di un codice numerico. Gli indirizzi sono scritti proprio secondo le regole del DNS. I domain (identificativi di società, scuole, organizzazioni ed enti pubblici, nonché di persone fisiche) sono costituiti da due elementi: una designazione individualizzante, scelta dall’utente, ed un’abbreviazione che ne descrive il tipo. Tutti gli utenti devono registrare la parte che individua il domain name, ossia che identifica il server e la relativa entità che lo possiede: in alcuni casi vengono aggiunti ulteriori parti per identificare successivi livelli di indirizzo. La formazione degli indirizzi DNS si basa su più livelli. Il primo di questi è il cosiddetto top level domain, composto da due o tre lettere, che si differenzia nettamente a seconda che l’elaboratore cui si riferisce sia ubicato negli Stati Uniti oppure in un diverso paese. In tutto il mondo, infatti, la generic abbreviation, mira a segnalare la localizzazione (domain geografico) dell’elaboratore; negli Stati Uniti invece essa fa riferimento all’attività svolta dall’utilizzatore dell’home computer (domain tematico), ricondotto però ad un ristretto novero di categorie assai generiche.

Chi assegna i Domain names

L’assegnazione dei domain names deve essere coordinata. L’Internet Society ha affidato l’organizzazione dei domain names ad un altro ente, la Internet Assigned Numbers Authority (IANA) con sede a Marina del Rey in California. L’organismo centrale per l’assegnazione degli indirizzi in rete negli Stati Uniti è l’Internet Network Information Center, più frequentemente abbreviato InterNIC, direttamente dipendente da questa. InterNIC non sarebbe in grado di provvedere alla registrazione di tutti i domain names degli utenti di Internet nel mondo: la IANA ha così delegato tale compito a distinte autorità continentali, quali la ARIN per il Nord America, la RIPE per l’Europa e la APNIC per l’Asia e le regioni del pacifico. Da queste ultime dipendono a loro volta le varie autorità nazionali. I “Top level Domain Names” nazionali sono assegnati dagli enti adibiti a questa funzione nei diversi Stati. L’autorità di registrazione italiana ha sede a Pisa presso l’Istituto per le applicazioni telematiche del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Alla Registration Authority, costituita nel 1994 in base ad un accordo con l’organismo statunitense IANA, è stato affidato il compito di assegnare i nomi a dominio per il livello “.it”, e di tenere i relativi registri. Le disposizioni che regolano l’attività dell’autorità di registrazione sono stabilite dalla Naming Authority Italiana, organismo costituito da esperti del settore accademico e commerciale, e costituiscono le c.d. “Regole di Naming”.

Com’è regolata la registrazione

Fino ad oggi l’assegnazione dei domain names non è stata disciplinata a livello normativo, ma ha seguito il principio fondato sull’anteriorità della domanda di registrazione, il c.d. principio del “first come, first served”, in base al quale un determinato nome di dominio viene assegnato al primo soggetto che ne faccia richiesta. A tale scopo, le autorità di registrazione, compresa quella italiana, prima di assegnare un nome a dominio si limitano a controllare, solo in base al proprio registro, che il nome richiesto non sia già stato assegnato ad un altro soggetto. Non vi è alcuna verifica ulteriore: nessuno si preoccupa di controllare se il richiedente abbia diritto ad usare il nome che intende registrare, né di confrontare il registro dei domain names con registri di autorità diverse (come ad esempio il registro dei marchi). E’ chiaro allora come, con l’ingresso delle imprese nel mondo di Internet, sia sorto inevitabilmente il problema del conflitto tra domain names, marchi d’impresa e segni distintivi, ma anche tra domain names e i nomi che identificano persone fisiche, persone giuridiche o altri tipi di organizzazioni di beni o persone. In passato è accaduto che siano stati concessi domain names corrispondenti a marchi famosi a soggetti diversi dai legittimi titolari dei marchi. Vi è di più: spesso questi domain names sono stati ottenuti con un preciso scopo ricattatorio (Domain Name Grabbing) da soggetti che, ben consci di tale corrispondenza, si sono appropriati di nomi famosi proprio con l’intento di rivenderli poi a caro prezzo ai legittimi titolari. Fino ad oggi Dottrina e Giurisprudenza italiane hanno attribuito al domain name funzione distintiva e capacità identificatrice: in questo modo, proprio in funzione di questi presupposti, tale nuovo segno è stato assoggettato alla disciplina della concorrenza sleale e della contraffazione di marchio o di altro segno distintivo tipico. In particolare è stato sottolineato come mediante l’applicazione dell’art.13, comma 1° della “legge marchi”, che ha sancito il principio di unitarietà dei segni distintivi, il titolare di un marchio possa opporsi all’adozione di un domain name uguale o simile al proprio segno se, a causa dell’identità o affinità tra prodotti o servizi, possa crearsi un rischio di confusione che può consistere anche in un rischio di associazione tra tali segni. La tutela è ancora più estesa nel caso in cui il marchio goda di rinomanza.

Novità

Proprio all’inizio del mese di aprile 2000 si è tenuto a Lisbona il Consiglio interministeriale sulla Società dell’informazione e della conoscenza dove si è discusso dell’innegabile necessità di regolamentare con norme giuridiche la registrazione dei domini. Tutti i Paesi partecipanti, anche i più “liberisti”, hanno convenuto che alcune certezze sono indispensabili per ottenere la fiducia degli utenti che navigano in rete, soprattutto se devono fare acquisti. In Italia il 12 aprile 2000 il Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge proprio in materia di disciplina dell’utilizzazione di nomi per l’identificazione di domini Internet e servizi in rete. Il Governo ha dichiarato che proporrà una procedura d’urgenza al Parlamento per l’approvazione di tale provvedimento che fino ad oggi non è ancora in vigore. Il disegno di legge in questione introduce sicuramente importanti novità; infatti il testo del provvedimento prevede il divieto di identificazione dei domini attraverso l’utilizzazione di:

a) nomi identici o simili a quelli che identificano persone fisiche, persone giuridiche o altre organizzazioni di beni o persone;

b) nomi identici o simili a marchi d’impresa o altri segni distintivi dell’impresa o di opere dell’ingegno;

c) nomi che identificano istituzioni o cariche pubbliche, enti pubblici o località geografiche;

d) nomi di genere, quando sono utilizzati per trarne profitto, tramite cessione, o per recare un danno;

e) nomi tali da creare confusione o risultare ingannevoli, anche attraverso l’utilizzazione di lingue diverse dall’italiano.

Ovviamente l’identificazione di domini attraverso i nomi descritti alle precedenti lettere a, b, c, sarà possibile da parte del soggetto titolare del nome o da parte del soggetto espressamente autorizzato per iscritto da quest’ultimo (art.1 del disegno di legge). Ferma restando la normativa vigente che tutela tutte queste categorie di nomi, anche con riferimento al trattamento dei dati personali, tale provvedimento prevede che l’uso indebito di un nome porti alla cessazione del suo uso e comporti un risarcimento del danno “nella misura minima di 30 mila euro” (circa 60 milioni di lire). Per vigilare sulla correttezza dei comportamenti è stata prevista una nuova autorità, l’Anagrafe nazionale dei nomi di dominio istituita con il secondo articolo del disegno legge presso l’Istituto per le applicazioni telematiche del CNR di Pisa, che opera da anni come Registration Authority italiana. Il divieto di utilizzare il nome in violazione dell’articolo 1 del disegno di legge sopra richiamato si applica anche alla registrazione identificativa di domini Internet o servizi in rete ovunque ottenuti (art.1, 3° comma del disegno di legge). Per effetto di detto principio quindi qualsiasi soggetto assoggettato alla giurisdizione italiana potrà essere sanzionato secondo le misure previste nel disegno di legge anche per le violazioni del provvedimento concernenti domini registrati all’estero. Infine è stato previsto che nel registro dell’Anagrafe vengano inseriti tutti i domain names già registrati alla data di entrata in vigore del provvedimento e che vengano cancellati tutti i domini che risultino essere “abusivi” anche se registrati prima della sua entrata in vigore. La verifica non è automatica, ma avviene ogni volta che un soggetto presenti una nuova richiesta di registrazione e il domain name risulti essere già assegnato. In pratica, se un singolo, persona fisica o giuridica, fa domanda per ottenere un domain name e quel domain name risulta essere già occupato, l’Anagrafe verifica chi è il possessore legale del titolo a iscrivere quel dominio. Se il domain name è già occupato abusivamente allora la precedente assegnazione viene cancellata e il domain name viene assegnato a chi ne è effettivamente titolare. Solo su richiesta della parte lesa l’Authority potrà anche dare luogo a una procedura di arbitrato: se le parti riescono a trovare un accordo la controversia si conclude in quella sede, altrimenti si dovrà instaurare un vero e proprio giudizio. L’Anagrafe inoltre dispone anche la cancellazione di tutti quei domini che non vengono utilizzati entro 90 giorni dalla data di registrazione. Come già accennato il provvedimento in esame, trattandosi di disegno di legge ad iniziativa del governo, dovrà essere sottoposto al vaglio e all’approvazione del Parlamento. E’ quindi probabile che il provvedimento subisca modifiche e/o integrazioni in sede di sua approvazione. Lo studio rimane comunque a disposizione per ogni ulteriore chiarimento.

Milano, lì 19 aprile 2000

studio legale GGM

[Marzo 2000] - Danno Biologico

All’art.3 del Decreto Legge n.70 del 28/3/2000 erano state introdotte, come noto, specifiche limitazioni in tema di risarcimento dei danni alla persona di “lieve entità” (danno biologico: L.800.000 a punto sino al 5%, L.1.500.000 dal 6% al 9%; danno biologico temporaneo: L.50.000 per ogni giorno di invalidità assoluta…;danno non patrimoniale: 25% di quanto liquidato per danno biologico…).

La Legge 26 maggio 2000 n.137, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.172 del 27 maggio 2000, ha convertito il predetto Decreto (con modificazioni).

