[Settembre 2001] - Divieto di concorrenza nei casi di trasferimento delle quote sociali
Recenti pronunce della Corte di Cassazione, hanno dato avvio ad un nuovo orientamento giurisprudenziale volto a riconoscere la possibilità di un’applicazione analogica dell’art. 2557 c.c., smentendo pertanto il carattere di eccezionalità fino ad adesso attribuito alla suddetta norma.
L’articolo stabilisce che “chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa, che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta”.
La finalità della norma, nonostante l’ambiguità lessicale del legislatore che fa espresso riferimento al trasferimento dell’azienda, è quello di tutelare il trapasso dell’impresa nelle sue componenti vitali di attività e di organizzazione. Il soggetto che acquista l’azienda, non acquista soltanto un complesso di beni, bensì acquista tutte le attività per i quali gli stessi beni sono destinati. Con il trapasso dell’azienda pertanto, il soggetto acquirente diviene titolare, oltre che dei beni, anche del cosiddetto avviamento dell’azienda, che viene considerato parte integrante dell’impresa. E’ proprio l’avviamento dell’attività che la maggior parte della giurisprudenza ritiene essere il vero bene tutelato da tale disposizione.
Parte della dottrina distingue tra un avviamento oggettivo, che viene ad aderire ai beni nella loro organizzazione, e un avviamento soggettivo, legato alla persona dell’imprenditore e alle sue qualità personali: è con riferimento a quest’ultimo che la legge imporrebbe il divieto di concorrenza. Si pensi infatti a quelle attività che sono fortemente caratterizzate dalla personalità del titolare, una cessione d’azienda, non accompagnata dal divieto di concorrenza renderebbe il bene ceduto un “nudus nomen “.
Con la pronuncia 549/97 la Corte di Cassazione ha appunto riconosciuto i seguenti principi: 1)che l’art 2557, non è norma eccezionale derogatrice del principio della libertà di concorrenza, presupposto nell’art. 2596 c.c. e più in generale della libertà di iniziativa economica privata (art 41 Costituzione); 2) che è astrattamente ammissibile l’applicazione analogica di tale norma alla cessione di quote sociali; 3) che tale cessione deve concretare un caso simile all’alienazione di azienda prevista dalla norma; 4) che tale equiparazione va accertata dal giudice in concreto.
La Corte infatti ha affermato che tanto l’art.2557 c.c., che l’art 2596 c.c., non disciplinano l’attività concorrenziale intesa in sé e per sé, cioè l’attività concorrenziale dei singoli soggetti la quale è e rimane libera, ma l’attività concorrenziale di due soggetti determinati i quali volontariamente hanno stipulato un contratto che contiene espressamente il divieto di concorrenza, (ipotesi prevista dall’art.2596 c.c.) oppure che presuppone implicitamente un tale divieto ( ipotesi dell’art 2557 c.c.).
Da simili considerazioni, la Corte deduce che le norme in questione non derogano il principio di libera concorrenza, ma disciplinano nel modo più congruo la portata di quegli stessi effetti che le parti avevano esplicitati o che avevano ritenuti essere connaturali al rapporto.
Anche con la più recente pronuncia del 24 luglio 2000 n. 9862, la Corte ha ribadito l’astratta applicabilità del divieto di concorrenza alla fattispecie della cessione di quote di partecipazione societaria, cassando con rinvio un provvedimento nel quale una tale applicabilità era stata negata.
A tal fine, la Corte ritiene necessario uno specifico accertamento del giudice volto ad analizzare e verificare che con il trasferimento di quote societarie si sia integrata una vicenda analoga a quella prevista dall’art. 2557 c.c.
“Infatti indipendentemente dalla natura giuridica della società in questione ovvero dal fatto che essa sia di persone o di capitali, non può escludersi che attraverso la forma della cessione di quote si pervenga in realtà all’obiettivo di cedere una precipua attività d’impresa. La concorrenza del cedente può realizzare in astratto analoga pericolosità per l’effettivo dispiego del diritto di impresa a danno del cessionario, attraverso analoga possibilità di sviamento della clientela.”
E’ sicuramente apprezzabile il lavoro della giurisprudenza, la quale ha elevato la norma contenuta nell’art.2557 c.c., a norma di garanzia di un libero mercato, per tutelare proprio quel principio di libertà di iniziativa economica privata.
La Corte non ha però identificato nel concreto quali sono i criteri che il giudice dovrà prendere come riferimento al fine di poter individuare i casi simili alla cessione di azienda, lasciando come spesso accade, nelle mani dei magistrati un compito delicato e di non facile soluzione.
Anche se è impossibile prevedere in astratto dei rigidi criteri entro i quali vincolare la discrezionalità dei giudici, anche perché questi stessi dovranno necessariamente confrontarsi con le singole fattispecie e modellarsi sulla base di queste, quanto meno però, il giudice dovrà verificare innanzitutto 1) il passaggio di titolarità dell’impresa da un soggetto all’altro, quindi la concreta sostituzione di un soggetto all’altro nella conduzione della struttura aziendale, 2) il verificarsi di una attività concorrenziale, volta a ledere il diritto di impresa del cessionario, attraverso la possibilità di uno sviamento della clientela.
Una nuova prospettiva giuridica, sul tema dello sviamento della clientela, è stata data recentemente da una pronuncia del Tribunale di Milano che, ha respinto la richiesta di un provvedimento cautelare volto ad inibire al socio uscente lo svolgimento di una analoga attività imprenditoriale, in quanto “una graduale uscita” del socio dalla società, cioè mediante successivi trasferimenti di tranches di quote societarie, non ha comportato in realtà la sostituzione di un soggetto ad un altro nella gestione dell’azienda.
Poichè da un esame dell’organigramma societario, risultava inoltre, una partecipazione all’amministrazione apparentemente paritetica tra i due soci, la dimostrazione di una tale sostituzione nella impresa, avrebbe richiesto la prova degli effettivi rapporti societari e delle concrete modalità di gestione dell’impresa sociale, che nel caso di specie non è stata data dalla parte ricorrente.
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