Nel testo della Legge di conversione, è stata tra l’altro prevista la soppressione dell’art.3 in precedenza richiamato.

Per l’effetto, le limitazioni a suo tempo introdotte dal Decreto Legge sono venute meno, con conseguente reviviscenza dei consueti criteri di quantificazione del danno.

Per quanto attiene, in particolare, al Foro milanese, occorre quindi attualmente fare principale riferimento alle note Tabelle, da ultimo aggiornate nel corso del mese di marzo del corrente anno.

Occorre altresì considerare che nel frattempo è stato predisposto e già approvato dal Consiglio dei Ministri in data 10/5/2000 un disegno di Legge che prevede una nuova modalità di computo del danno biologico per le lesioni sino al 9%. Il disegno prevede una quantificazione “base” di L.1.200.000 alla quale devono essere applicati, caso per caso, coefficienti proporzionali alla percentuale di invalidità ed all’età del danneggiato (ad es., in caso di 8 punti di invalidità per soggetto di 35 anni di età, il calcolo dovrebbe essere così effettuato: L.1.200.000 x il coefficiente 1.3, indicato nel progetto di Legge e corrispondente a detti punti di invalidità, x 4 - il coefficiente per età 17.5% = L.16.632.000; mentre con il decreto non convertito si sarebbe raggiunta la somma di L.800.000 x 8 = L.6.400.000!).

Per il resto, il disegno di Legge in questione prevede la liquidazione del danno biologico temporaneo nella misura di L.50.000 per ogni giorno di invalidità assoluta mentre, in caso di invalidità temporanea inferiore al 100%, la liquidazione dovrebbe avvenire “in misura corrispondente alla percentuale di invalidità riconosciuta per ciascun giorno”. Da ultimo, il danno non patrimoniale dovrebbe essere risarcito in un importo non superiore al 25% di quanto risarcito a titolo di danno biologico.

Studio Legale GGM

[Gennaio 2000] - Privacy: dpr 28/07/99 n° 318

CIRCOLARE N. 10 GEN2000

PRIVACY: DPR 28 LUGLIO 1999 N. 318 “regolamento recante norme per l’individuazione delle misure minime di sicurezza per il trattamento dei dati personali, a norma dell’art.15, comma 2 , della legge 31/12/96, n.675″

Premessa

Facendo seguito alle precedenti circolari informative in materia, come a Voi ben noto a far data dall’8 maggio 1997 è entrata in vigore la legge nr. 675/96, disciplinante il c.d “trattamento dei dati personali “.

L’esigenza di tale normativa si era resa necessaria al fine di garantire che l’ormai usuale scambio, svolto con o senza l’ausilio di mezzi elettronici, di informazioni aventi ad oggetto i cd.”dati personali”, si svolgesse nel rigoroso rispetto dei diritti riconosciuti dal nostro ordinamento , quali il diritto di riservatezza e dell’identità personale.

Per effetto della nuova normativa, dal maggio ‘97, la riservatezza nel trattamento dei dati entra anche nelle relazioni commerciali e pertanto anche le società sono state chiamate ad assolvere gli adempimenti previsti dalla Legge n. 675/96 per non incorrere nelle gravi sanzioni penali, civili e amministrative, dalla stessa previste

Per far fronte a tali obblighi senza “congestionare” le proprie attività, le società hanno avuto la possibilità di creare al proprio interno una struttura organica, di forma piramidale, composta dal titolare, dal responsabile e dagli incaricati.

Il titolare è il soggetto a cui competono le decisioni in ordine alla finalità e alle modalità del trattamento dei dati personali, compreso il profilo della sicurezza; il titolare ha la facoltà di designare uno o più responsabili che procedano al trattamento, elaborando i dati raccolti e attenendosi alle istruzioni impartite dallo stesso titolare ; il titolare e i responsabili possono a loro volta nominare, in forma scritta ed attraverso il conferimento di un mansionario, uno o più incaricati, i quali svolgeranno le attività connesse al trattamento come una delle mansioni a loro spettanti e saranno, pertanto soggetti alla direzione ed al controllo del loro datore di lavoro.

L’art. 15 della Legge 675/96, prevedeva inoltre, in modo generico, che i dati dovessero essere trattati adottando misure di sicurezza ( codici di accesso, sistemi crittografici etc..) idonee a ridurre al minimo i rischi di distruzione, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito, garantendo, in questo modo, l’integrità e la confidenzialità del trattamento stesso.

Ai sensi del 2° comma dell’art. 15, avrebbe dovuto essere emanato, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge 675/96, il regolamento individuante, in modo specifico, le misure minime di sicurezza da adottare in via preventiva.

Il regolamento

Con notevole ritardo, rispetto a quanto previsto dall’art. 15 2° comma della Legge 675/96, è stato emanato in data 28/7/99 il regolamento disciplinante le misure minime di sicurezza per il trattamento dei dati personali.

Detto regolamento, entrato in vigore in data 28/9/99, “impone a tutti i titolari”, Pubblica Amministrazione compresa ( esso è infatti applicabile erga omnes), di adottare tutte le misure minime di sicurezza in esso contenute entro 6 mesi dalla sua entrata in vigore .

Tale adeguamento si rende necessario per non incorrere nella sanzione penale dell’art 36 della legge 675/96, che prevede, in caso di inosservanza del regolamento, la reclusione da 2 mesi a 2 anni, a seconda che dal fatto derivi o meno nocumento.

Resta comunque a carico del titolare, nonostante il rispetto del regolamento, una responsabilità civile ex art. 2050 c.c., in caso di procurato danno, salva la possibilità di dimostrare ( prova quantomai difficile) di aver attuato tutte le misure cautelative.

Si segnala, inoltre, che la stessa Legge 675/96 prevede una revisione periodica di tale regolamentazione in quanto, ogni due anni, dovrà essere emanato un nuovo regolamento, che tenga conto delle precedenti esperienze e dell’evoluzione tecnologica dei sistemi informativi, al quale i “titolari” dovranno adeguarsi sempre entro 6 mesi dall’entrata in vigore di quest’ultimo.

La prima novità del regolamento è rappresentata dall’introduzione di due nuove figure, oltre al titolare, ai responsabili e agli incaricati.

E’ prevista infatti la figura del preposto ( soggetti preposti alla custodia della parola chiave) e dell’amministratore del sistema ( coloro che sovrintendono alle risorse del sistema operativo di un elaboratore o di un sistema di basi dati e ne consentono l’utilizzazione).

La struttura del regolamento prevede l’attuazione di misure minime di sicurezza in scala crescente in considerazione del tipo di dati trattati ( personali o particolari ) e del collegamento degli apparati informatici su reti aperte o chiuse. A) se i dati oggetto di trattamento sono personali ed il trattamento è effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali ( elaboratori domestici, portatili) non è prescritta nessuna misura minima di sicurezza se non una comune diligenza. Se vengono invece trattati dati particolari ( c.d. dati sensibili), sempre per fini esclusivamente personali, e sono organizzati in banche dati , la misura minima richiesta è l’adozione di una parola chiave per accedere ai dati stessi. B) Se il trattamento dei dati personali è effettuato mediante elaboratori non accessibili da altri elaboratori o terminali ( cd. sistemi off line:es. computer non in rete in uno stesso ufficio) sarà necessario adottare le seguenti misure minime di sicurezza: - Prevedere una parola chiave per l’accesso ai dati e fornirla agli incaricati del trattamento ( se la tecnologia dell’elaboratore lo permette, consentire l’autonoma sostituzione della parola chiave) - individuazione per iscritto , quando vi è più di un incaricato al trattamento e sono in uso più parole chiave, dei preposti alla custodia della parola chiave; C) Se il trattamento dei dati personali è effettuato mediante elaboratori accessibili da altri elaboratori o terminali solo attraverso reti non disponibili al pubblico (es. più elaboratori collegati in rete nello stesso ufficio, oltre all’adozione delle misure già previste al punto B) sarà necessario: - consegna ad ogni incaricato di un codice identificativo personale, di tipo esclusivo; - possibilità di disattivazione del codice identificativo personale, in caso di perdita della necessità di accesso da parte di un incaricato o di inattività per più di 6 mesi; Le due disposizioni di cui sopra non si applicano ai trattamenti dei dati personali di cui è consentita la diffusione . - Installazione, comunque, di antivirus con aggiornamento almeno semestrale; In caso di trattamento di dati particolari bisogna inoltre osservare oltre a quanto previsto al precedente punto B) e a quanto appena sopra indicato, anche le seguenti prescrizioni: - creazione di un profilo ( autorizzazione) di accesso per ogni singolo incaricato del trattamento ordinario, con criteri restrittivi, e per ogni singolo incaricato della manutenzione; - verifica annuale della sussistenza delle ragioni del rilascio dell’autorizzazione; - impossibilità di utilizzo del medesimo codice identificativo personale per accedere contemporaneamente alla stessa applicazione da diverse stazioni di lavoro; Le due disposizioni di cui sopra non si applicano ai trattamenti dei dati personali di cui è consentita la diffusione . D) In caso di trattamento dei dati personali effettuato mediante elaboratori accessibili da altri elaboratori o terminali attraverso reti disponibili al pubblico, oltre alle misure minime previste sub C) si devono adottare le misure più prudenziali con particolare riguardo agli specifici sistemi con i quali è possibile interagire. In questo caso la misura più idonea allo scopo è, secondo alcuni primi commentatori, la protezione crittografica, in quanto capace di ricondurre un collegamento su reti disponibili al pubblico in uno su rete non disponibile al pubblico. Qualora, invece, vengano trattati dati particolari all’interno di un sistema di cui sopra, oltre alle prescrizioni di cui al punto C) e a quelle appena sopra indicate , il titolare dovrà provvedere alla: - compilazione di un elenco degli elaboratori tramite i quali è possibile accedere a dati particolari, degli strumenti tramite i quali è possibile interconnettersi alla rete disponibile al pubblico per lo scambio di dati particolari; - compilazione del documento programmatico sulla sicurezza ; E) Se il trattamento dei dati personali è gestito con strumenti diversi da quelli elettronici o comunque non automatizzati il titolare dovrà adottare le seguenti misure minime di sicurezza: - allestimento di un archivio per atti e documenti con dati personali e definizione di procedure di consegna, restituzione e compartimentazione dei dati stessi; - indicazione per iscritto degli incaricati con privilegi di accesso a dati e programmi; - creazione di una procedura e strumenti per la conservazione della documentazione relativa al trattamento; - allestimento di separato archivio per la raccolta di atti e documenti relativi a dati particolari, definizione di procedure di controllo degli accessi, durante e fuori orario, della consegna , restituzione e compartimentazione dei dati stessi; - fornitura agli incaricati, che trattano dati particolari, di contenitori con lucchetti o serrature e definizione di una procedura di gestione delle chiavi. L’articolo 7 del Dpr 318/99,inoltre, disciplina, nel caso di trattamento di dati particolari ( c.d. dati sensibili), il delicato problema del reimpiego dei supporti di memorizzazione (floppy disc etc…) ammettendone il riutilizzo solo quando le informazioni precedentemente contenute non siano tecnicamente recuperabili; in caso contrario detti supporti devono essere distrutti in quanto sugli stessi potrebbero rimanere tracce di dati particolari che sfuggirebbero alla rete delle misure minime di sicurezza sopra elencate. Sarà dunque necessario compiere un inventario e una ricognizione di tutti i supporti di memoria che possono essere riutilizzati, emanare idonee istruzioni di comportamento a tutti gli incaricati ed esaminare ogni singolo nuovo supporto per individuare i relativi rischi in tal senso e agire di conseguenza impartendo anche in questo caso adeguate istruzioni agli incaricati Si evidenzia, infine , che il responsabile di un sistema informativo automatizzato dovrà comunque prestare attenzione anche alla conservazione di tutta la documentazione non archiviata su supporti informatici ( stampate degli elaboratori, fotografie, nastri magnetici) adottando tutte le misure minime di sicurezza previste sub E).

In conclusione, anche in questo caso e come già avvenuto in occasione della Legge 675/96, il legislatore si è distinto per la sua incapacità di risolvere in modo chiaro e semplice la problematica inerente l’individuazione delle misure di sicurezza nei sistemi informatici e non. Il regolamento, come ben potete constatare è farraginoso, poco chiaro e comporterà, per una sua effettiva applicazione, l’impiego di considerevoli risorse umane ed economiche. Tuttavia non posso sottrarmi dal segnalarVi l’opportunità di un tempestivo ed analitico approccio con il presente regolamento, da poco entrato in vigore, anche con l’ausilio dei Vostri consulenti informatici e ciò anche in considerazione della severità della norma penale prevista, della responsabilità civile ex art. 2050 c.c. che potrebbe comunque derivare dal trattamento dei dati personali non conforme ai principi sopra delineati. Da ultimo, mi permetto, altresì di ricordarVi che l’adeguamento alle prescrizioni previste dal Dpr n.318/99 deve essere effettuato entro il 29/3/2.000 e che comunque , nell’ambito della legge n. 675/96, il Legislatore, ha previsto, come già accennato, un aggiornamento biennale del regolamento stesso. Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano ,Aprile 2000

Studio Legale GGM

[Settembre 1998] - Disciplina della subfornitura delle attività produttive

CIRCOLARE N. 9 SET98

“LEGGE N.192/1998 - DISCIPLINA DELLA SUBFORNITURA NELLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE”

Premessa

Dal 20 ottobre 1998 entrerà in vigore la Legge nr.192/98 con la quale il legislatore ha inteso regolamentare la disciplina della subfornitura nelle attività produttive.

Il legislatore ha voluto così tipizzare un contratto molto diffuso nella prassi commerciale, cercando di tutelare la debole posizione contrattuale delle piccole e medie imprese subfornitrici al cospetto dei colossi della produzione e della distribuzione.

E’ quantomai necessaria, considerata la forte ripercussione giuridica e finanziaria che avrà sui rapporti tra imprese committenti e subfornitrici, una sintetica analisi dei principi generali contenuti nella normativa in esame.

Ambito di applicazione

In via del tutto preliminare, ritengo opportuno individuare quale sia l’ambito di applicazione della legge in esame; ai sensi dell’art. 1, comma 1° con la stipulazione di un contratto di subfornitura un imprenditore, s’impegna a:

a) “effettuare per conto di un’ impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime fornite dall’impresa committente medesima

b) fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente.

” Tale definizione sembrerebbe dilatare oltre modo l’ambito applicativo, così da comprendervi tutte le ipotesi di fornitura tra due imprese; il legislatore, infatti, ha utilizzato espressioni e terminologie estremamente generiche che impediscono, di fatto, di evidenziare la linea di demarcazione tra forniture e subforniture

. L’art. 1 comma 2°, dispone, inoltre, che “i contratti aventi ad oggetto la fornitura di materie prime, di servizi di pubblica utilità e di beni strumentali non riconducibili ad attrezzature” sono espressamente esclusi dall’ambito d’applicazione della normativa in esame.

Pur considerando tassativa tale elencazione, sarà comunque difficile individuare le ipotesi negoziali escluse dall’ambito di applicazione della norma in quanto, ad esempio, non è immediatamente individuabile la categoria dei beni strumentali non riconducibili ad attrezzature.

Forma e contenuto del contratto

Il contratto di subfornitura deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità (art.2, comma 1°); costituiscono forma scritta anche le comunicazioni effettuate tra committente e subforniture per telefax od altra via telematica.

Inoltre, in caso di nullità del contratto per mancanza di forma scritta, il subfornitore non è tenuto ad eseguire la prestazione, né questa può essergli richiesta dal committente; nel caso in cui esegua in buona fede il contratto nullo, il subfornitore è comunque tutelato poiché la legge gli riconosce il diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute ai fini dell’esecuzione del contratto.

Fermo quanto sopra, il contratto proposto per iscritto dal committente, non seguito da accettazione scritta, da parte del subfornitore, si considera comunque concluso qualora il subfornitore vi abbia dato esecuzione (art.2 comma 2°).

Per quanto riguarda, invece, il contenuto del contratto, l’art.2, comma 5°, prevede che devono essere indicati:

a) i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente;

b) il prezzo pattuito;

c) i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento;

Ritengo che tali requisiti debbano essere considerati elementi essenziali del contratto di subfornitura e, di conseguenza, la mancata e specifica indicazione di uno dei suddetti elementi comporterebbe la nullità del contratto stesso

.Termini di pagamento

Nel contratto devono essere, inoltre, specificamente indicati i termini di pagamento della subfornitura, decorrenti dalla data di avvenuta consegna del bene o dal momento della comunicazione dell’avvenuta esecuzione; tali termini non possono comunque eccedere i 60 giorni, prolungabili a 90 giorni mediante accordi nazionali per settori o comparti, o mediante accordi locali sottoscritti presso le camere di commercio (art.3, comma 1° e 2°).

In caso di mancato rispetto di tali termini, la presente legge prevede, a carico del committente inadempiente, effetti particolarmente gravosi:

1) Salvo interessi pattuiti in misura maggiore, il committente è tenuto a corrispondere al subfornitore interessi di mora, con decorrenza immediata, pari al tasso ufficiale di sconto maggiorato del 5 %;

2) In caso di ritardo nel pagamento di oltre 30 giorni dalla scadenza del termine convenuto, il commitente dovrà, altresì, pagare una penale pari al 5% dell’importo in relazione al quale non sono stati rispettati i termini.

Segnalo, inoltre, che il subfornitore, in caso di mancato pagamento, al termine della scadenza pattuita, può ottenere dall’autorità giudiziaria decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ai sensi dell’art. 642 c.p.c.

Responsabilità del subfornitore

Ai sensi dell’art.5, il subfornitore è responsabile del funzionamento e della qualità della parte o dell’assemblaggio da lui prodotti o del servizio fornito, secondo le prescrizioni contrattuali e a regola d’arte.

Il subfornitore, invece, non è responsabile dei difetti di materiali o attrezzi fornitigli dal committente per l’esecuzione del contratto, purché li abbia tempestivamente segnalati al committente.

Preciso, inoltre, che in caso di contestazioni sull’esecuzione della subfornitura, il committente deve, a pena di decadenza, azionarsi entro i termini preventivamente stabiliti nel contratto

Regime IVA

L’art. 8, integrando l’art.74 del D.P.R. n.633/72, consente al subfornitore, qualora per il pagamento del prezzo sia stato pattuito un termine successivo alla consegna del bene o alla comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, di versare l’I.V.A. con cadenza trimestrale, senza incorrere nel pagamento di interessi.

Si tratta quindi di un’agevolazione tributaria a favore del subfornitore; tale criterio dell’esigibilità differita dell’I.V.A., già presente in altri ordinamenti tributari esteri quale, ad esempio quello francese, è anche compreso nella raccomandazione della Comunità europea, da cui è stata originata la normativa sulla fornitura.

Abuso di dipendenza economica

L’art. 9 introduce l’istituto dell’abuso di dipendenza economica che si verifica nel caso in cui un’impresa, sia essa committente o subfornitrice, sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.

La normativa impone il divieto assoluto dell’abuso dello stato di dipendenza economica e precisa altresì che tale abuso può anche consistere, a titolo esemplificativo, nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.

Si precisa, altresì, che è nullo qualsiasi patto attraverso il quale si realizzi tale abuso.

Conciliazione ed arbitrato

Qualora fossero sollevate contestazioni in ordine all’esecuzione del contratto, la legge in esame prevede che le parti ricorrano obbligatoriamente al tentativo di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede il subfornitore; tale tentativo deve essere fatto entro 30 giorni dalla scadenza del termine stabilito dal contratto per eventuali contestazioni

. In caso di esito negativo di tale tentativo, su richiesta di entrambi i contraenti è possibile rimettere la causa ad un collegio arbitrale, presso la camera di commercio, che deve dirimere la controversia entro il termine massimo di sessanta giorni a decorrere dal primo tentativo di conciliazione.

La ratio di questa disposizione è chiaramente quella di evitare il più possibile il ricorso al giudice ordinario, i cui tempi potrebbero frustrare l’intento della legge di provvedere ad una rapida tutela.

Riflessioni finali

Come si evince dalle brevi considerazioni sopra esposte, i principi generali della riforma in esame fanno sorgere numerosi dubbi interpretativi.

In particolar modo, come in precedenza ho già segnalato, il legislatore non è riuscito a individuare, con sufficiente precisione, gli elementi attraverso cui distinguere l’ambito di applicazione del contratto di subfornitura rispetto all’ambito di applicazione degli altri contratti utilizzati nella prassi commerciale (fornitura, compravendita, appalto, somministrazione …)

Peraltro, in attesa che si consolidino orientamenti giurisprudenziali in materia, e che si realizzi una prassi significativa nell’applicazione della nuova legge, ritengo quantomai opportuno propendere per una interpretazione restrittiva e rigida dei principi sopra esposti.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Settembre 1998

Studio Legale GGM

[Luglio 1998] - Revisore contabile

CIRCOLARE N. 8 LUG98

“LE MODALITA’ DI ESERCIZIO DELLA FUNZIONE DI REVISORE CONTABILE - ART.39 DEL D.P.R. 06.03.1998 N.99″

Premessa

In data 01.05.1998 è entrato in vigore il D.P.R. 06.03.1998 n.99 , attraverso il quale il Legislatore ha ridisciplinato le modalità di esercizio della funzione di revisore contabile.

Più in particolare, il decreto contiene importanti novità sia per quanto riguarda l’esercizio del potere di vigilanza sull’attività di controllo legale dei conti, sia per quanto riguarda le ipotesi di sospensione e di cancellazione dell’iscritto dal registro dei revisori contabili (art.31-41).

Limitando l’attenzione alle fattispecie che danno luogo alla sospensione ovvero alla cancellazione del revisore contabile dal registro, ritengo quanto mai opportuno svolgere alcune, brevi riflessione in merito al contenuto dell’art.39.

Art. 39: cause di sospensione del revisore contabile

E’ innanzitutto necessario ricordare che lo spirito sotteso all’art.39 è quello di garantire, in armonia con l’orientamento giurisprudenziale prevalente e con autorevoli opinioni dottrinali , l’autonomia e l’indipendenza, sia formale che sostanziale, del revisore contabile dalla società che conferisce l’incarico, dalle sue contollate e controllanti.

In altri termini, il legislatore ha voluto evitare conflitti o sovrapposizioni di interesse, impedendo che uno stesso soggetto rivesta, per conto della medesima società o ente, una pluralità di funzioni che ne possano pregiudicare, direttamente o indirettamente, l’imparzialità.

Più in particolare, la norma in esame contiene l’elencazione di alcune fattispecie che compromettono l’idoneità al corretto svolgimento delle funzioni di controllo dei conti, e al cui verificarsi il direttore generale degli affari civili e delle libere professioni, organo facente parte della commissione centrale per i revisori contabili, dispone la sospensione del revisore.

Le suddette fattispecie non possono, e non devono, a ns. avviso, essere lette ed interpretate separatamente, ma, al contrario, in modo coordinato tra loro in quanto presentano alcuni elementi di identità e di sovrapposizione ed alcuni aspetti di diversità e di contrapposizione.

Limitando l’attenzione alle circostanze di maggiore interesse indicate ai punti c), d) ed e) della norma in esame, emerge che si riferiscono agli stessi soggetti, ovverosia all’iscritto, all’amministratore, al direttore generale, al socio o ai soggetti di cui l’iscritto si avvale per svolgere la sua attività.

Tali soggetti non possono intrattenere (o avere intrattenuto nei due anni antecedenti al conferimento dell’incarico) rapporti continuativi e rilevanti con il soggetto che conferisce l’incarico (lett.c), e non possono essere (o essere stati nei tre anni antecedenti) legati con lo stesso da rapporti di lavoro subordinato o autonomo (lett.d).

L’iscritto, l’amministratore, il direttore generale, il socio o i soggetti di cui l’iscritto si avvale non possono, infine, ricoprire (o avere ricoperto nei tre anni antecedenti) cariche di amministratori della società o dell’ente che conferisce l’incarico (lett. e).

Orbene, per quanto riguarda i concetti di continuità e rilevanza del rapporto richiamati al punto c) dell’art.39, segnaliamo che la nozione di continuità non solleva particolari problemi poichè individua e descrive una situazione di fatto che si protrae in modo ininterrotta nel tempo. Circa il concetto di rilevanza, invece, riteniamo che non sia corretto limitarne la portata a valori esclusivamente economici.

Un rapporto può essere rilevante, infatti, non solo quando rappresenti per il revisore una percentuale (30 o 40%) elevata del suo fatturato , ma anche quando, nel corso del rapporto, il revisore abbia svolto compiti ed incarichi di particolare importanza o che implicano notevoli responsabilità.

In altri termini, il concetto di rilevanza deve essere individuato, non solo tramite criteri economici, ma anche attraverso criteri di funzione

. In merito al contenuto del punto d), al di là del concetto di subordinazione sul quale non ritengo sussistere dubbi interpretativi, rileviamo che il legame derivante da rapporto di lavoro autonomo può sorgere allorchè si formalizzi, ad esempio, un contratto di collaborazione e consulenza tra l’iscritto, l’amministratore, il direttore generale, il socio o i soggetti di cui l’iscritto si avvale, da una parte, e colui che conferisce l’incarico, dall’altra.

Vi è di più: il punto c) estende il divieto per tutti i soggetti ivi indicati di intrattenere (o di avere intrattenuto nei due anni antecedenti al conferimento dell’incarico) rapporti continuativi o rilevanti con le società controllate dal soggetto che ha loro conferito l’incarico (estensione del divieto verso il basso).

Al contrario, i punti d) ed e) prevedono un estensione del divieto verso l’alto: il punto d) dispone, infatti, che i soggetti ivi indicati non possano avere legami derivanti da rapporti di lavoro subordinato o autonomo con la società controllante il soggetto che ha conferito l’incarico; il punto e) dispone, invece, che gli stessi soggetti non possano essere amministratori della società che controlla la società o l’ente che ha conferito l’incarico.

Per effetto delle riflessioni sopra prospettate e di una rigida interpretazione letterale della norma, in assenza di interpretazioni ministeriali che pur non avendo una efficacia vincolante presenteranno indiscutibili effetti nella concreta applicazione della normativa in esame, emergono due osservazioni:

1) l’iscritto, l’amministratore, il direttore generale, il socio o i soggetti di cui l’iscritto si avvale non possono intrattenere (o avere intrattenuto) rapporti continuativi o rilevanti con la società controllata dal soggetto che ha conferito l’incarico;

2) l’iscritto, l’amministratore, il direttore generale, il socio e i soggetti di cui lo stesso si avvale, parrebbe possano intrattenere (o avere intrattenuto) rapporti continuativi o rilevanti con la società controllante, ma non possano nè essere (o essere stati) legati con la stessa da rapporti di lavoro subordinato o autonomo, né esserne (o esserne stati) gli amministratori. Ovviamente, nel caso in esame, l’incarico non dovrà essere conferito dalla controllante nell’interesse della controllata.

Lo schermo delle società di professionisti

Al fine di evitare i precetti normativi sopra esposti potrebbe sorgere l’idea di costituire una società tra professionisti in modo tale da precostituire uno schermo tra il soggetto che conferisce l’incarico di revisione e le sue società controllanti o controllate, da un lato, e i singoli professionisti, dall’altro.

Ebbene, riteniamo che l’idoneità al corretto svolgimento delle funzioni di controllo dei conti sarebbe comunque compromessa nell’ipotesi in cui il rapporto con la società che conferisce l’incarico (le sue controllate o controllanti) non intercorra direttamente con l’iscritto, ma con la società o lo studio associato nel quale l’iscritto stesso partecipa in qualche forma e/ o misura.

Lo “schermo” della società tra professionisti, infatti, non pare sufficiente ad eludere lo spirito della norma per due ragioni; in primo luogo, non si può dimenticare che il Consiglio di Stato, con parere reso dalla sezione consultiva per gli atti normativi nell’adunanza dell’11 maggio 1998, ha proposto che i professionisti non possano costituire società di capitali, bensì società secondo i tipi regolati “dai capi I, II, III e IV del titolo quinto del libro quinto e dall’articolo 2512 c.c.” (società semplici, società in nome collettivo, società in accomandita semplice, cooperativa a responsabilità illimitata).

Pertanto, se il regolamento dovesse essere approvato, come è probabile, nel rispetto delle indicazioni fornite dal Consiglio di Stato, sarà possibile costituire tra professionisti solo società di persone che, in quanto tali, sono caratterizzate da un’autonomia economica imperfetta e da una maggiore responsabilità, oltre che da un più accentuato coinvolgimento ed interesse, del singolo socio.

Sarebbe, dunque, difficile sostenere che l’idoneità al corretto svolgimento delle funzioni di controllo dei conti non sia compromessa poiché il legame di lavoro autonomo, o il rapporto continuativo o rilevante con il soggetto che conferisce l’incarico, è sorto con la società di professionisti, e non con il singolo iscritto che è socio della stessa società tra professionisti.

In secondo luogo, secondo quanto segnalato dal Consiglio di Stato e da autorevole dottrina , nelle future società tra professionisti, si dovrà distinguere tra il soggetto economico (la società di professionisiti) che contrae con il cliente, ed il singolo professionista concretamente incaricato della esecuzione dell’attività professionale.

Da ciò consegue che, quantunque il rapporto economico sorga tra la società di professionisti ed il cliente, quest’ultimo comunque potrà scegliere ed individuare il singolo professionista di cui ha intenzione di avvalersi instaurando con lo stesso un rapporto fiduciario, basato sull’intuitu personae.

Pertanto, sebbene il vincolo contrattuale sia instaurato tra la società di professionisti ed il cliente, comunque il rapporto tra il cliente ed il singolo professionista conserverà autonoma rilevanza, e ciò, a mio avviso, anche ai fini dell’applicazione dell’art.39

Osservazioni finali

Dalla succinta panoramica di considerazioni sopra esposte emerge l’esigenza per i revisori contabili di individuare, con certezza, quali siano le attività che possono seriamente compromettere il corretto svolgimento della funzione di controllo dei conti.

In attesa che si sviluppino orientamenti interpretativi in materia, riteniamo quanto mai opportuno propendere per un’interpretazione restrittiva e rigida dei principi sopra indicati.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Luglio 1998

Studio Legale GGM

[Giugno 1998] - Consenso trattamenti sanitari

CIRCOLARE N.7 GIU98

“IL CONSENSO INFORMATO AGLI INTERVENTI CHIRURGICI ED AGLI ALTRI TRATTAMENTI SANITARI”

Premessa

Nel valutare la responsabilità civile, penale e deontologica dell’operatore sanitario, e le connesse responsabilità della struttura in cui lo stesso opera, riveste importanza prioritaria verificare in quale modo il medico, prima di ciascun trattamento sanitario, abbia informato il paziente e se quest’ultimo abbia effettivamente espresso un consenso (informato) al trattamento stesso.

Tale importanza trova riscontro in un recente orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui è essenziale che il paziente esprima il consenso con perfetta conoscenza tecnica della natura del trattamento sanitario cui verrà sottoposto.

Considerato che la maggior parte dei consensi informati da me esaminati, utilizzati all’interno delle strutture sanitarie, sono generici, standardizzati ed incompleti ritengo opportuno svolgere, seppur in estrema sintesi, alcune riflessioni in merito alla natura delle informazioni che il medico deve fornire al paziente prima di ogni intervento ed ai requisiti che il consenso, rilasciato dal paziente, deve presentare.

L’informativa al paziente

Il medico curante, salvi i casi in cui il sanitario debba intervenire in una situazione di emergenza, deve fornire al paziente un’ampia ed idonea informazione che consenta a quest’ultimo di esprimere un consenso all’intervento.

Esiste, in altri termini, un preciso obbligo del medico di informare il paziente ed un corrispondente diritto dello stesso paziente ad essere informato, al fine di poter liberamente scegliere se sottoporsi o meno al trattamento sanitario.

Il diritto di essere informato costituisce, pertanto, il presupposto naturale del consenso informato che può essere manifestato solo dal soggetto interessato che abbia compreso effettivamente la sua situazione sanitaria.

Orbene, quali sono le informazioni che il medico deve fornire al paziente prima di sottoporlo ad un intervento chirurgico?

Sul punto si possono segnalare diverse posizioni: secondo il Comitato Nazionale di Bioetica “l’informazione dovrà riguardare una breve descrizione della metodica indicata e delle alternative terapeutiche, le finalità, le possibilità di successo, i rischi, gli effetti collaterali ” dell’intervento chirurgico.

Secondo quanto previsto, in modo più articolato, dall’art.29 del nuovo codice di deontologia medica “il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena ed idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche, anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta. Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire ed accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti gli aspetti scientifici

.” In virtù di tale norma, pertanto, incombe sul medico un dovere di fornire al paziente, a seconda delle sue capacità intellettive e conoscitive, le informazioni relative all’intervento chirurgico.

La giurisprudenza in materia è, invece, molto più categorica e ristrittiva: secondo quanto previsto dal sopra richiamato orientamento della Corte di Cassazione , nell’ambito degli interventi chirurgici il dovere di informazione gravante sul medico concerne la natura e la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, il decorso post-operatorio, l’incidenza sulla vita, le tecniche operative alternative egualmente utilizzabili, in modo tale da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o meno, attraverso un bilanciamento ed un raffronto di benefici e rischi.

L’obbligo, sempre secondo la giurisprudenza prevalente, si estende, peraltro, ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito che non assumono rilevanza, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve inevitabilmente contemperare l’esigenza e l’obbligo di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento.

In altri termini, al paziente devono essere fornite tutte le informazioni necessarie per consentirgli di valutare l’opportunità o meno dell’operazione e, quindi, di accettare o rifiutare l’intervento, assumendosene consapevolmente anche il relativo rischio, non derivante da errore professionale.

Vi è di più: la giurisprudenza ha affermato che il dovere di informazione deve diversificarsi a secondo della tipologia di intervento cui il paziente deve essere sottoposto; pertanto, l’informazione deve essere più dettagliata in relazione agli interventi diagnostici o terapeutici più rischiosi in quanto vi è una rapporto di diretta proporzionalità tra rischio ed informazione.

Da ciò consegue che l’informazione che il sanitario deve fornire al paziente, prima di sottoporlo all’intervento, non può, e non deve essere generica e standardizzata; la fase informativa non deve essere burocratizzata dai sanitari, ma deve costituire un passaggio importante nell’intero trattamento sanitario e deve necessariamente risultare, in modo esaustivo ed in forma scritta, nel modello di consenso che viene sottoscritto dal paziente.

Il consenso del paziente

Adempiuto, nei termini sopra indicati, l’obbligo gravante sul medico di fornire, prima di dar corso al trattamento sanitario, un ampio spettro informativo al paziente, sorge la necessità, per ragioni civili, penali e deontologiche, che quest’ultimo esprima uno specifico consenso (informato) all’intervento chirurgico.

Tale consenso deve essere rilasciato, per evidenti motivi probatori, in forma scritta , direttamente dal paziente, salvo il caso degli incapaci ; deve essere sempre relativo ad una determinata situazione e, di norma, deve riguardare un determinato trattamento eseguito da un medico, o una equipe medica ben individuati.

Peraltro, nell’ipotesi in cui il sanitario, per oggettive difficoltà diagnostiche, non sia in grado di individuare con certezza la natura dell’intervento cui sottoporrà il paziente, sarà necessario prospettare a quest’ultimo le diverse tipologie di intervento prevedibili al fine di ottenere il consenso ad attuare, in concreto, quella più opportuna.

Il consenso, inoltre, deve essere attuale, cioè espresso prima del trattamento e non deve essere stato revocato al momento dell’esecuzione dell’atto; pertanto, nel caso trascorra un notevole periodo di tempo tra il momento in cui è stato rilasciato il consenso e quello in cui viene eseguito il trattamento, si renderà necessario un nuovo consenso da parte del paziente.

Da ultimo, come già rilevato, il modulo di consenso deve contenere un’analitica descrizione del contenuto dell’informativa fornita al paziente; questo elemento è indispensabile al fine di verificare se il paziente abbia espresso il suo consenso al trattamento sulla base di sufficienti elementi informativi.

Osservazioni finali

Come si evince dalla succinta panoramica di riflessioni, l’informativa da fornire al paziente, ed il consenso espresso da quest’ultimo, costituiscono una fase imprenscindibile nel rapporto tra il medico ed il paziente.

Un trattamento sanitario eseguito in modo tecnicamente corretto, ma che non sia stato preceduto da una fase informativa completa al termine della quale il paziente ha espresso il proprio consenso, potrebbe far sorgere pesanti responsabilità sia in capo all’operatore sanitario, sia in capo alla struttura (pubblica o privata) in cui lo stesso esercita la professione medica.

Da ciò consegue l’esigenza di predisporre, per ciascuna tipologia di trattamento sanitario, una modulistica dettagliata che presenti tutti gli elementi sopra descritti e che possa tutelare il medico, e la struttura in cui opera, in caso di controversie.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Giugno 1998

Studio Legale GGM

[Marzo 1998] - Violazione norme tributarie

CIRCOLARE N.6 MAR98

“RIFORMA DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE PER LE VIOLAZIONI DI NORME TRIBUTARIE”

Premessa

Dal 1° aprile 1998 entrerà in vigore la riforma delle sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie , con la quale è stato ridisegnato l’impianto generale del sistema sanzionatorio fiscale.

Il legislatore, a quasi 70 anni dall’ultimo intervento organico in materia, ha voluto così introdurre una riforma del settore di ampio respiro, che interessa tutti i contribuenti (società di capitali, società di persone, associazioni …), basata su nuove linee guida e su nuovi principi generali.

L’esame, seppur sintetico, dei principi più importanti della riforma, risulta, fin d’ora, necessario per comprenderne l’effettiva portata, e per capire cosa, sostanzialmente, muti rispetto al sistema sanzionatorio previgente.

Unificazione delle sanzioni

La modifica di più immediata evidenza, rispetto al sistema previgente, è l’abolizione delle tipiche figure di sanzioni tributarie, soprattassa e pena pecuniaria, che vengono sostituite da una sanzione pecuniaria unica (art.2, comma 1°, Dlgs. n.472/97).

Tale sanzione pecuniaria consiste nell’obbligo di pagamento di una somma di denaro che verrà determinata, per ciascuna violazione, in misura variabile tra un limite minimo ed un limite massimo, ovvero in misura proporzionale al tributo cui si riferisce la violazione stessa o, eventualmente, in misura fissa.

E’, inoltre, disposto che, nei casi tassativamente previsti dalle singole leggi, possano essere irrogate anche sanzioni accessorie tra le quali si evidenzia l’interdizione temporanea dalle cariche di amministratore, di sindaco o di revisore di società di capitali, l’interdizione temporanea dalla partecipazione a gare per l’affidamento di pubblici appalti e forniture (art. 21).

Il principio di legalità, di irretroattività e del favor rei

Il legislatore ha introdotto attraverso la riforma in esame, nel sistema sanzionatorio tributario, tre nuovi ed importanti principi mutuati dal diritto penale: il principio di legalità, il principio di irretroattività e quello del favor rei.

Secondo il principio di legalità, la sanzione amministrativa può essere irrogata solo se risulta contemplata da una norma di rango legislativo e, a differenza del sistema previgente, non può applicarsi se il fatto è stato commesso prima dell’entrata in vigore della disposizione che la prevede (art.3, comma 1°).

Sulla base, invece, del principio della irretroattività se, nel tempo, si succedono più leggi, la sanzione non può essere irrogata per un fatto che non è più considerato violazione punibile da una legge posteriore (art.3, comma 2°).

In forza del principio del favor rei, infine, se la legge posteriore prevede pene di diversa entità rispetto a quella anteriore, troveranno applicazione quelle di importo minore (art.3, comma 3°).

Responsabilità personale dell’autore della violazione

La novità di maggiore importanza ed interesse, introdotta dalla riforma, e che più di ogni altra ha fatto discutere, prima ancora della sua entrata in vigore, è quella della responsabilità personale dell’autore materiale della violazione.

L’art. 2 del D.Lgs. n.472, dispone, infatti, che le sanzioni tributarie sono “riferibili alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione”.

In altri termini, la responsabilità della violazione di una norma tributaria ricade direttamente sulla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione stessa; ad es. per le società aventi personalità giuridica, la responsabilità ricade sul rappresentante legale e negoziale o su colui che, di fatto, ha agito in nome e per conto (cioè nell’interesse) della società stessa (ad es. amministratori, direttori o responsabili amministrativi o finanziari, managers, dipendenti con particolari responsabilità ed incarichi).

Tale principio di carattere generale incontra un unico limite: in caso di violazione commessa senza dolo o colpa grave , la sanzione non può essere irrogata nei confronti della persona fisica per una somma eccedente i 100 milioni, salvo che la persona fisica non ne abbia tratto diretto vantaggio (art.5, comma 2°).

Peraltro, l’interpretazione ad oggi prevalente è quella di ritenere che, in caso di più violazioni accertate con distinti processi verbali, notificati in tempi diversi ed attinenti a distinte infrazioni, si dovrebbero comunque avere tanti e distinti “tetti” ciascuno da 100 milioni.

Il principio della responsabilità personale dell’autore materiale della violazione concorre con quello della responsabilità dei soggetti per conto dei quali la persona fisica ha (eventualmente) commesso la violazione.

Infatti, da un lato, secondo quanto disposto dall’art.11, comma 1° del decreto legislativo n.472, se l’autore della violazione è dipendente, rappresentante legale o amministratore e ha agito nelle sue funzioni o incombenze, sono obbligati al pagamento delle sanzioni anche il datore di lavoro o la società, salvo il loro diritto di regresso verso l’autore della violazione.

Dall’altro lato, l’art.11, comma 6° dispone che per i casi di violazione commessa senza dolo o colpa grave i rappresentati (ad es. le società) possono, preventivamente, assumere l’eventuale debito dell’autore della violazione.

In concreto, le società, attraverso l’adozione di una specifica delibera assembleare, possono comunque scegliere di assumersi ed accollarsi, nei confronti delle pubbliche amministrazioni o degli enti che gestiscono i tributi, il debito per sanzioni conseguenti a violazioni che i rappresentanti delle società commettono nello svolgimento delle loro mansioni.

L’assunzione del debito vale ovviamente solo nei casi in cui il rappresentante della società non abbia agito con dolo o con colpa grave.

Tale assunzione di debito si colloca, peraltro, nell’ambito di una espressa previsione legislativa (art.11, comma 6°), ed è opportuno effettuarla anche nell’interesse della società stessa che, in mancanza, rischierebbe di perdere la speditezza operativa.

Infatti, i rappresentanti ed i dipendenti della società, di fronte al timore ed al rischio di pesanti sanzioni irrogate per violazioni di norme commesse con colpa lieve, potrebbero assumere un atteggiamento talmente prudente da bloccare, o quanto meno, rallentare la regolare attività d’azienda.

L’autore mediato

Rapporto tra contribuente e consulente L’art.10 del Dlgs. n.472/97 dispone che, salve le norme relative al concorso di persone, è autore mediato della violazione, e quindi ne risponde in luogo dell’autore materiale, colui che determina la commissione di una violazione

: - usando violenza o minaccia;

- oppure avvalendosi di persona incapace di intendere o volere;

- oppure inducendo altri in errore incolpevole.

Focalizzando la nostra attenzione su quest’ultima ipotesi, una prima relazione ministeriale ha cercato di chiarire quali responsabilità possano gravare sul professionista (dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, consulenti fiscali o legali …) che fornisce, in materia tributaria, pareri o indicazioni al contribuente, inducendolo in un errore incolpevole da cui consegue la violazione di una norma di legge.

Orbene, la richiamata relazione ministeriale sostenendo che “non è prospettabile la responsabilità (del professionista) per i pareri resi e le indicazioni date nell’ambito della sua attività, se non nei casi di colpa grave” si limita, in realtà, a confermare il principio espresso dall’art.2236 c.c. secondo cui il professionista, se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, risponde dei danni solo nell’ipotesi in cui abbia tenuto un comportamento doloso o gravemente colposo.

Orbene, richiamando interamente il contenuto della nota n.2 per quanto riguarda i presupposti in presenza dei quali sussiste la colpa grave, si può fondatamente sostenere che, nell’ipotesi in cui il professionista sia chiamato ad esprimere pareri o a fornire indicazioni in materie opinabili ed oggetto di dubbi interpretativi, si debba comunque escludere la colpa grave del professionista stesso, e dunque la sua responsabilità in luogo dell’autore materiale della violazione.

Al contrario, nel caso in cui il professionista esprima un parere errato in materie di semplice comprensione, inducendo in questo modo in errore incolpevole il cliente, il professionista stesso può essere chiamato, ai sensi dell’art.10 del Dlgs.472/97) a rispondere direttamente della violazione commessa dal cliente.

Fermo quanto sopra, non posso sottrarmi dall’evidenziare che, comunque, la sfera di responsabilità professionale dei consulenti si amplierà notevolmente con l’entrata in vigore della riforma in esame.

Infatti, l’art.10 sopra richiamato deve essere letto ed interpretato anche alla luce del disposto dell’art.6 secondo cui “il contribuente, il sostituto ed il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’Autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”.

In base a tale norma, pertanto, il professionista potrebbe rispondere in proprio, per esempio, per l’omesso pagamento di imposte che gli sono state delegate ovvero per la commissione di qualsivoglia violazione fiscale, salvo che tali illeciti siano conseguenza di errore sul fatto non determinato da sua colpa o di obiettive condizioni di incertezza sulla portata delle disposizioni alle quali si riferiscono.

Anche i professionisti, peraltro, potranno tutelarsi da eventuali responsabilità dirette, concordando con il proprio assistito che questi, ai sensi dell’art.11 comma 6°, si assuma e si accolli, nei confronti dei soggetti che gestiscono i tributi, il debito per sanzioni conseguenti a violazioni commesse dal professionista nell’esecuzione del mandato conferitogli.

E ciò, attraverso, per esempio, l’inserimento di un’apposita clausola nel contratto di consulenza o di collaborazione stipulato con l’assistito.

Disposizioni transitorie

Come già segnalato nella premessa, la riforma delle sanzioni tributarie entrerà in vigore dal prossimo 1° aprile: peraltro, ai sensi dell’art.25 del D.Lgs n.427/97, gli effetti ed i principi sopra esposti troveranno applicazione non solo a tutte le violazioni non ancora contestate o a tutti quei fatti in cui la sanzione non è stata ancora irrogata, ma addirittura a tutti i procedimenti in corso.

In questa sede, mi limito a segnalare che tale effetto retroattivo contrasta, in modo stridente, con il principio generale di irretroattività sancito dall’art.3 dello stesso decreto legislativo, e fa sorgere numerosi dubbi interpretativi e di legittimità costituzionale per violazione dell’art.25 della carta costituzionale.

Riflessioni finali

Come si evince dalla succinta panoramica di considerazioni, i principi generali sottesi alla riforma in esame, ed in particolare quello della responsabilità personale dell’autore materiale della violazione e quello dell’autore mediato, fanno sorgere numerosi dubbi interpretativi e richieste di ulteriori chiarimenti da parte delle competenti autorità.

Peraltro, in attesa che si consolidino orientamenti giurisprudenziale in materia e che si affermi una prassi significativa nell’applicazione della riforma, ritengo quantomai opportuno propendere per un’interpretazione restrittiva e rigida dei principi sopra indicati.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Giugno 1998

Studio Legale GGM

[Maggio 1997] - Legge 675/96

CIRCOLARE N. 5 MAG97

LEGGE nr.675/1996 “TUTELA DELLE PERSONE E DI ALTRI SOGGETTI RISPETTO AL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI”

Premessa

Dall’ 8 maggio 1997 è in vigore la legge nr. 675/96 , relativa al c.d. trattamento di dati personali, con la quale il Legislatore ha voluto garantire che l’utilizzo di dati personali delle persone fisiche, delle persone giuridiche, degli enti e delle associazioni si svolga nel pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciute dal nostro ordinamento, e ciò con particolare riferimento al diritto di riservatezza e a quello dell’identità personale delle persone fisiche ed ai diritti delle persone giuridiche, degli enti e delle associazioni.

E’ quantomai opportuno, preliminarmente, evidenziare l’eccesso di zelo, ma nello stesso tempo la farraginosità e la contraddittorietà con cui il nostro Legislatore ha inteso recepire i principi della direttiva 95/46/Ce a cui si ispira la nuova legge.

Infatti, da una prima lettura della nuova normativa, emerge un’indubbia rigidità e confusione del tenore letterale della stessa con comprensibili ed evidenti ripercussioni nel suo ambito applicativo.

Molteplici rilievi critici, dubbi interpretativi ed espresse richieste di modifica promananti da associazioni commerciali ed industriali e da ordini professionali sono oggi al vaglio del Governo che per effetto di un’espressa delega prevista dalla nuova legge, dovrà, in futuro, certamente intervenire con provvedimenti modificativi sulla legge in esame o quanto meno con circolari esplicative.

Fermo quanto sopra, è comunque opportuno delineare, seppur in modo sintetico, i principi generali contenuti nel testo normativo in esame.

Ambito di applicazione La legge è destinata ad essere applicata ad una generalità di soggetti, e cioè alle persone fisiche (avvocati, commercialisti, medici, psicologi, giornalisti…), alle persone giuridiche, alla Pubblica Amministrazione, agli enti o associazioni che intendano procedere ad un c.d. “trattamento”, salve le eccezioni che verranno di seguito meglio precisate. Per “trattamento” si deve intendere una operazione, svolta con o senza l’ausilio di mezzi elettronici, concernente la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di “dati personali” (art.1).

Per “dato personale” si deve intendere, pur nella indeterminatezza del testo normativo, “qualunque informazione relativa a persone fisiche e giuridiche, enti, associazioni, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale” (art.1).

La nuova legge non trova, peraltro, applicazione:

I) al trattamento di “dati personali” effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali (agende elettroniche o cartacee, rubriche…), sempre che i dati non siano destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione. Per questi dati, tuttavia, è comunque previsto un obbligo di custodia per il cui inadempimento sono previste una responsabilità civile e l’applicazione di sanzioni penali (art.3);

II) al trattamento di “dati personali” effettuato da particolari soggetti, quali, a titolo esemplificativo, il Centro elaborazione dati di cui all’art.8 della legge 01.04.81 n.121, il servizio del casellario giudiziale, altri soggetti pubblici per finalità di difesa o di sicurezza dello Stato, o di prevenzione, accertamento o repressione dei reati, in base ad espresse disposizioni di legge che prevedano specificamente il trattamento (art.4)

Obblighi del soggetto che esegue il trattamento- notificazione e modalità del trattamento

A) Notificazione

Il “titolare”, ovverosia la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui competono le decisioni in ordine alle finalità e alle modalità del trattamento, che intenda procedere ad un trattamento di dati personali è tenuto a darne notificazione al Garante secondo precise e determinate modalità (art.7).

Peraltro, ai sensi dell’art.26 il trattamento, nonchè la cessazione del trattamento di dati concernenti persone giuridiche, enti o associazioni non sono soggetti all’obbligo di notificazione al Garante.

B) Modalità di trattamento

Il trattamento dei dati personali da parte dei privati o di enti pubblici economici (c.d. titolari del trattamento), realizzato dopo l’entrata in vigore della legge, è ammesso solo con il consenso del c.d. interessato ovverosia della persona fisica o giuridica cui si riferiscono i dati stessi, salve le deroghe espressamente previste dall’art.12 secondo cui il consenso non è richiesto quando il trattamento:

- riguarda dati raccolti e detenuti in base ad un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria;

- è necessario per l’esecuzione di obblighi derivanti da un contratto del quale è parte l’interessato o per l’acquisizione di informative precontrattuali attivate su richiesta di quest’ultimo, ovvero per l’adempimento di un obbligo legale;

- riguarda dati provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque;

- è finalizzato unicamente a scopi di ricerca scientifica o di statistica e si tratti di atti anonimi;

- è effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità;

- riguarda dati relativi allo svolgimento di attività economiche raccolti anche ai fini di informazione commerciale, di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta ovvero per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale interattiva (peraltro ai sensi dell’art.13 l’interessato, pur non essendo necessario il suo consenso per il trattamento, ha il diritto di opporsi all’utilizzo dei suoi dati ed ha il diritto di essere informato dal titolare della possibilità di esercitare gratuitamente tale diritto);

- è necessario per la salvaguardia della vita o dell’incolumità fisica dell’interessato o di un terzo, nel caso in cui l’interessato non può prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intenedere o di volere;

- è necessario ai fini dell’attività di investigazione di cui all’art.28 delle norme di attuazione del c.p.p.

Il consenso è validamente prestato se espresso in piena libertà, in forma specifica per iscritto e purchè siano state precedentemente comunicate all’interessato le finalità dell’utilizzo dei dati, le persone cui verranno trasmessi e qualsiasi altra informazione relativa al trattamento stesso.

L’interessato deve essere informato oralmente o per iscritto, prima dell’utilizzo dei suoi dati personali, circa le finalità e le modalità del trattamento, l’ambito di diffusione dei dati, nonchè i soggetti ai quali possono essere comunicati (art.10).

L’interessato ha diritto non solo ad essere informato in ordine alla notificazione al garante, ma anche di conoscere dell’esistenza di trattamenti che possono riguardarlo direttamente dal soggetto che li utilizza; ha, inoltre, il diritto di ottenere la cancellazione, o la trasformazione in forma anonima dei dati trattati in violazione di legge (art.13).

I dati personali, dopo essere stati registrati, devono essere trattati in modo lecito e secondo correttezza; devono essere esatti e aggiornati, pertinenti e completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti (art.9).

Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è soggetto, ex art.18 della legge, ad una responsabilità extracontrattuale ed tenuto al risarcimento ai sensi dell’art.2050 c.c. (responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa), salvo che non sia in grado di dare la prova di avere adottato tutte le misura idonee ad evitare il danno stesso

La legge, inoltre, ammette la risarcibilità anche di un danno non patrimoniale in caso di violazione delle norme relative alle modalità di trattamento (art.29).

Il trattamento di dati personali realizzato da soggetti pubblici, esclusi gli enti pubblici economici, è consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali; la comunicazione e la diffusione a soggetti pubblici, esclusi gli enti pubblici economici, dei dati trattati sono ammesse solo se previste da una legge o un regolamento, o risultino necessarie per lo svolgimento dei fini istituzionali (previa comunicazione al Garante) (art.27).

Una tutela speciale è prevista, poi, per i c.d. dati sensibili ovverosia quelli idonei a rivelare - come prevede l’art.22 - l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonchè i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Questi dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante. Per le deroghe a tale principio si veda la nota nr.4 .

Garante per la protezione dei dati

Il Legislatore ha istituito la figura del Garante al fine di assicurare la piena applicazione del disposto normativo: il Garante, operando in piena autonomia e con indipendenza di giudicato, deve istituire un registro generale dei trattamenti, controllare se i trattamenti siano effettuati nel rispetto delle norme di legge, ricevere le segnalazioni e i reclami degli interessati, adottare i provedimenti previsti dalla legge, denunciare i fatti configurabili reati perseguibili d’ufficio.

Per l’esecuzione dei propri compiti al Garante sono stati riconosciuti importanti poteri istruttori: ad esempio, può richiedere al responsabile del trattamento di fornire informazioni e di esibire documenti; qualora ricorra la necessità, può disporre accessi alle banche di dati, ispezioni o verifiche nel luogo ove si svolge il trattamento (art.31-32).

Sanzioni

L’ambito sanzionatorio si divide su più livelli: in primis, chiunque, essendone tenuto, non provveda alle notificazioni al garante ovvero indichi in esse notizie incomplete o non rispondenti al vero, è punito con la reclusione da tre mesi a due anni (art.34). In secondo luogo, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque al fine di trarne per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, proceda al trattamento di dati personali senza il consenso dell’interessato, è punito con la reclusione sino a due anni o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da tre mesi a due anni (art.35).

In terzo luogo se si omette di adottare le misure necessarie a garantire la sicurezza dei dati personali è prevista la reclusione fino a due anni; sono, infine, previste sanzioni di carattere amministrativo in caso di inosservanza dei provvedimenti del Garante (art.36)

Disposizioni transitorie

La legge in esame, come è già stato evidenziato, è entrata in vigore il giorno 8 maggio 1997: tuttavia, fermi i diritti dell’interessato ad essere informato dei trattamenti che possono riguardarlo, le disposizioni che prescrivono il consenso dell’interessato non si applicano in riferimento ai dati personali raccolti precedentemente alla data di entrata in vigore della legge stessa, o il cui trattamento sia iniziato prima di tale data (art.41).

Per i trattamenti svolti senza ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati che non riguardano i c.d. dati sensibili, le disposizioni della legge si applicano a decorrere dal 1 gennaio 1998 (art.45).

Le disposizioni che prevedono un’autorizzazione del Garante, inoltre, si applicano a decorrere dal 30 novembre 1997 .

In conclusione, una legge molto severa e mal formulata, ma nononostante ciò, in attesa che si consolidi un orientamento giurisprudenziale ed in assenza di una prassi significativa sull’applicazione della legge in esame, ritengo quantomai opportuno propendere, al fine di non incorrere in pesanti sanzioni, per una interpretazione restrittiva e rigida dei principi dianzi indicati, e ciò alla luce anche delle preannunciate integrazioni e correzioni alla legge.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Maggio 1997

Studio Legale GGM

[Novembre 1996] - Dlgs 23/10/96 n° 581

CIRCOLARE N. 4 NOV96

DECRETO LEGISLATIVO 23 OTTOBRE 1996, n. 581 PER IL COORDINAMENTO DI ALCUNE NORME IN MATERIA DI DIRITTO D’AUTORE E DIRITTI CONNESSI, APPLICABILI ALLA RADIODIFFUSIONE E ALLA RITRASMISSIONE VIA CAVO

Il decreto legislativo in oggetto riveste una particolare importanza nel vasto panorama della normativa sul diritto d’autore e sui i diritti connessi poichè ha mutato, integrato e novellato la Legge sul Diritto d’Autore nello sforzo di regolamentare la telecomunicazione via satellite che, attualmente, rappresenta uno dei mezzi tecnologici di diffusione e di trasmissione del segnale più efficace.

La ratio sottesa alla Direttiva comunitaria, il cui recepimento ha dato luogo al decreto legislativo de quo, era quella di garantire che tutti gli Stati della comunità assicurassero “la libertà di ricezione delle trasmissioni” e non ostacolassero “la ritrasmissione sul proprio territorio di trasmissione televisive provenienti da altri stati membri”. Si voleva promuovere, inoltre, la crezione e la distribuzione dei programmi della UE e garantire la tutela del diritto d’autore nell’ambito delle diffusioni transnazionali.

Orbene, passando all’esame del contenuto del decreto legilsativo, è necessario all’uopo distinguere il diritto di diffusione via satellite dal diritto di ritrasmissione via cavo.

In materia di telecomunicazione via satellite esiste, infatti, una dicotomia tecnica tra i satelliti di diffusione diretta ed i satelliti di telecomunicazione: i primi captano, trasformano e riemettono segnali direttamente accessibili ai privati forniti di speciale antennna (in questo contesto si parla di diritto di diffusione); i secondi, invece, riflettono i segnali provenienti da una stazione terrestre ad altre stazioni che li ritrasmettono via cavo o via etere agli utilizzatori/utenti (diritto di ritrasmissione via cavo).

Per quanto concerne il diritto di diffusione l’art. 3 del decreto legislativo dispone con una formula di ampio respiro che “agli autori di opere cinematografiche ed audiovisive, in caso di cessione del diritto di diffusione al produttore, spetta, per ciascuna utilizzazione delle opere stesse a mezzo della comunicazione al pubblico via etere, via cavo e via satellite, un equo compenso a carico del produttore o del cessionario dei suoi diritti”.

Emerge, dunque, l’intenzione di assicurare al produttore, amplius all’autore di un’opera protetta dal diritto d’autore una tutela erga omnes integrale che impedisca a terzi di sfruttare l’opera stessa trasmettendola (via satellite) liberamente ovverosia senza corrispondere a quest’ultimo un equo compenso determinato o in via convenzionale o in via legale e senza una autorizzazione dell’autore stesso espressamente richiesta dall’art. 4 del decreto .

Viene, in altri termini, riconosciuto a favore degli autori delle opere diffuse attraverso il satellite un diritto esclusivo, pieno, qualificato, da una parte della dottrina, nei termini di un diritto di comunicazione pubblica.

In ordine, invece, al diritto di ritrasmissione via cavo, rectius all’esercizio del diritto di ritrasmissione simultanea, invariata ed integrale per il tramite di un sistema di ridistribuzione via cavo, l’art. 4 del decreto prevede, come per il diritto di diffusione via satellite, la condizione che l’autore abbia rilasciato l’autorizzazione; tale autorizzazione “è concessa - recita il disposto dell’art. 9 - mediante contratto tra i titolari dei diritti d’autore, i detentori di diritti connessi ed i cablodistributori”.

Anche in questo caso si tratta di un diritto pieno, esercitabile, tuttavia, in Italia, esclusivamente attraverso la Società italiana degli autori ed editori (art.11) che è deputata, essendo l’unica società di gestione operante, ad autorizzare o vietare la ritrasmissione di programmi.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Novembre 1996

Studio Legale GGM

[Luglio 1996] - Giurisprudenza societaria

CIRCOLARE N. 3 LUG96

SEGNALAZIONE DI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI IN MATERIA SOCIETARIA

Si segnalano due recenti sentenze della Corte di Cassazione civile, in materia societaria, di notevole portata innovativa, da cui possono derivare significative conseguenze giuridiche.

- La prima del 20.7.1995 n. 7890, solo di recente pubblicazione, prevede l’efficacia della clausola, contenuta nello statuto di una società per azioni, che rimetta al giudizio degli organi sociali il potere di permettere o vietare il trasferimento delle azioni allorchè, “pur senza prevedere che l’esercizio di tale potere sia correlato a criteri prestabiliti, la clausola prescriva che, in caso di rifiuto dell’autorizzazione, la società debba designare altro acquirente delle medesime azioni in luogo di quello non gradito.

” Nel caso di specie la clausola di gradimento statuiva che, ove non ci fosse stato il placet degli organi sociali al trasferimento delle azione al terzo acquirente, il consiglio di amministrazione avrebbe indicato un diverso acquirente disposto ad acquistare le azioni al prezzo di mercato ovvero al prezzo determinato da agenti di borsa.

Indiscutibilmente, la sentenza de qua colma una grave lacuna dell’art. 22 legge 4 giugno 1985 n. 281 che prevedendo il divieto, ergo l’inefficacia delle c.d. clausole di “mero gradimento” (ovverosia delle clausole contenute negli statuti delle S.p.a. tese a subordinare gli effetti del trasferimento delle azioni al mero gradimento degli organi sociali) non precisa però in che cosa consista e quali siano gli estremi di una clausola di mero gradimento.

La S.C. assume una precisa posizione proprio in questa prospettiva: affinchè una clausola di gradimento sia valida ( e non possa, dunque, essere considerata inefficace perchè di “mero gradimento”) è sufficiente che assicuri comunque al socio la possibilità di cedere le proprie azioni, anche se a persona diversa da quella da lui originariamente prescelta come acquirente.

In altri termini la società può immotivatamente rifiutare l’acquirente delle azioni designato dal socio purchè indichi altro acquirente delle medesime azioni in lugo di quello non gradito.

Quid pluris?

Nella clausola di gradimento considerata valida dalla S.C., ed è questo l’aspetto censurabile della sentenza, non è previsto che il diverso aquirente indicato dalla società debba pagare al socio alienante il medesimo prezzo da quest’ultimo concordato con il compratore non gradito dagli organi sociali.

Al contrario, il prezzo di vendita delle azioni sarà quello di mercato (indice ambiguo e contradditorio) ovvero verrà determinato da agenti di cambio in veste di arbitratori; il socio, dunque, rimane “prigioniero” della società non potendo liberamente alienare le proprie azioni al prezzo concordato con l’acquirente, ma rimanendo vincolato o ad un valore fuggente e di difficile determinazione (il valore di mercato) o addirittura alla (incontrollabile) determinazione di terzi.

La S.C. ha posto, in questo modo, una notevole limitazione alla circolazione delle azioni ed un grande freno all’autonomia negoziale dei soci di una società per azioni.

- La seconda sentenza della S.C. che reputo opportuno segnalare è la numero 2001 dell’11 marzo 1996 in forza della quale “il trasferimento a titolo gratuito di risorse da una società ad altra appartenenente al medesimo gruppo non costituisce una donazione ai sensi dell’art. 769 c.c. e non necessita dei requisiti di forma qualora l’operazione sia stata posta in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo, ovvero risulti preordinata al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, anche mediato ed indiretto, della società cedente.

” Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, ed anche questa è una posizione senza precedenti, non sussisterebbero, nel caso di trasferimento a titolo gratuito di risorse da una società ad un’altra società appartenenti allo stesso gruppo, nè lo spirito di liberalità, condicio sine qua non della donazione, nè il depauperamento del presunto donante.

Non sarebbe riscontrabile il primo elemento poichè la decisione di arricchire sarebbe assunta da una società su segnalazione di un soggetto (società controllante) dotato di influenza dominante sul decidente; non si verificherebbe il secondo perchè nell’economia di un grupppo societario le operazioni svolte tra le società implicano compensazioni anche a favore della società (solo apparentemente) sacrificata.

Giuridicamente, dunque, seguendo tale orientamento giurisprudenziale, nel caso di trasferimento a titolo gratuito di risorse da un società ad un’altra appartenente allo stesso gruppo, non si porrebbe in essere una donazione (con la conseguente impossibilità di assoggettare l’operazione alle imposte previste dagli artt. 55 ss. del D.Lgs. 31.10.1990 n. 346 ) bensì un negozio traslativo atipico.

La Cassazione, in questo senso statuendo, è arrivata, per la prima volta, a conferire una rilevanza giuridica al c.d. interesse di gruppo (ad un interesse cioè che trascende e travalica quello delle singole società appartenenti ad un gruppo) dal momento che l’atto a titolo gratuito posto in essere da una società a favore di un’altra appartenenente allo stesso gruppo soddisfa un bisogno, rectius una logica di gruppo.

In altri termini, l’interesse del gruppo è idoneo (da solo) a giustificare un’attribuzione patrimoniale da un soggetto ad un altro anche in assenza dello spirito di liberalità o di una controprestazione sinallagmatica.

La rilevanza giuridica dell’interesse di gruppo, tuttavia, potrebbe minare e contrastare l’interesse dei soci di minoranza che rimarrebbero penalizzati da scelte economiche degli amministratori operate in virtù della logica di gruppo, e non nell’interesse della singola società amministrata.

Non ci si può esimere dal rilevare, inoltre, che la sentenza in esame è decisamente in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui gli amministratori di una controllata comunque devono perseguire, a rischio di una azione di responsabilità ex art. 2392 c.c., esclusivamente l’interesse della propria società (Cass. 13.02.1992 n. 1759).

Infatti, “la legittimità degli atti compiuti dagli amministratori della società va valutata esclusivamente in rapporto a quest’ultima, per cui negozi ingiustificatamente depauperativi di detta società posti in essere dai suoi amministratori non possono ritenersi consentiti” (App. Milano, 09.09.1988, App. Milano 30.09.1988).

Orbene, alla luce della sentenza della Cassazione in esame, come verrà, assicurato il difficile equilibrio tra le holdings e le società controllate? Quale tutela riceveranno i soci di minoranza? Quali responsabilità saranno configurabili in capo agli amministratori della controllata nel caso effettuino scelte in contrasto con gli interessi della società dagli stessi amministrata?

Sarà importante, in tale ottica, verificare quale orientamento si consoliderà nella giurisprudenza di legittimità e di merito.

Considerata la complessità e le continue innovazioni in relazione alla materia trattata, lo studio rimane a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento o chiarimento che si dovesse rendere necessario.

Milano , Luglio 1996

Studio Legale GGM